Il principio del ragionevole dubbio a quasi dieci anni dalla modifica dell’art. 533 c.p.p.: lo stato dell’arte

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Scopo del presente scritto è quello di fare “il punto della situazione” in merito al principio del ragionevole dubbio dopo che sono passati quasi dieci anni dalla modifica dell’art. 533, co. 1, c.p.p. avvenuta per effetto dell’art. 5 della l. 20 febbraio 2006, n. 46 con cui, come è noto, è stato stabilito che il «giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli  al di là di ogni ragionevole dubbio»[1].

E’ interessante infatti evidenziare come questo principio di diritto si sia evoluto, sebbene non in maniera costante, in questi anni nell’ottica di una sua progressiva autonomia da istituti analoghi o, meglio, ad esso strettamente afferenti come l’insufficienza o la contradditorietà della prova richiesta per poter emettere, come è risaputo, una pronuncia assolutoria.

Posto ciò, subito dopo che l’entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, venne subito rilevato, in sede nomofilattica, che il riferimento all’inciso “al di là di ogni ragionevole dubbio”, come condizione necessaria per poter emettere una sentenza di condanna, non rappresentasse un elemento di novità nello scenario giuridico nostrano essendo stato rilevato che la «modifica dell’art. 533 c.p.p. ad opera dell’art. 5, l. n. 46 del 2006, con la previsione che il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, ha carattere meramente descrittivo, più che sostanziale, dato che anche in precedenza il «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava il proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p.»[2].

In particolare, venne rilevato da parte della Corte di Cassazione che, con l’introduzione di questo principio, il legislatore non avesse altro che formalizzato «in legge un principio già acquisito, presente da anni con sempre maggiore frequenza nella giurisprudenza di questa Corte ed incontestabile anche alla stregua delle Convenzioni Internazionali sottoscritte dall’Italia, per cui nel giudizio la condanna dell’imputato è possibile soltanto qualora vi sia la certezza processuale della responsabilità dell’imputato, mentre quando la prova è incompleta si impone la assoluzione (v. per tutte Cass. n. 43324/2005, omissis; Cass. n. 41052/2005, omissis; Cass. n. 41176/2005, omissis; Cass. sez. 6^, n. 1518/1997 Rv. 208144; Cass. sez. 2^, n. 3777/1995, Rv. 203118)»[3].

In altri termini, venne specificato, sempre in sede di legittimità, come la regola dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” imponesse «di pronunciare condanna, quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana»[4] in guisa tale che, come anche qui già «espresso in alcune recenti sentenze delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. Un. 21 aprile 1995, n. 11, rv. 202001; Cass., Sez. Un. 10 luglio 2002, n. 30328, rv. 222139; Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2003, n. 45276, rv. 226094)»[5], il «procedimento logico, (…) non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 c.p.p., comma 2, (…) deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale, quindi alla “certezza processuale” che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio»[6].

Tal che, anche alla luce di questo orientamento nomofilattico preesistente alla riforma del 2006, i giudici di legittimità ordinaria, partendo dal presupposto secondo cui «la prova indiziaria è quella che consente la ricostruzione del fatto in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili (Cass. 2 marzo, 1992, n. 3424, rv. 189682; Cass. Sez. 6^, 8 aprile 1997, n. 1518, rv.208144; Cass. Sez. 2^, 10 settembre 1995, n. 3777, rv. 203118)»[7], sono giunti a rilevare – proprio alla luce del fatto che «la regola di giudizio dell’”oltre il ragionevole dubbio” pretende percorsi epistemologicamente corretti, argomentazioni motivate circa le opzioni valutative della prova, giustificazione razionale della decisione, standard conclusivi di alta probabilità logica in termini di certezza processuale, essendo indiscutibile che il diritto alla prova, come espressione del diritto di difesa, estende il suo ambito fino a comprendere il diritto delle parti ad una valutazione legale, completa e razionale della prova»[8] – «la stretta correlazione, dinamica e strutturale esistente tra la regola dell’ “oltre il ragionevole dubbio” e le coesistenti garanzie, proprie del processo penale, rappresentate: a) dalla presunzione di innocenza dell’imputato, regola probatoria e di giudizio collegata alla struttura del processo e alle metodiche di accertamento del fatto; b) dall’onere della prova a carico dell’accusa; c) dalla regola di giudizio stabilita per la sentenza di assoluzione in caso di “insufficienza”, “contraddittorietà” e “incertezza” della prova d’accusa (art. 530 c.p.p., commi 2 e 3), secondo il classico canone di garanzia in dubio pro reo; d) dall’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie e della necessaria giustificazione razionale delle stesse»[9].

Si riteneva dunque come un principio di questo tipo non comportasse peculiari specifici effetti sul piano giudiziale considerato che, come appena esposto prima, «già esisteva la regola per cui in caso di insufficienza o di contraddittorietà della prova l’imputato deve essere assolto (art. 530 c.p.p., comma 2)»[10].

