Il fondo patrimoniale Nozione, beni oggetto del fondo e relativa amministrazione ed alienazione

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L’istituto del fondo patrimoniale, disciplinato dagli artt. 167 e ss. c.c., riguarda l’ambito della gestione degli interessi economici familiari ed in particolare è caratterizzato dalla destinazione ad opera dei coniugi o di un terzo di una serie di beni determinati (immobili, mobili registrati o titoli di credito) al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

Il fondo patrimoniale, quindi, è un vincolo temporaneo posto nell’interesse della famiglia su un complesso di beni indicati e costituisce un patrimonio separato.

La sua funzione principale è quella di soddisfare i bisogni della famiglia, cioè i bisogni relativi ai diritti di mantenimento, assistenza e contribuzione.

Ne deriva un grande limite: si deve presupporre l’esistenza del vincolo coniugale per costituire un fondo patrimoniale, dunque, in questo ambito le coppie di fatto non sono prese in considerazione dalla legge.

Esso gode di una particolare disciplina essendo un atto di liberalità, vale a dire un atto a titolo gratuito.

Secondo un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la costituzione del fondo patrimoniale va compresa tra le convenzioni matrimoniali (Cass. Civ. 8610/2007), pertanto si deve stipulare nella forma di atto pubblico con la presenza di 2 testimoni.

Il fondo patrimoniale non sostituisce, ma affianca, integrandolo, il regime patrimoniale primario adottato dai coniugi che può essere la comunione, la separazione dei beni o un regime convenzionale.

Con l’espressione “bisogni della famiglia” si intende in primis la famiglia legittima, con esclusione delle convivenze di fatto.

Secondo la teoria tradizionale, per famiglia si intende quella composta dai coniugi e dai figli legittimi nati dal matrimonio.

Attualmente, prevale in dottrina l’interpretazione estensiva della famiglia; infatti, secondo tale teoria moderna rientrano tutti i figli dei coniugi o anche di uno solo di essi, senza alcuna distinzione tra legittimi, naturali ed adottivi, sia minori che maggiorenni non autonomi patrimonialmente, anche i nascituri, nonché i nipoti.

In merito al concetto di “bisogni”, si intendono quelli prettamente inerenti le esigenze della famiglia, di volta in volta modellate sul tenore di vita posseduto, nonché sulle scelte familiari compiute.

La giurisprudenza di merito definisce tali bisogni come necessità connesse col mènage domestico-familiare secondo le condizioni economiche e sociali della famiglia stessa.

La giurisprudenza di legittimità ha fornito un’interpretazione più estensiva della nozione, ricomprendendo in tali bisogni anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi (Cass. Civ., sez I, 7 gennaio 134/84).

Con il termine “bisogni” si fa riferimento non solo alle spese per le necessità primarie, non solo alle necessità strettamente materiali, bensì anche a quelle di natura spirituale, non solo presenti, ma anche future; non solo comuni a tutti i membri della famiglia, ma anche quelle che, pur riguardando una determinata persona, in realtà sono a vantaggio dell’intero nucleo familiare.

Il fondo patrimoniale può essere costituito da beni immobili, mobili iscritti in pubblici registri (navi e galleggianti, aeromobili, autoveicoli; è discusso per le quote di partecipazione a società a responsabilità limitata) e titoli di credito, nonché dai frutti prodotti da tali beni.

L’art. 167 c.c. rubricato “Costituzione del fondo patrimoniale” non menziona né gli altri beni mobili né le universalità di beni, pertanto si desume, a contrario, che non sono conferibili nel fondo, tranne nell’ipotesi in cui le universalità di beni non siano elencate in maniera analitica.

Si sottolinea che i titoli di credito possono essere conferiti nel fondo purchè siano vincolati, rendendoli nominativi con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo, come espressamente disciplinato dall’art. 167, 4° comma c.c..

La ratio di tale norma si ravvisa nell’esigenza di pubblicità del vincolo e di tutela dei creditori, pertanto, l’art. 167 c.c. può essere interpretato estensivamente se sussistono dette condizioni, con la conseguenza che possono essere conferiti anche titoli di credito non nominativi, il cui vincolo di destinazione sia stato pubblicizzato in maniera idonea.

Per altra parte della dottrina, invece, la predetta norma va intesa in senso restrittivo, quindi possono essere conferiti soltanto i titoli fruttiferi.

C’è anche chi, come Demarchi, ritiene, viceversa, che i titoli infruttiferi (assegno, cambiale o polizza di carico) siano idonei alla costituzione del fondo, in quanto esso non ha bisogno necessariamente di reddito e gli è sufficiente anche il bene capitale.

Appare preferibile l’interpretazione estensiva dell’art. 167 c.c..

