Il maggior reddito accertato nell’impresa familiare va imputato anche al collaboratore

Scarica PDF Stampa

Introduzione

L’art. 5, comma 4, TUIR dispone che “I redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230 bis cod. civ.[1], limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili […]”[2].

Nell’impresa familiare, quindi, il reddito oggetto di dichiarazione può essere attribuito (in misura non superiore al 49%) ai collaboratori, ma il quesito che ci si pone è se l’eventuale maggiore reddito accertato nei confronti dell’impresa familiare da parte dei verificatori, sia imputabile esclusivamente ed integralmente al suo titolare, o anche ai collaboratori in proporzione alle rispettive quote.

L’art. 36-bis, c. 4, DPR 600/73, al riguardo, dispone che i maggiori redditi ovvero i dati contabili risultanti dalla liquidazione fatta dall’ufficio, devono essere considerati a tutti gli effetti come se dichiarati dal contribuente. Da questa disposizione discenderebbe, prima face, che il maggior reddito accertato dovrebbe essere imputato interamente all’imprenditore, senza che venga coinvolto il collaboratore familiare, pur essendo anche quest’ultimo tenuto ad obblighi fiscali.

Tale soluzione è sostenuta soprattutto dall’Agenzia delle Entrate, secondo la quale: «il reddito oggetto di dichiarazione può essere attribuito (in misura non superiore al 49%) ai collaboratori»[3]. Ne consegue che l’eventuale maggiore reddito accertato nei confronti dell’impresa familiare è imputabile esclusivamente ed integralmente al suo titolare[4].

 

1. La posizione della Giurisprudenza di merito

A diverse conclusioni, tuttavia, giunge un indirizzo giurisprudenziale minoritario, secondo il quale «il maggior reddito contestato all’impresa familiare va ripartito tra i partecipanti laddove l’amministrazione non contesti l’esistenza dell’impresa familiare o l’entità delle percentuali di ripartizione, non potendosi effettuare una scissione tra imputazione del reddito dichiarato ed imputazione del maggior reddito accertato»[5].

Nel caso di attribuzione di un presunto maggiore reddito all’imprenditore che partecipa ad un’impresa familiare, quindi, l’amministrazione non potrebbe imputarlo con percentuali differenti rispetto a quelle indicate, in sede di dichiarazione, dai contribuenti interessati, salvo che non sia contestata la titolarità delle rispettive quote[6].

Questo indirizzo giurisprudenziale, sebbene ancora minoritario, offre alcuni interessanti spunti riflessivi in ordine al dibattito, che da tempo persiste, su tale questione.
Ed infatti,  per quanto riguarda l’attribuzione del maggior reddito accertato in capo all’imprenditore e al collaboratore familiare in misura differente da quella indicata in dichiarazione, si è giunti a ritenere che: “il reddito va imputato secondo le quote attestate dai partecipanti all’impresa, indipendentemente dall’effettiva percezione”.

A sostegno di tale posizione muovono, da un lato, il fatto che il collaboratore familiare è tenuto a dichiarare la quota di utili che percepisce, anche se non realmente corrisposti; dall’altro, la circostanza che l’ufficio che accerti maggiori redditi in capo all’impresa familiare non può imputarli solo al titolare, ma deve suddividerli tra i collaboratori – appunto – proporzionalmente alle rispettive percentuali.

Nella stessa lunghezza d’onda si collocano anche altre sentenze di merito qui in rassegna.

In Commissione Tributaria Regionale di Palermo, ad esempio, a sostegno di tale conclusione si afferma che il riferimento normativo è legato al combinato disposto degli artt. 5 del TUIR 917/1986 e 40 D.P.R. n. 600 del 1973, mediante il quale il legislatore ha equiparato le imprese familiari alle società di persone, estendendo alle prime l’applicabilità del principio in forza del quale i redditi prodotti debbono essere imputati ai singoli soci, o partecipanti, a prescindere dalla loro effettiva percezione[7].

