La Cassazione con la sent. 29709 del 15/11/2019 pone ancora una volta l’attenzione sul “consenso informato”, cioè l’obbligo di informare il paziente in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico o diagnostico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative. Ciò con l’obbiettivo di indurre la necessaria consapevolezza nella persona che non ha cognizione tecnica, per informarla adeguatamente dal punto di vista tecnico rispetto al caso concreto in cui si trova.
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Il principio di diritto
La Suprema Corte ha così espresso il principio di diritto:
“il sanitario, al di fuori delle eccezioni previste dall’ordinamento (intervento urgente senza possibilità di informare alcuno, neppure incaricato dalla persona che ne ha necessità o comunque ad essa prossimo; casi specifici stabiliti dalla legge ai sensi dell’art. 32 Cost., comma 2), ha sempre l’obbligo di informare, in modo completo e adeguato, la persona su cui si appresta ad espletare la sua attività sanitaria o su cui già l’ha esercitata – sia in forma diagnostica che in forma terapeutica -, in quest’ultima ipotesi dovendo rappresentarle le possibili conseguenze e le possibili prosecuzioni di attività diagnostica e/o terapeutica; obbligo che, pertanto, non può essere mai scisso dall’obbligo di espletare correttamente l’attività sanitaria in senso tecnico, per cui il sanitario che ha espletato in modo corretto la sua attività sanitaria in senso tecnico ma non ha fornito l’adeguata informazione alla persona interessata è sempre inadempiente nella responsabilità contrattuale, mentre in quella extracontrattuale viola sempre il diritto costituzionale di autodeterminazione, limite della sua autonomia professionale”.
Il caso
Il caso preso in esame dalla Corte, a proposito dell’attività diagnostica, è relativo ad uno stato di gravidanza in cui il medico ometta di segnalare alla gestante l’esistenza di più efficaci test diagnostici prenatali.
Specificamente la gestante con atto di citazione conveniva in giudizio il ginecologo incaricato di seguirla durante la gravidanza, chiedendo l’accertamento del suo inadempimento contrattuale e la sua condanna al risarcimento dei danni per la mancata diagnosi di una grave malformazione cardiaca del feto e la mancata considerazione degli esiti del c.d. tri-test, che aveva segnalato un rischio superiore al normale di sindrome di Down, condanna che veniva chiesta avendo l’inadempimento del ginecologo impedito alla paziente di esercitare il suo diritto di interruzione volontaria di gravidanza; in subordine veniva addotta la responsabilità extracontrattuale del ginecologo.
Quindi l’attrice lamentava che il ginecologo non aveva informato la paziente dell’ “inadeguatezza diagnostica dei dati complessivamente raccolti” (con il c.d. tri test) e nel non averla informata di tutte le esistenti possibilità diagnostiche prenatali.
La gestante aveva informato il ginecologo di non essere disponibile alla gravidanza se il feto avesse avuto malformazioni, ed i procedimenti diagnostici posti in essere si erano rilevati inadeguati, considerato che figlio nasceva affetto dalla sindrome di Down, nonché da malformazione cardiaca e asimmetria dei bacinetti renali.
L’obbligo informativo
La Suprema Corte con la sent. 29709 del 15/11/2019 sottolinea che la predetta informazione sanitaria deve riguardare non solo il percorso teraupetico ma anche l’attività prodromica alla cura cioè dell’attività diagnostica.
Ha, a tale proposito , chiarito che “ nell’attività sanitaria, sia di diagnosi, sia di cura, è incluso l’obbligo informativo, il cui inadempimento lede comunque il diritto a esercitare la propria volontà di per sè – in questo settore denominato diritto di autodeterminazione – e inoltre, a seconda del plus mancante nella informazione, può anche condurre alla lesione del diritto alla salute. Non è pertanto sostenibile che una cosa sia diagnosticare e un’altra sia informare, per cui sarebbero ipotizzabili – come prospetta la corte territoriale – due inadempimenti diversi da parte del sanitario dei suoi obblighi professionali, convogliati che siano nell’area contrattuale (o da contatto) o in quella aquiliana. L’informazione, ovvero suscitare la consapevole volontà della persona, sul cui corpo si svolge l’attività sanitaria, è l’obbligo prodromico ad ogni attività sanitaria: il tradizionale “consenso informato” contiene, come il più contiene il meno, l’informazione in sè, e l’attività del sanitario è legittima (a parte le eccezioni sopra richiamate) solo se alla sua volontà di effettuarla si congiunge la volontà informata della persona sul cui corpo si dovrebbe effettuarla”.
Ha , quindi, ritenuto sussistente la responsabilità del medico in conseguenza di una diagnosi insufficiente perché arrestatasi al livello in cui sarebbero stati ben attuabili ulteriori e più approfonditi accertamenti.
Ad avviso della Corte suprema, l’esame del c.d. tri-test effettuato alla gestante avrebbe dovuto essere sviluppato e doverosamente approfondito con ulteriori mezzi diagnostici e, comunque, il medico avrebbe dovuto informare l’attrice sull’esistenza di tali ulteriori mezzi, sui ben ampi margini di errore dello screening adottato e sul pro e contro dell’eventuale approfondimento.
Ritiene, quindi, che la condotta del medico non può non definirsi colposa, in quanto negligentemente ed imprudentemente non ha adempiuto all’obbligo informativo di cui sopra.
La decisione
Il danno alla salute può configurarsi anche qualora il nascituro venga poi alla luce affetto da patologie che avrebbero potuto essere identificate con i suddetti mezzi diagnostici e questo alteri l’equilibrio psicofisico della persona non informata, p. es. cagionandole una sindrome depressiva (vale a dire, un danno biologico psichico). Se ciò avviene, dovrà essere risarcito anche il conseguente danno alla salute.
Essendo stato il medico inadempiente al suo obbligo di informazione di portare a conoscenza le possibili conseguenze dell’attività sanitaria nonché le possibili prosecuzione dell’attività diagnostica e terapeutica, la Suprema Corte ha cassato la sentenza del giudice di merito.
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