Il giurista e l’esegesi: la ricerca della norma e della giustizia

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Il diritto può essere interpretato come esperienza giuridica (Capograssi).

In tal caso, per diritto può intendersi, in via estensiva, la sentenza (c.d. diritto giurisprudenziale) ovvero la dichiarazione del diritto pronunciata dal giudice mediante la sentenza (Chiovenda) e le proposizioni del giurista.

Il giurista, in particolare, trasporterebbe, mediante l’interpretazione, il diritto dalla potenzialità all’attualità (G.F. Puchta, 1838).

Al giurista è, però, richiesta una duplice sensibilità, storica e sistematica ovvero organica in modo, cioè, da esaminare il diritto nel suo sviluppo complessivo e nella sua forma attuale (F. K. Savigny, 1814): egli non deve soltanto studiare o applicare le leggi bensì perseguire il bene ovvero la giustizia (Platone).

Può accadere, così, che un provvedimento legale (proveniente da un’autorità pubblica) possa finire col violare, non antigiuridicamente, alcuni principi: non sarebbe, in tal caso, consentito impedire legalmente l’intervento (necessario) delle pubbliche Autorità per limitare le conseguenze di condotte pur legalmente autorizzate. Viceversa, è possibile che un provvedimento, sia pur finalizzato all’accertamento del rispetto della legge o della violazione dell’ordinamento o di una sua parte, non sia legalmente consentito.

Differente, sul piano degli esiti, è il lavoro esegetico del magistrato, a seconda del ruolo procedimentale occupato, nelle sue varie tipologie accusatorie, giudicanti preliminari o giudicanti dibattimentali, e del grado processuale (interpretazione di merito e di legittimità).

E’ ravvisabile, nell’ordinamento, una sorta di vincolo giuridico per cui il giudizio sulla condotta non debba necessariamente traslarsi sulla persona.

Il giudizio andrebbe, peraltro, esteso alla valutazione di determinati presupposti e condizioni, quali la naturalità, o meno, di una determinata condotta sul piano degli effetti e dei rimedi attuabili.

Bisogna, poi, verificare che la motivazione sia effettiva e non apparente (cioè veramente idonea a fondare le ragioni che il giudice ha posto a base della decisione adottata), che non sia evidentemente illogica (visto che deve risultare sorretta, nei suoi passaggi essenziali, da argomentazioni non viziate da errori di logica), che non sia internamente contraddittoria e che non risulti incompatibile con altri atti del processo tali da vanificarne il profilo logico.

Il giudice superiore adito, altresì, deve effettuare una valutazione di carattere unitario e globale sull’esistenza della motivazione e sulla resistenza logica del ragionamento del giudice, restando, invece, (generalmente) preclusa la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione.

L’ordinamento sanziona, mediante appositi mezzi (c.d. riparazione), quello che si commette (condotta) o si cerca di compiere (tentativo) ed il suo risultato (evento) ed, altresì, l’atto o il fatto diretto a compiere in modo irregolare un atto lecito, quando cioè la condotta, pur consentita, ha superato certi limiti prescritti (c.d. eccesso).

I criteri di punibilità devono essere principalmente finalizzati ad accertare la capacità di ragionamento (discernimento) ovvero le possibilità di rispetto della norma da parte del soggetto e, quindi, la “distribuzione” delle responsabilità, la volontà della condotta, la volontà del fine, le motivazioni soggettive: necessita, pertanto, previa tassonomia delle fattispecie ed a seconda delle differenti tipologie di condotte, prescrivere condizioni procedurali ed entità differenti. Ciò che va evitato è il rischio di ingiusti processi, condanne e pene.

“Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità” (F. Nietzsche).

La norma “giusta”, quindi, più che essere basata su convinzioni o ideologie, non determina significativi squilibri tra le parti e prevede opzioni alternative. Se la regola è sempre o soltanto rigida, la conseguenza sarebbe una condanna aprioristica ovvero senza verifiche, matematica, perpetua. La violazione, a volte, può costituire una risoluzione non volontariamente scelta e necessaria.

La relativizzazione della norma, secondo opposto orientamento dottrinario, non si fermerebbe a ridimensionare l’assolutezza del precetto bensì genererebbe l’ordinarietà dell’eccezione.

La scelta da operare, comunque, deve condurre alla considerazione che il diritto deve rappresentare il mezzo, più che il fine stesso, del giudizio. Qualora si sostenesse, viceversa, che l’ordinamento crei il diritto per il diritto, significherebbe attribuire all’uomo ampia discrezionalità nella scelta delle norme, ponendo, quindi, il diritto al servizio dell’uomo stesso ed estorcere, così, nuovi principi che non rivelino alcun fondamento essenziale.

Nettamente strumentale è il lavoro dell’avvocato: qui, tra la ricostruzione del sistema e l’applicazione della regola, vi è l’elaborazione della norma e del fatto secondo certe premesse (“riformulazione”): è la c.d. argomentazione persuasiva (C. Perelman, 1958).

In sintesi, il lavoro del giurista consiste nello sviluppo, a volte necessario, di concetti, oltre all’eliminazione di eventuali situazioni di ambiguità della legge a seguito di cancellazioni e/o integrazioni: tuttavia, spesso, unitamente ad altri fattori, egli finisce per contribuire al rallentamento del procedimento giurisdizionale.

I procedimenti interpretativi non possono, perciò, risolversi in forzature dei dati normativi, finendo con lo scardinare i meccanismi che legano l’individuo all’ipotesi di responsabilità, confermando addirittura la possibilità di sostenere ogni tesi piuttosto che la necessità di possedere un proprio pensiero in linea con la legalità.

La legge non può, quindi, apparire quale “teoria delle giustificazioni”.

L’interpretazione è la lettura critica della legge (stralcio): per un verso, vivificherebbe la norma, per un altro verso finirebbe per azzerare il valore della medesima. Ciò nonostante, il diritto sarebbe, comunque, da interpretare e nell’interpretazione troverebbe il proprio necessario significato.

Le situazioni “di fatto”, infine, non hanno rilevanza giuridica, salvo siano appositamente contemplate, caso per caso, dalla legge.

 

Bibliografia essenziale

N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960;

N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1972;

P. DEL GIUDICE, Studi di storia e di diritto, Hoepli, 1889;

D. D. FRIEDMAN, L’ordine del diritto, Bologna, 2004;

S. PUGLIATTI, Grammatica e diritto, Milano, 1978;

S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Sansoni, 1945.

Prof. Avv. Basso Alessandro Michele

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