In Commissione Tributaria Regionale di Bari si aggiunge che: l’“azienda coniugale” non gestita in forma societaria è, al pari dell’impresa familiare, un’impresa individuale, nella quale vi è un titolare che dichiara il reddito dell’impresa deducendo la partecipazione agli utili spettanti al coniuge. Qualora, invece, il contribuente avesse prescelto in sede di dichiarazione lo svolgimento in forma societaria dell’azienda coniugale, allora, egli avrebbe dovuto dichiarare il reddito dell’azienda con il Modello Unico Società di Persone, e l’eventuale maggior reddito accertato sarebbe stato imputato all’ente collettivo (ad entrambi i coniugi)[8].

 

2. La posizione della Giurisprudenza di legittimità

La posizione minoritaria di alcune isolate sentenze di merito trova conforto in un indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che sembra avvalorare la tesi della imputazione “proporzionale” del maggior reddito accertato.

A tal proposito, va innanzitutto rilevato che le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno rilevato la necessità, in materia tributaria, dell’unitarietà dell’accertamento. Tale assunto legittima la rettifica delle dichiarazione dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui all’art. 5 D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e dei soci delle stesse, e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi[9].

Nella stessa lunghezza d’onda si è altresì ritenuto che, al pari del collaboratore familiare che è tenuto a dichiarare la sua quota di utili pure se gli stessi non gli sono stati realmente corrisposti, anche l’Ufficio, che accerti dei maggiori redditi dell’impresa familiare, non può imputarli esclusivamente al titolare, ma deve suddividerli fra i vari collaboratori proporzionalmente alle rispettive percentuali[10].

La linea giurisprudenziale di legittimità appena indicata sembrerebbe, invero, riagganciarsi ad un indirizzo risalente, secondo il quale: «la mancata previsione di una disciplina espressa per il caso dell’accertamento di un maggior reddito nell’impresa familiare comporta soltanto l’applicabilità del principio generale in base al quale i redditi che vengono accertati dall’ufficio devono essere imputati ai soggetti che li hanno prodotti o che di essi hanno avuto il possesso, anche a prescindere da quanto emerge dalle dichiarazioni, tanto che alla stregua dell’art. 37, comma 3 del D.P.R. n. 600/73 (che costituisce la norma antielusiva per eccellenza), in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari (anche in base a dichiarazioni) altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona»[11].

L’Amministrazione Finanziaria, quindi, ha sì la possibilità di effettuare l’imputazione soggettiva del maggior reddito accertato che ritiene corrispondente alla realtà, a condizione però che fornisca la prova che tale realtà è diversa da quanto i contribuenti hanno avuto modo di rappresentare in sede di dichiarazione[12].

I giudici di legittimità concludono sostenendo che: «il reddito (almeno quello che proviene dalla stessa fonte) è una entità unitaria, che abbraccia sia la parte dichiarata che la maggior parte accertata e non può essere imputato una parte in un modo e una parte in un altro»; pertanto, «non può avvenire una scissione tra imputazione del reddito dichiarato e imputazione del maggior reddito accertato, posto che manca un fatto giuridico che legittimi una tale scissione».

 

Conclusioni e alcuni spunti di riflessione

Volendo tirare le file del ragionamento condotto, la conseguenza che sul piano pratico emerge alla luce dell’analisi delle posizioni giurisprudenziali di legittimità e di merito sul tema, e che il maggior reddito accertato tra i partecipanti all’impresa familiare deve essere ripartito proporzionalmente  alla quota corrispondente alla partecipazione di ciascuno all’impresa familiare, e non, invece, attribuirsi esclusivamente al titolare dell’impresa familiare[13].

 


[1] Sugli aspetti civilistici e fiscali che interessano l’argomento si veda: G. Napoli e S. Villani, Impresa familiare: aspetti civilistici, fiscali e previdenziali, Il fisco, n. 37, 2003.

