Il Dlgs. 4 marzo 2010, n. 28: prime considerazioni sull’obbligatorietà del tentativo di mediazione nelle controversie civili e commerciali

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Il Dlgs. 4 marzo 2010, n. 28: prime considerazioni sull’obbligatorietà del tentativo di mediazione nelle controversie civili e commerciali

 

1. Introduzione

Con il dlgs. 4 marzo 2010 n. 28 viene attuata una svolta epocale nel sistema italiano di amministrazione della giustizia: il legislatore rende “obbligatorio” il tentativo di mediazione per la soluzione di “alcune” controversie civili e commerciali.

Per la prima volta il legislatore impone alle parti, per poter adire successivamente la giurisdizione ordinaria, una prima fase conciliativa: esse cercano, con l’aiuto di un soggetto terzo ed imparziale, di comporre la lite con reciproca soddisfazione e vantaggi.

In realtà, rintracciare nel ricorso alla conciliazione1, quale condizione di procedibilità del giudizio, una vera “novità”, non sarebbe del tutto corretto: e basti pensare alla conciliazione obbligatoria in ambito laburistico2 .

Eppure può evidenziarsi un certo dato innovativo: la conciliazione diviene sì condizione di procedibilità, ma non viene esperita davanti ad un organo giudicante bensì davanti ad un soggetto che, come stabilito dal dlsg 28/2010 è, potenzialmente, “atecnico”, cioè non necessariamente un esperto del diritto; il suo ruolo infatti non è quello di giudicare e di stabilire chi ha torto e chi ha ragione, ma quello di mettere in comunicazione le parti e favorirne il dialogo al fine di arrivare in breve tempo ad una soluzione che le soddisfi entrambe.

 

2. I tratti essenziali della procedura di mediazione

Ai sensi del dlgs n. 28/2010, la parte che intende promuovere un percorso di mediazione presenta domanda ad un Organismo, indicando le parti, l’oggetto e le ragioni della pretesa. Ricevuta l’istanza, il responsabile fissa il primo incontro tra gli interessati, non oltre 15 giorni dopo, e comunica domanda e data all’altra parte.

L’incontro di mediazione, in genere, viene suddiviso in quattro fasi.

Nella prima, il mediatore accoglie le parti ed illustra il proprio ruolo, la procedura e chiede loro di descrivere il problema oggetto della lite.

Nella seconda, il mediatore analizza approfonditamente ogni singola questione presentata dalle parti, e la chiarisce al fine di arrivare ad una determinazione del problema quanto più condivisa possibile. Individuati gli aspetti precipui della questione, egli effettua incontri individuali3 con ciascuna parte per far emergere i bisogni e gli interessi sottesi alle posizioni assunte; cerca in sostanza di chiarire le ragioni per cui esse avanzano quelle determinate pretese.

La utilità di una tale indagine appare evidente non appena si consideri che i bisogni e gli interessi sottesi ad ogni lite possono essere in qualche modo condivisi per addivenire a delle soluzioni soddisfacenti per entrambe le parti.

Nella terza fase, vengono poi elaborate le diverse opzioni che, secondo ciascuna parte, potrebbero risolvere la questione. E non è inutile osservare che in sede conciliativa, al contrario di quanto accade nella giurisdizione ordinaria, non vige il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Infine, qualora le parti raggiungano un accordo, raccolgono in un documento la soluzione che le soddisfa entrambe.

Il compito del mediatore è dunque quello di facilitare la comunicazione tra le parti, creare un clima sereno affinchè esse possano esprimere i loro bisogni e le loro aspettative e, in tal modo, trovare da sole delle soluzioni adeguate al loro problema.

A volte però è possibile che, al termine della procedura sia lo stesso mediatore a formulare per iscritto una proposta d’accordo che le parti possono accettare o meno; in tal caso il giudice potrà tenerne conto nel successivo eventuale giudizio ai fini della determinazione delle spese.

 

3. I precedenti: le forme di mediazione facoltativa

Le forme di mediazione facoltativa sono la conciliazione paritetica, quella presso i Corecom e quella presso le Camere di Commercio.

La conciliazione paritetica non è altro che un tavolo di trattativa tra un rappresentante dell’azienda e un rappresentante dell’associazione dei consumatori. Alla base di questa procedura vi è un protocollo d’intesa, firmato con l’azienda4, con cui le parti si impegnano a definire un percorso comune per i reclami e le contestazioni.

La durata media delle procedure di conciliazione è di 75 giorni circa, ed ha inizio quando il consumatore presenta la domanda all’associazione di consumatori dalla quale intende essere rappresentato. Invia la domanda alla segreteria dell’associazione prescelta e quest’ultima convoca la Commissione di conciliazione.

Al termine del procedimento, i componenti della Commissione redigono e sottoscrivono un verbale con un’ipotesi di accordo da inviare al consumatore. Quest’ultimo ha un termine per comunicare l’accettazione dell’ipotesi proposta, trascorso il quale, se non ha dichiarato di accettarla rinviando il verbale sottoscritto, l’ipotesi di conciliazione si intende rifiutata e la Commissione redigerà un verbale di mancato accordo che viene inviato al consumatore.