Seguendo la suesposta soluzione positiva si ammette la possibilità di destinare al fondo patrimoniale strumenti finanziari quali le azioni, le obbligazioni e le quote di partecipazione ai fondi pubblici di investimento. Si precisa che nonostante questi titoli siano stati dematerializzati possono comunque essere vincolati e si possono pubblicizzare in maniera idonea i relativi vincoli costituiti.

Nel fondo patrimoniale possono essere conferiti anche i Titoli di Stato, a titolo esemplificativo i Buoni del Tesoro ed i certificati di credito, anch’essi titoli dematerializzati, ma che sono stati resi titoli nominativi sui generis dalla loro circolazione che è basata su un sistema di gestione accentrata, ex artt. 39 e ss. del D.Lg. 213/1998, “Disposizioni per l’introduzione dell’Euro nell’ordinamento nazionale”.

Le azioni di società per azioni possono essere conferite nel fondo patrimoniale, avendo una disciplina analoga a quella dei titoli nominativi.

Dubbi possono sorgere circa la possibilità di costituire quote di s.r.l. nel fondo patrimoniale, tale costituzione dipende dalla collocazione delle predette quote nella teoria generale dei beni.

All’uopo, si evidenziano due teorie contrastanti: quella favorevole alla conferibilità che assimila dette quote ai beni mobili registrati, considerando le formalità proprie del registro delle imprese affini a quelle tipiche dei registri mobiliari; e quella contraria che, negando la menzionata natura, ne respinge la conferibilità.

Sembra prevalere la tesi positiva, secondo la quale le quote sono ab origine soggette, tramite l’iscrizione dell’atto costitutivo, al regime di “iscrizione in pubblico registro”, ex art. 815 c.c. e, poiché anche le loro vicende sono soggette ad iscrizione nello stesso Registro, esse sono ormai divenute “beni mobili registrati”. Tale teoria favorevole risolve, altresì, il problema dell’iscrivibilità del vincolo nel Registro delle Imprese, infatti, sia il Giudice del Registro delle Imprese di Milano che il Conservatore del Registro delle Imprese di Brescia hanno espresso parere positivo su tale iscrizione.

La soluzione della conferibilità considera anche la circostanza che le azioni di s.p.a. possono essere costituite in fondo, quindi non sarebbe giusto un differente trattamento riservato alle partecipazioni sociali diverse dai titoli azionari.

Per quanto concerne la possibilità di conferire nel fondo patrimoniale diritti personali di godimento, si evidenziano le due tesi differenti.

L’opinione prevalente nega tale possibilità; ma autorevole dottrina ne sostiene l’ammissibilità ogni volta in cui si rispettino i parametri pubblicitari richiesti che rappresenterebbero il discrimen tra diritti conferibili e diritti non conferibili.

In merito al conferimento di beni futuri nel fondo patrimoniale la dottrina è divisa, infatti si riscontrano opinioni favorevoli (Perlingieri, Grasso) e decisamente contrarie (Milone, De Paola-Macrì); ergo, la questione è da ritenersi ancora dubbia.

Il problema che si pone circa i beni futuri concerne se per l’istituto de quo valga il divieto ex art. 771 c.c., norma espressamente prevista per le donazioni di beni futuri.

Parte della dottrina che ne ammette la conferibilità, sostenendo che l’atto costitutivo del fondo patrimoniale non sia riconducibile alla donazione, nega che il principio espresso dall’art. 771 c.c. possa impedire la conferibilità nel fondo di beni futuri, richiamando anche il principio generale di cui all’art. 1348 c.c., che ammette la stipulazione di negozi su beni futuri.

Sarà opportuno verificare, di volta in volta, se il conferimento nel fondo patrimoniale di detti beni rappresenti una donazione, in tal caso si applicherà l’art. 771 c.c.. 

La tesi favorevole alla conferibilità dei beni futuri afferma, altresì, che i beni, anche se futuri (ad esempio un edificio in corso di costruzione), devono essere determinati, come richiesto dall’art. 167 c.c..

Anche per i beni altrui si ripropone il contrasto tra due teorie divergenti: alcuni autori, come Capozzi, sostengono che l’altruità abbia lo stesso ruolo della futurità, poiché il bene altrui, non essendo nel patrimonio del disponente, si presenta come bene soggettivamente futuro; altri, a contrario, affermano che la donazione di beni altrui è ricompresa nella seconda parte dell’art. 771 c.c. e non è vietata da detta norma.

Si rende noto che oggetto del vincolo non è il bene, ma un diritto sul bene, che può essere un diritto diverso dalla proprietà, come l’usufrutto, la superficie, la nuda proprietà; si discute sulla possibilità di conferire nel fondo l’enfiteusi, la servitù, l’uso e l’abitazione.

Con riferimento all’enfiteusi, ci sono autori come Auciello, Badiali, Iodice e Mazzeo che, data l’origine nel contratto a prestazioni corrispettive, non ne ammettono la conferibilità nel fondo.