[2] Ai sensi dell’art. 5, comma 4, TUIR, i partecipanti all’impresa familiare devono risultare nominativamente da atto pubblico o scrittura privata autenticata, anteriore all’inizio del periodo d’imposta. Nell’atto non è necessario specificare la quota di partecipazione agli utili dei collaboratori e la ripartizione del reddito avviene a fine esercizio, quando l’imprenditore nella propria dichiarazione dei redditi indica le quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari, nonché l’attestazione che le quote sono proporzionate alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d’imposta attestato. Di contro ciascun familiare attesta, nella propria dichiarazione, di avere effettivamente prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.

[3]Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 23/2006

[4] Sul tema, per un primo riferimento, si rinvia a http://www.fiscal-focus.it/cms_utilities/html2pdf.php?path=/l-esperto/l-esperto-risponde/impresa-familiare-e-imputazione-del-reddito,3,42186 . Inoltre, sulla circostanza che il disconoscimento della partecipazione all’impresa familiare comporta il rischio che sia di nuovo imputato al titolare dell’impresa un reddito già dichiarato dal collaboratore, si veda F. Porpora,  R. Lupi e D. Stevanato, Disconoscimento fiscale dell’impresa familiare, simmetrie fiscali e doppia imposizione, Dialoghi Tributari, n. 3 del 2011.

[5] Si tratta della sentenza della C.T.P. di Trento, sez. 4, 07/02/2013, n. 13: nel caso di specie, l’amministrazione accertava maggiori ricavi per l’anno 2006 per 43.340,00 euro in capo ad un’impresa familiare, ed attribuiva l’intero maggior reddito in capo al titolare dell’impresa familiare, senza contestare l’esistenza dell’impresa familiare, ovvero la percentuale di ripartizione dell’utile. Inoltre non poteva esserci una scissione tra imputazione del reddito dichiarato ed imputazione del maggior reddito accertato, per assenza di un fatto giuridico che legittimi tale scissione.

[6] A precisarlo è la CTP di Reggio Emilia, sezione III, con la sentenza 384/3/2014 depositata il 27 agosto 2015. La si legga nel Sole 24 ore 02/09/2014.

[7] In questo senso, CTR di Palermo 27/02/2012, n. 36.

[8] In questo senso, C.T.R. di Bari 04/12/2014, n. 2526.

[9] Cass. SS. UU. sentenza n. 14815 del 2008. Si veda, altresì, Cassazione civile, sez. VI, 01/12/2015,  n. 24472; tra la giurisprudenza di merito, C.T.R. di Potenza, 9 dicembre 2013, sentenza n. 295.

[10] Cass. 15/10/2007, n. 21535.

[11] Trattasi della sentenza n. 15315/2000 della Corte di legittimità.

[12] Nel caso sottoposto all’esame della Corte se il Fisco avesse contestato l’esistenza della impresa familiare, o l’entità delle quote attestate nella dichiarazione, bene avrebbe potuto imputare ogni tipo di reddito (quello dichiarato e quello accertato) ai soggetti che nella realtà ne risultavano titolari, e per la quota di titolarità.

Al contrario, l’Amministrazione che non ha effettuato alcuna contestazione in ordine alle quote emergenti dalla dichiarazione non può da una parte confermare l’imputazione del reddito dichiarato, assegnandolo per il 65% al marito e per il 35% alla moglie, e poi dall’altra – senza operare alcuna modifica del meccanismo di imputazione si qui descritto, ma in via sanzionatoria ed in via meramente di supposizione – decidere di imputare esclusivamente al marito il maggior reddito accertato.

[13] La quota corrispondente alla partecipazione di ciascuno all’impresa familiare con la conseguente riduzione della rettifica a suo carico potrà legittimamente dedursi dai maggiori ricavi accertati nei confronti del contribuente. A tale conclusione si perviene, a maggior ragione, se l’Amministrazione finanziaria non contesta l’entità delle quote dell’impresa familiare, l’imputazione del reddito va effettuata tra i partecipanti secondo le rispettive percentuali.

Avv. Nicotra Antonio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento