Il ladro “Sfortunato” salvato dalla desistenza (Nota a Cassazione penale, sez. VI, dep. 10 gennaio 2012, n. 203)

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Il ladro “sfortunato” che, non rinvenendo nulla di suo gradimento, abbandoni il campo di battaglia prescelto potrebbe in realtà non ritenersi tale. La Suprema Corte ha infatti riconosciuto in tale fattispecie l’applicabilità dell’esimente della desistenza volontaria prevista dall’art. 56, comma 3 c.p., in forza del quale “se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”.

La condanna comminata in Appello viene, infatti, ribaltata dagli Ermellini i quali, accogliendo le doglianze della difesa dell’imputato, annullano la sentenza e la rinviano alla Corte territoriale affinché proceda “soltanto” per il reato di danneggiamento aggravato. In particolare, i Supremi Giudici chiariscono come il mancato riconoscimento della desistenza debba considerarsi errato, a nulla valendo il fatto che l’allontanamento dall’abitazione prescelta per il furto fosse stata dettata dall’assenza di oggetti di valore al suo interno. Se è vero, infatti, che l’istituto in commento richiede, per consolidata giurisprudenza, che la volontà di desistere si sia formata in maniera del tutto libera (pur se non a seguito di un vero e proprio pentimento), senza essere stata coartata da fattori esterni, allo stesso tempo tali requisiti non possono dirsi assenti per il solo fatto che circostanze contingenti abbiano indotto l’agente ad arrestare l’iter criminis. Ne consegue che “non ha valutato la corte di merito che tra le tante cose presenti, che potevano essere asportate, pur se di scarso valore, trattandosi di una abitazione rurale, l’imputato ha preferito non persistere nel suo proposito criminoso e di non asportare niente, determinandosi liberamente a tale scelta senza che intervenissero fattori esterni, a nulla rilevando che tale volontà si sia formata per l’assenza di oggetti di suo gradimento”.

Occorre notare come in passato, anche recente, la Cassazione in una fattispecie analoga a quella in commento abbia aderito ad un orientamento maggiormente rigoroso, confermando la penale responsabilità dell’imputato e disconoscendo l’applicabilità dell’art. 56, comma 3 c.p. (Cass. pen., sez. V, 36919/2008). In quel caso il soggetto agente, dopo essere salito su un furgone parcheggiato sulla pubblica via, si allontanava da esso senza aver asportato nulla, non trovando alcun oggetto di suo gradimento da sottrarre. In quel caso, il fatto che l’imputato avesse interrotto la propria condotta “per cause indipendenti” dalla sua volontà, hanno portato a riconoscere la sussistenza del delitto di tentato furto.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – SENTENZA depositata il 10 gennaio 2012, n. 203 – Pres. Agrò – relatore **********

 

FATTO E DIRITTO

xxx ricorre per cassazione contro la sentenza in data 4/6/2010, con la quale la Corte di Appello di Palermo ha confermato la decisione in data 21/11/2008 del Tribunale di yyy, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di tentato furto aggravato in appartamento, ex artt. 110 – 56 – 624 bis – art. 625 c.p., n. 2 e condannato alla pena di giustizia.

Il predetto aveva fatto da palo al figlio, introdottosi in una abitazione, previa forzatura della finestra, e ne era uscito, dopo avere rovistato all’interno, senza asportare alcunchè.

A sostegno della richiesta di annullamento dell’impugnata decisione il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della norma penale in riferimento all’art. 56 c.p., comma 3, e sostiene che l’imputato avrebbe dovuto essere mandato assolto per desistenza volontaria, avendo arrestato la sua condotta prima del compimento dell’azione esecutiva, interrotta da motivi di ordine pratico, legati alla circostanza del mancato rinvenimento di beni da asportare, per cui o si versava nell’ipotesi del reato impossibile ex art. 49 c.p., comma 2, ovvero doveva ritenersi che l’agente non abbia voluto, pur potendolo fare, impossessarsi di beni di cui valeva la pena asportare.

Il ricorso è fondato sia pure nei limiti e con le precisazioni, che seguono.

La giurisprudenza di questa corte, che qui pienamente si condivide, ha chiarito che, perchè possa essere ritenuta sussistente la causa di non punibilità prevista dall’art. 56 c.p., comma 3 è necessario che la volontà di desistere si sia formata per motivi di una qualsiasi natura, anche pratici, pur se si prescinde da quelli ideologici o dall’autentico pentimento, ma in maniera del tutto libera, non quando i motivi di desistenza prevalgano su quelli di persistenza nell’iter criminoso a cagione di fattori esterni, che coartino la volontà del reo, la quale in – tal modo è viziata nella sua formazione (Cass. Sez. 2^ 29/9-28/10/2009 n. 41484 Rv.245233; Sez. 4^ 24/6-20/8/2010 n. 32145 Rv.248183; Sez. 1^ 21/3-27/6/1989 n. 8864 Rv. 181644).

Nel caso in esame non è condivisibile la decisione del giudice di merito, che nella condotta dell’imputato, che si era allontanato dall’abitazione, dopo averne forzato la porta di ingresso e rovistato all’interno di essa e messo tutto a soqquadro, senza avere asportato nulla, pur correttamente escludendo l’ipotesi del reato impossibile, non ha ravvisato comunque l’esimente della desistenza volontaria.

Non ha valutato la corte di merito che tra le tante cose presenti, che potevano essere asportate, pur se di scarso valore, trattandosi di una abitazione rurale, l’imputato ha preferito non persistere nel suo proposito criminoso e di non asportare niente, determinandosi liberamente a tale scelta senza che intervenissero fattori esterni, a nulla rilevando che tale volontà si sia formata per l’assenza di oggetti di suo gradimento.

Non corrisponde ai criteri della logica e alle regole del diritto punire colui, che abbandona volontariamente il proposito criminoso e di conseguenza nella specie anche il corresponsabile dell’azione criminosa, attuale ricorrente.

Va da sè che negli atti già compiuti è ravvisabile l’ipotesi del reato di concorso in violazione di domicilio aggravata, procedibile di ufficio, onde qualificata la condotta criminosa ex art. 110 – art. 614 c.p., comma 4, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo, che nel demandato nuovo giudizio proceda a carico dell’imputato in ordine a tale ipotesi di reato.

 

P.Q.M.

Qualificato il fatto come violazione di domicilio aggravata dall’art. 614 c.p., comma 4, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di – Palermo.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2012

Avv. De Leonardis Alfredo

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