Tuttavia, questa sorta di giustapposizione tra siffatte norme procedurali (vale a dire gli articoli 530 e 533 c.p.p.) sembra essere stata messa successivamente in dubbio almeno in alcune pronunce emesse (sempre) dal Supremo Consesso.

In effetti, nella sentenza n. 48320 del 12 novembre del 2009, la IV sezione penale della Cassazione prendendo atto, per un verso, che «il legislatore aveva già disciplinato un analogo criterio per l’assoluzione stabilendo che, al di sotto di un determinato standard probatorio il giudice deve assolvere (art. 530 c.p.p.: quando la prova manca, o è insufficiente o è contradditoria)»[11] mentre adesso «ha previsto il criterio per la sentenza di condanna che è subordinata all’insussistenza di un dubbio o alla sua non ragionevolezza»[12], per altro verso, che «non è possibile stabilire una netta linea di demarcazione che separi le due situazioni e che esisteranno sempre le situazioni di confine»[13], ha evidenziato, seppur non espressamente, come queste due ipotesi procedurali siano da doversi considerare autonomamente dal momento che, «per pervenire alla condanna, il giudice non solo deve ritenere non probabile l’eventuale diversa ricostruzione del fatto che conduce all’assoluzione dell’imputato ma deve altresì ritenere che il dubbio su questa ipotesi alternativa non sia ragionevole (deve cioè trattarsi di ipotesi non plausibile o comunque priva di qualsiasi conferma)»[14].

Al contempo, non può non sottolinearsi che, se in talune pronunce successive, la Corte ha affermato il precedente indirizzo postulando quanto esposto in precedenza ossia che, per quello che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, «non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato»[15], in altre decisioni, ha al contrario rimarcato tale distinguo rilevando in particolar modo che, in «tema di valutazione della prova, deve escludersi che, in presenza della regola dettata dall’art. 533 c.p.p., secondo cui non può pronunciarsi condanna se non quando l’imputato risulti colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”, il giudice di merito, a fronte di più ipotesi ricostruttive del fatto, possa limitarsi, per addivenire ad una pronuncia di condanna, a recepire quella ritenuta più probabile, dovendo egli darsi cura anche di mettere in luce la implausibilità di ogni ipotesi alternativa e, quindi, la irragionevolezza del dubbio che essa possa avere fondamento»[16].

Difatti, se la valutazione, circa l’implausibilità di ipotesi alternative del fatto, allude ad un grado di valutazione della prova che, andando al di là di quello richiesto per verificarne la sua insufficienza o contradditorietà, riguarda «esclusivamente l’individuazione del livello probatorio o indiziario richiesto perchè si possa legittimamente pervenire ad una sentenza di condanna in base ai fatti accertati dal giudice di merito»[17], il vizio di travisamento della prova, all’opposto, può riguardare «l’affermazione dell’esistenza di una prova che non esiste o di un risultato di prova incontrovertibilmente diverso da quello ritenuto dal giudice di merito»[18] ossia proprio il caso in cui non vi sia la prova per poter condannare taluno o essa sia contraddittoria dato che «le statuizioni di dubbio sulla prova (insufficiente o contraddittoria) sono equiparate alla mancanza di prova»[19].

E’ evidente che, aderire all’una piuttosto che all’altra tesi ermeneutica, può comportare considerevoli conseguenze pratiche dato che, per l’una, il giudizio prognostico è praticamente eguale a quello già richiesto a norma dell’art. 530 c.p.p., per l’altra, invece, come appena esposto, è necessario un quid pluris ossia si deve appurare, non solo remota la ricostruzione del fatto così come contestata, ma che vi sia altresì una ragionevole ipotesi fattuale alternativa (sempreché idonea ad escludere la responsabilità penale dell’imputato).

Ad ogni modo, senza entrare nel merito di quali delle due tesi possa considerarsi preferibile, sarebbe forse opportuno che su tale problematica giuridica intervenissero le Sezioni Unite per chiarire quale dei due orientamenti debba essere applicato e dunque al fine di dirimere questo contrasto interpretativo.

Per di più, la rilevanza di tale principio, proprio perché deve connotare tutte le sentenze di condanna e non solo quella di primo grado stante il chiaro tenore letterale dell’art. 533, co. 1, c.p.p., non può che rilevare in tutti i gradi di giudizio ordinario nonché eventuali giudizi introdotti a seguito di impugnazione straordinaria.

A questo riguardo si può osservare ad esempio  come sia stato asserito in sede di legittimità che: a) che, nel giudizio di secondo gradi, quando resta immutato il materiale probatorio acquisito al processo, «il giudice d’appello deve confrontarsi espressamente con il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, non limitandosi pertanto (…) ad una rilettura di tale materiale, quindi ad una ricostruzione alternativa, ma spiegando perchè, dopo il confronto puntuale con quanto di diverso ritenuto e argomentato dal giudice che ha assolto, il proprio apprezzamento è l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano caratterizzato il primo giudizio minandone conseguentemente la permanente sostenibilità»[20]; b) il «principio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” non può essere utilizzato, nel giudizio di legittimità, per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto emerse in sede di merito su segnalazione della difesa, se tale duplicità sia stata oggetto di puntuale e motivata disamina da parte del giudice di appello»[21] e quindi, è onere dell’imputato in questa sede «fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali»[22]; c) la «revisione della sentenza di condanna é ammessa anche se l’esito del giudizio possa condurre al ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell’imputato a causa dell’insufficienza, dell’incertezza o della contraddittorietà delle prove d’accusa»[23].

In conclusione, il principio del ragionevole dubbio, come limite per poter emettere una sentenza di condanna, rappresenta sicuramente un criterio fondamentale in quanto la regola introdotta, per effetto della modifica dell’art. 533, co. 1, c.p.p., nel non significare altro che «l’ordinamento – se tollera l’assoluzione del colpevole – non tollera però la condanna dell’innocente»[24], rappresenta un principio basilare per il nostro sistema processualpenalistico che è volto anche a garantire l’imputato dal rischio di essere condannato per un fatto che non è stato per l’appunto accertato al di là di ogni ragionevole dubbio.

 


[1]Sull’argomento, in dottrina, vedasi: F. CAPRIOLI, L’accertamento della responsabilità penale “oltre ogni ragionevole dubbio”, Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.1, 2009, pag. 51;  M. PISANI, Riflessioni sul tema del “ragionevole dubbio”, Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.4, 2007, pag. 1243; D. CHINNICI, L’”oltre ogni ragionevole dubbio”: nuovo criterio del giudizio di condanna?, in Dir. pen. proc., 2006, p, 1556; V. GAROFOLI, Dalla non considerazione di colpevolezza alla regola dell’oltre il ragionevole dubbio, Dir. Pen. Proc., 2010, 9 , pag 1029 e ss.; N. SALIMBENI, Ragionevole dubbio e motivazione sulla prova indiziaria, Dir. Pen. Proc, 2011, 2, 203. 

[2]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 21 aprile 2006 (dep. 7 giugno 2006), n. 19575, in Cass. pen., 2007, 6, 2575.

[3]Cass. pen.,  sez. I, sentenza ud. 11 maggio 2006 (dep. 14 giugno 2006), n. 20371, in Guida al diritto, 2012, 31, 75.

[4]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 8 maggio 2009 (dep. 9 giugno 2009), n. 23813, in CED Cass. pen., 2009;
Cass. pen., 2010, 5, 1910.

[5]Ibidem.

[6]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 8 maggio 2009 (dep. 9 giugno 2009), n. 23813, in CED Cass. pen., 2009;
Cass. pen., 2010, 5, 1910. Sull’argomento, vedasi: N. SALIMBENI, Ragionevole dubbio e motivazione sulla prova indiziaria, Dir. Pen. Proc, 2011, 2, 203. 

[7]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 8 maggio 2009 (dep. 9 giugno 2009), n. 23813, in CED Cass. pen., 2009;
Cass. pen., 2010, 5, 1910.

[8]Ibidem.

[9]Ibidem.

[10]Cass. pen.,  sez. I, sentenza ud. 28 giugno 2006 (dep. 13 settembre 2006), n. 30402, in CED Cass. pen., 2006.

[11]Cass. pen., sez. IV, sentenza ud. 12 novembre 2009 (dep. 17 dicembre 2009), n. 48320, in CED Cass. pen., 2009;
Cass. pen., 2011, 2, 678.

[12]Ibidem.

[13]Ibidem.

[14]Ibidem.

[15][15]Cass. pen.,  sez. II, sentenza ud. 9 novembre 2012 (dep. 13 febbraio 2013), n. 7035, in  Cassazione Penale, 2013, 7-8, 2731;
CED Cassazione penale, 2012;
Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2014, 1, 361. 

[16]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 14 maggio 2015 (dep. 10 giugno 2015), n. 24554, in Archivio della nuova procedura penale, 2015, 5, 458.

[17]Ibidem.

[18]Ibidem.

[19]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 28 aprile 2005 (dep. 23 giugno 2005), n. 23661, in CED Cass. pen. 2005.

[20]Cass. pen., sez. VI, sentenza ud. 24 gennaio 2013 (dep. 21 febbraio 2013), n. 8705, in Diritto e Giustizia, online 2013, 22 febbraio.

[21]Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 11 luglio 2014 (dep. 23 dicembre 2014), n. 53512, in CED Cassazione penale, 2015.

[22]Cass. pen., sez. V, sentenza ud. 19 febbraio 2004 (dep. 8 maggio 2004), n. 18999, in CED Cassazione penale, 2015.

[23]Cass. pen., sez. V, sentenza ud. 22 gennaio 2013 (dep. 26 marzo 2013), n. 14255, in CED Cassazione penale, 2013. Sull’argomento, vedasi: F. D’ALESSANDRO, L’oltre ogni ragionevole dubbio nella revisione del processo, Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 6855, 682 e ss.  

[24]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 14 maggio 2015 (dep. 10 giugno 2015), n. 24554, in Archivio della nuova procedura penale, 2015, 5, 458.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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