Il figlio abbandonato può conoscere l’identità della madre (Corte Costituzionale sentenza n. 278, 22 novembre 2013)

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Il figlio adottivo che abbia compiuto il 25° anno di età potrà accedere alle informazioni sulle sue origini e nello specifico venire a conoscenza dell’identità della madre biologica, anche nel caso in cui quest’ultima, al momento della nascita, abbia esercitato la facoltà di rimanere anonima. L’istanza del figlio verrà fatta pervenire alla madre biologica, che potrà decidere se acconsentire alla rivelazione della propria identità o mantenere l’anonimato.

Lo ha sancito la Corte Costituzionale con la sentenza n. 278 del 18 novembre 2013, depositata il 22 novembre 2013, dichiarando l’incostituzionalità parziale dell’art. 28 comma 7 della Legge n. 184/1983, come sostituito dall’art. 177 comma 2 del D.lgs. n. 196/2003, nella parte in cui non prevedeva – attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza – la possibilità per il giudice di interpellare la madre – che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato covile) su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.

Com’è noto, la legge n. 184/1983, rubricata “Diritto del minore ad una famiglia”, disciplina tra l’altro il procedimento giurisdizionale per l’adozione del minore d’età con efficacia legittimante. L’art. 28, come modificato prima dalla legge n. 149/2001 e poi dal Dlgs n. 196/2003, ante declaratoria di incostituzionalità in commento, prevedeva che “Il minore adottato e’ informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni. (…). L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. (…) L’accesso alle informazioni non e’ consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata. In quest’ultima eventualità, l’art. 93 del D.lgs n. 196/2003 secreta anche le c.d. informazioni non identificative, ricavabili dal certificato di assistenza al parto o dalla cartella clinica, che il figlio può acquisire solo dopo che siano decorsi cento anni dalla nascita.

La previsione del parto in assoluto anonimato fu introdotta dal legislatore del 1984 per assicurare, da un lato, che il parto avvenisse nelle condizioni ottimali tanto per la madre che per il figlio, e. dall’altro lato, [per] distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi. Lo stretto legame tra diritti individuali ed interessi pubblicistici ha giustificato fino a tempi recenti la conservazione di un meccanismo rigido di accesso alle informazioni sulla propria origine da parte del figlio abbandonato alla nascita. Si riteneva che proprio l’impossibilità di superare quell’originario divieto della madre di essere nominata costituisse la garanzia di contenere il più possibile fenomeni interruttivi della gravidanza, che in condizioni di clandestinità ponevano in pericolo anche l’incolumità della gestante, o di abbandono selvaggio dei neonati.

Negli ultimi anni, però, si è sviluppato un ampio dibattito nel nostro Paese in ordine alla necessità di riformare il meccanismo di accesso alle informazioni sulle proprie origini, consentendolo anche in presenza di un originario divieto della madre ad essere menzionata. Il fenomeno dei bambini non riconosciuti alla nascita è andato ridimensionandosi nel tempo. Come si legge nella proposta di legge AC. n. 3030 del 10 dicembre 2009, negli anni ‘50 del XX sec. si contavano circa 5.000 casi l’anno. Negli ultimi anni la percentuale è drasticamente scesa a 400 casi. Le nascite si sono contratte del 39%, mentre i non riconoscimenti si sono ridotti addirittura del 91%. Molti dei non riconoscimenti che si registrano attualmente nel nostro paese sono di donne straniere. Il contenimento del fenomeno trova conforto senz’altro nel mutato quadro economico- sociale e della morale sociale. A fronte di questo dato confortante, è emerso in maniera prepotente il bisogno di quelle migliaia di figli abbandonati di ricostruire le file della propria esistenza, partendo dall’accertamento della identità dei propri genitori biologici. La legislazione internazionale riconosce unanimamente il diritto a conoscere le proprie origini come diritto fondamentale di ogni uomo ed impone agli Stati di attivarsi per assicurare che tale diritto sia esercitato con effettività. Non da ultima la CEDU all’art. 8, così come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, assicura tutela alla vita familiare e personale di ciascun individuo contro gli arbitri dei poteri delle pubbliche autorità, non solo vietando a questi di ostacolare l’esercizio effettivo di tale diritto, ma imponendo loro di attivarsi affinché predispongano misure in grado di assicurare tale esercizio anche nei rapporti tra consociati. L’urgenza di modifica del meccanismo di cui all’art. 28 Legge n. 184/1983 ha avuto sfogo lungo due direttrici fondamentali. Da una parte la via giurisdizionale, investendo della questione la Corte Costituzionale e la Corte Europea dei diritti dell’uomo, e dall’altra quella legislativa, con la presentazione al Parlamento nazionale di diverse proposte normative di modifica.

Prima della pronuncia in commento, la Consulta era già stata investita della legittimità costituzionale dell’art. 28 legge n. 184/1983 nella parte in cui non consentisse di superare l’originario anonimato in caso di autorizzazione della madre, appositamente richiesta dalle autorità giurisdizionali, alla menzione delle proprie generalità. In quell’occasione, tuttavia, la Corte aveva rigettato il ricorso (sentenza n. 425 del 25 novembre 2005), ritenendo in primis che l’istanza del rimettente fosse volta ad ottenere un intervento additivo non consentito ed in secundis che comunque la questione di legittimità costituzionale fosse infondata. Con riferimento a tale ultimo punto, sinteticamente la Corte aveva concluso per la ragionevolezza delle valutazioni sottese alla scelta della irretrattabilità dell’anonimato, in perfetta compatibilità sia con l’art. 2 che con l’art. 32 cost., strettamente correlato al primo in virtù della previsione dell’art. 93 D.lgs n. 196/2003 relativamente all’accesso alle informazioni non identificative. Aveva poi ritenuto non pertinente il richiamo all’art. 3 cost., stante la diversità di situazioni portate dal giudice remittente a confronto, quella del figlio adottivo che la madre non aveva voluto riconoscere e quella del figlio adottivo in ordine al quale tale dichiarazione non era stata fatta. Diversità che, ad avviso del Giudice delle Leggi, giustificava un trattamento differenziato.