Altra parte della dottrina, invece, ne sostiene la conferibilità, non riscontrando incompatibilità a causa dell’idoneità dell’enfiteusi a fornire un’utilità al nucleo familiare, sia che riguardi il percepimento del canone (quando è conferito il diritto del concedente), sia che coincida con la posizione dell’utilista.

L’eventuale diritto di affrancazione dell’enfiteuta, derivando da un differente negozio, sembrerebbe escluso dal fondo, tranne nell’ipotesi in cui si verifichi un nuovo conferimento (Demarchi).

Per il diritto d’uso e d’abitazione si evince la teoria che nega la conferibilità, sul presupposto della loro intrasferibilità; invece, altri autori, quali Auciello, Badiali, Iodice e Mazzeo, sostengono che tali diritti possono essere conferiti senza alcun problema quando la loro nascita scaturisce dall’attribuzione al fondo da parte del proprietario, pertanto, dopo essere stati attribuiti ai coniugi, il diritto d’uso e d’abitazione sono idonei a soddisfare gli interessi familiari.

Quanto alla servitù, si fa presente che la teoria maggioritaria è contraria alla conferibilità nel fondo a causa dell’assenza di una sua autonoma esecutabilità; è ammissibile solo se concerne un bene già facente parte del fondo.

Può essere conferito nel fondo anche il diritto di multiproprietà immobiliare intesa come proprietà con ripartizione turnaria del godimento.

In linea di massima, si può desumere che possono formare oggetto del fondo patrimoniale tutti i beni che permettono la pubblicità del vincolo cui sono sottoposti.

I beni conferiti in un fondo patrimoniale non possono formare oggetto di più fondi destinati alla soddisfazione di più famiglie: il vincolo di destinazione, infatti, può riguardare i bisogni di una sola famiglia.

La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione, come espressamente previsto dall’art. 168 c.c..

Conseguentemente i coniugi ne saranno titolari pro indiviso, dando vita ad una cosiddetta comunione “a mani riunite” di matrice germanica (che si contraddistingue per l’assenza delle quote e per una più spiccata forma di collettività della proprietà, la cosa appartiene al gruppo come tale e non ai singoli; oltre che il fondo patrimoniale,  ne costituiscono esempi il maso chiuso e la comunione legale tra coniugi).

Per l’amministrazione dei beni del fondo patrimoniale si applicano le stesse norme dettate in tema di amministrazione della comunione legale, stante il rinvio operato dall’art. 168 c.c..

In linea generale, per gli atti riguardanti l’ordinaria amministrazione, l’amministrazione dei coniugi è disgiunta; invece, per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione, è necessario il consenso di entrambi i coniugi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 168, 169, 180 e ss c.c..

Secondo parte della dottrina tali norme che disciplinano l’amministrazione dei beni della comunione legale sono inderogabili; un argomento a sostegno di questa tesi si rinviene nell’art. 210, comma 3° c.c..

Applicando il principio dell’inderogabilità, secondo una sentenza di merito, il notaio che riceva un atto costitutivo di fondo patrimoniale contenente una clausola che preveda l’amministrazione dei beni del fondo affidata solo ad un coniuge, contrariamente agli artt. 168, comma 3° e 180, comma 1 c.c., viola l’art. 28 della Legge Notarile, L. 89/1913.

Altra parte della dottrina sostiene, invece, che i coniugi possano derogare alla regola del necessario consenso di entrambi per gli atti di straordinaria amministrazione di cui all’art. 169 c.c., sulla base del principio di autonomia negoziale dei coniugi, ex art. 1322 c.c., norma che consente di apporre ogni clausola che non sia in contrasto con norme imperative, ordine pubblico e buon costume.

L’art. 168 c.c. sembra rinviare agli artt. 180, 181, 182, nonché 183 c.c..

In merito all’art. 180 c.c. si precisa che nell’ipotesi di atti di straordinaria amministrazione compresi nell’elenco di cui all’art. 169 c.c. sarà quest’ultima disposizione a prevalere, in base al criterio secondo il quale la norma speciale prevale su quella generale, come sostenuto da vari autori, tra i quali Auletta e Corsi.

L’art. 181 c.c. disciplina l’ipotesi in cui uno dei coniugi si rifiuti di prestare il proprio consenso al compimento di un atto di straordinaria amministrazione, nel qual caso l’altro coniuge può ottenere l’autorizzazione del giudice se il compimento dell’atto è nell’interesse della famiglia.

In presenza di figli minori l’autorizzazione ex art. 181 c.c. concorre con l’autorizzazione ex art. 169 c.c., i due provvedimenti potranno essere invocati e concessi contestualmente dal tribunale ordinario, ai sensi dell’art. 38 disp. att. c.c..

Nell’ipotesi di rifiuto di entrambi i genitori si applicherà l’art. 171, 2° e 3° comma c.c, secondo il quale i figli possono presentare un’istanza al giudice richiedendone l’intervento.

Sembrano applicabili al fondo anche gli artt. 182 e 183 c.c., invece, dubbi si riscontrano per l’applicabilità dell’art. 184 c.c..

Nel caso in cui si verifichi una situazione indicata dall’art. 183 c.c., un coniuge potrà chiedere l’estromissione dell’altro dall’amministrazione dei beni del fondo; per l’ipotesi di interdizione di un coniuge, l’esclusione opera di diritto, come espressamente previsto dal 3° comma di detta norma.

Nel caso in cui entrambi i coniugi hanno amministrato male i beni del fondo o non possono amministrarli, si ritiene che chiunque abbia interesse possa ricorrere all’autorità giudiziaria ed ottenere l’esclusione di entrambi.

Per quanto concerne il termine “alienare”, contenuto nell’art. 169 c.c., la dottrina ha chiarito che si riferisce non solo all’atto dispositivo del diritto di piena proprietà, ma è compresa anche la costituzione di diritti reali di godimento (l’usufrutto, l’uso, l’abitazione, la servitù, l’enfiteusi o la superficie), ad eccezione delle alienazioni forzate.

L’espressione “comunque vincolare” di cui all’art. 169 c.c. viene interpretata da vari autori in maniera estensiva, ricomprendendo la cessione di beni ai creditori, la cessione di cubatura, il vincolo da sequestro convenzionale ex artt. 1798 ss. c.c. e da sequestro c.d. liberatorio ex art. 687 c.p.c., il conferimento dei beni in trust, inoltre i vincoli di destinazione ex art.2645 ter c.c..

Sulla possibilità di derogare all’art. 169 c.c. si riscontrano opinioni divergenti in dottrina.

Secondo alcuni (Finocchiaro), il costituente può prevedere l’alienazione dei beni costituiti in fondo senza il consenso dei coniugi, se si sia riservato la proprietà di detti beni.

Altri (Corsi), invece, non ritengono possibile l’alienazione senza il consenso dei coniugi perché non è ammissibile concedere al costituente il potere di decidere la cessazione della destinazione dei beni.

Secondo l’interpretazione di parte della dottrina del primo periodo dell’art. 169 c.c. e precisamente dell’inciso: “Se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione”, si può derogare a questa regola inserendo nell’atto costitutivo del fondo patrimoniale una clausola che consenta di disporre dei beni senza il consenso dell’altro coniuge, pur essendo atti di straordinaria amministrazione.

Altra parte della dottrina, invece, sostiene che non si può inserire un patto che preveda l’alienazione dei beni senza il consenso dell’altro coniuge perché si violerebbe il principio di parità.

Per quanto concerne, invece, la deroga all’autorizzazione giudiziale in presenza di figli minori, la dottrina prevalente, precisamente gli autori Auletta, Finocchiaro, Gabrielli, Corsi, ed anche la giurisprudenza, ammettono la possibilità di inserire nell’atto costitutivo del fondo una clausola che escluda tale autorizzazione.

Si precisa che la procedura relativa all’autorizzazione giudiziale ex art. 169 c.c. ha natura di volontaria giurisdizione, ergo, si applicano le regole di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.; i coniugi, trattandosi di atti di straordinaria amministrazione, dovranno presentare congiuntamente il ricorso al tribunale ordinario ai sensi dell’art. 38 cpv. disp. att. c.c. onde ottenere il provvedimento autorizzativo de quo.

Circa le conseguenze  dell’atto compiuto senza la prescritta autorizzazione giudiziale sono state formulate varie opinioni.

Parte della dottrina, Grasso, nonché giurisprudenza di merito, sostengono che la clausola inserita nell’atto costitutivo del fondo che esenti i coniugi dal chiedere l’autorizzazione giudiziale è nulla, dato il carattere inderogabile della disposizione dell’art. 169 c.c.; trattasi di nullità rilevabile d’ufficio.

Altra teoria, prevede, invece, l’annullabilità dell’atto; a conforto di tale tesi vi è la ratio della disposizione che è quella di tutelare l’interesse dei figli minori.

Dall’atto compiuto senza autorizzazione giudiziale, nullo per alcuni, inefficace per altri, può scaturire la possibilità per i figli di richiedere un risarcimento danni e pretendere una rimessione in pristino, in natura o per equivalente ex art. 184, comma 3° c.c., stante il rinvio dell’art. 168 c.c. alle norme relative all’amministrazione della comunione legale; nei casi più gravi potranno, altresì, chiedere l’applicabilità dell’art. 183 c.c., ossia l’esclusione dall’amministrazione di uno  o di entrambi i coniugi che hanno amministrato male.

Avv. Virelli Clementina

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