Su ricorso ex art. 34 CEDU n. 33783/09, l’irragionevole esclusione tout court del figlio non riconosciuto a conoscere le generalità della madre che avesse scelto l’anonimato al momento della nascita viene posta all’attenzione della Corte di Strasburgo per sospetta violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

La Corte, nella sentenza Godelli c/ Italia del 25 settembre 2012, approda ad un giudizio negativo circa l’irretrattabilità dell’anonimato. Il diritto di conoscere la propria ascendenza rientra nel campo di applicazione della nozione di “vita privata” che comprende aspetti importanti dell’identità personale di cui fa parte l’identità dei genitori. (..) l’art. 8 [CEDU] tutela un diritto all’identità ed allo sviluppo personale e quello di allacciare e approfondire relazioni con i propri simili ed il mondo esterno. A tale sviluppo contribuiscono la scoperta dei dettagli relativi alla propria identità di essere umano e l’interesse vitale, tutelato dalla Convenzione, ad ottenere delle informazioni necessarie alla scoperta della verità riguardante un aspetto importante dell’identità personale, ad esempio l’identità dei propri genitori. La nascita, e in particolare le circostanze di quest’ultima, rientra nella vita privata del bambino, e poi dell’adulto, sancita dall’art. 8 della Convenzione che trova così applicazione nel caso di specie. L’art. 8 CEDU non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da ingerenze che possano pregiudicare il diritto alla vita familiare, ma impone obblighi positivi di adozione di misure che assicurino tale rispetto anche nei rapporti tra individui. La discrezionalità di cui godono gli Stati in relazione a tale ultimo aspetto trova il proprio limite nella equa ponderazione dell’interesse di tutelare la salute della madre e del minore durante la gravidanza ed il parto e di evitare aborti clandestini o abbandoni selvaggi, da un lato, e dell’interesse del figlio a conoscere le proprie origini biologiche, dall’altro. Tale limite è stato violato dallo Stato italiano, in cui è stata data prevalenza assoluta al diritto all’anonimato, senza consentire né la reversibilità dello stesso per volontà della madre appositamente interrogata né di accedere alle informazioni non identificative sulle origini in stretta correlazione con la scelta dell’anonimato al momento della nascita. In queste condizioni, la Corte ritiene che l’Italia non abbia cercato di stabilire un equilibrio ed una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa ed abbia dunque oltrepassato il margine di discrezionalità che le è stato accordato. Pertanto, conclude la Corte, vi è stata violazione dell’art. 8 della Convenzione.

Nelle more della pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sono stati presentati in Parlamento tre diverse proposte di legge: la più risalente è la n. 1899 del 12 novembre 2008, segue la n. 2919 dell’11 novembre 2009 e da ultimo la n. 3030 del 10 dicembre 2009. Tutte partono dalla considerazione che il diritto al parto in segreto ed in assoluto anonimato è una conquista giuridica che non possa essere messa in discussione; ritengono altresì improcrastinabile un nuovo bilanciamento del diritto della madre all’anonimato e del diritto del figlio a conoscere le proprie origini, incidendo sulla sostanziale irreversibilità del divieto di essere nominata manifestato dalla madre. Divergono, però, anche considerevolmente, sulle modalità di attuazione di questa nuova ponderazione degli interessi in gioco; molto estrema rispetto al testo fino ad oggi in vigore la proposta del novembre 2009, che prevede la decadenza del divieto con il raggiungimento del 40° anno di vita del figlio. Meritevole di attenzione, anche per la forte assonanza con la soluzione adottata dalla Consulta nella sentenza in commento, la proposta del dicembre 2009: consentire alla madre che all’epoca del parto avesse optato per l’anonimato di valutare la possibilità di rendere nota la propria identità.

A distanza di otto anni dalla pronuncia del 2005, alla luce della conclusioni rassegnate nel caso Gondelli e considerata, a fronte dell’inerzia del nostro legislatore, l’urgenza di tutelare il diritto fondamentale alla conoscenza delle proprie origini, come declinazione del diritto alla propria identità personale garantito dall’art. 2 cost., la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 28 Legge n. 184/1983 per violazione degli artt. 2 e 3 cost.. Il vulnus è proprio rappresentato dalla irreversibilità del segreto: mentre la scelta per l’anonimato legittimamente impedisce l’insorgenza di una “genitorialità giuridica”, con effetti inevitabilmente stabilizzati pro futuro, non appare ragionevole che quella scelta risulti necessariamente e definitivamente preclusiva anche sul versante dei rapporti relativi alla “genitorialità naturale”: potendosi quella scelta riguardare, sul piano di quest’ultima, come opzione eventualmente revocabile (in seguito alla iniziativa del figlio), proprio perché corrispondente alle motivazioni per le quali essa è stata compiuta e può essere mantenuta.

Deve allora essere consentito al figlio abbandonato che, compiuto il 25° anno di età, ne faccia richiesta, di poter conoscere l’identità della madre che abbia scelto l’anonimato, qualora, disposta l’interrogazione di quest’ultima da parte delle autorità, la stessa ne abbia autorizzato la notizia.

Sarà compito del legislatore, conclude la Consulta, introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto.

 

Antonia Quartarella

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