Il procedimento presso i Corecom5 viene instaurato per i casi di controversie che abbiano ad oggetto il settore delle comunicazioni: e si pensi alla telefonia, internet, e pay tv.

L’istanza di conciliazione può essere presentata solo dopo che è già stato fatto un reclamo formale al gestore dei servizi, ed i riferimenti di tale reclamo devono essere riportati nell’istanza stessa.

Il tentativo di conciliazione è obbligatorio per poter procedere al giudizio. Se non viene raggiunto l’accordo, infatti, sarà l’Agcom (Autorità Garante per le telecomunicazioni), su richiesta di almeno una parte, a definire la controversia, a meno che non venga proposto un ricorso giudiziale, o siano trascorsi più di sei mesi dalla data di conclusione del procedimento di conciliazione.

Le parti possono essere assistite o meno da un legale o da un consulente, ed il conciliatore, terzo ed indipendente, cerca di facilitare le trattative al fine della composizione della lite. Il conciliatore Corecom, in particolare, può suggerire una proposta anche se non sollecitato dalle parti ed in qualsiasi momento. La durata media di tali procedimenti è di 71 giorni.

I procedimenti conciliativi possono svolgersi anche innanzi alle Camere di Commercio che offrono tali servi attraverso appositi uffici, aziende speciali, ed associazioni di Camere. La durata media di una conciliazione presso la Camera di commercio è di circa 66 giorni..

 

4. Un precedente comunitario

Anche se non si tratta di una “legge comunitaria”, assume particolare rilevanza in materia la raccomandazione 98/257/CR della Commissione del 30 marzo 1998, relativa ai principi applicabili agli organi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo. Si tratta di principi generali che, seppur emanati per una materia specifica, possono essere estesi a tutti procedimenti di ADR. La Commissione, in particolare, raccomanda che tutti gli organismi che avranno la competenza per la risoluzione extragiudiziale delle controversie (nello specifico in materia di consumo), rispettino i principi di: indipendenza, trasparenza, del contraddittorio, di efficacia, di legalità, di libertà e di rappresentanza.

E’ opportuno analizzare sinteticamente i suddetti principi.

Con il principio di indipendenza si intende garantire che l’organo responsabile dell’adozione della decisione sia imparziale in ogni sua azione. Qualora poi la decisione venga presa da un soggetto singolo, la sua indipendenza viene garantita da molteplici fattori: si richiede espressamente che questi abbia capacità, esperienze e competenze necessarie allo svolgimento delle sue funzioni, e che abbia ricevuto un mandato irrevocabile di durata sufficiente a garantire l’indipendenza della sua azione, né può essere destituito senza giustificato motivo. Qualora poi questo soggetto viene nominato o retribuito da un’associazione professionale o da un’impresa, si richiede che esso non abbia svolto attività lavorative, nel corso dei tre anni precedenti l’assunzione della funzione, per questa associazione professionale o uno dei suoi membri o per l’impresa in questione. In caso invece di un collegio, l’indipendenza dell’organo responsabile dell’adozione della decisione può essere garantita attraverso la rappresentanza paritaria dei consumatori e dei professionisti, o comunque attraverso il rispetto dei criteri sopra enunciati.

Il principio di trasparenza comporta l’adozione di mezzi adeguati a garantire la trasparenza della procedura. Tali mezzi comprendono la comunicazione scritta, a qualunque soggetto, di informazioni riguardanti la descrizione precisa delle controversie che possono essere sottoposte all’organismo, o gli eventuali limiti riguardanti la copertura territoriale e il valore dell’oggetto delle controversie. Il citato Regolamento impone altresì di adottare delle norme relative alla presentazione del reclamo all’organismo competente che siano trasparenti e conoscibili; in particolare si dovranno fornire informazioni preventive sul costo eventuale della procedura alle parti, sulle regole sulle quali si fondano le decisioni dell’organo, sul valore giuridico della decisione: questo vuol dire ad esempio che devono essere precisate le sanzioni applicabili in caso di mancato rispetto della decisione. Devono essere infine indicate le eventuali forme di ricorso esistenti per la parte che non ha ottenuto soddisfazione.

Secondo il principio del contraddittorio, tutte le parti interessate devono avere l’opportunità di far conoscere il proprio punto di vista all’organo competente e di prendere conoscenza di tutte le posizioni e di tutti i fatti avanzati dall’altra parte, nonché, eventualmente, delle dichiarazioni degli esperti.

L’ efficacia della procedura deve essere garantita da misure che permettano l’accesso del consumatore alla conciliazione senza la obbligatoria assistenza di un rappresentante legale, gratuitamente o con costi moderati; occorre altresì che siano fissati termini brevi tra la presentazione del reclamo all’organo e l’adozione della decisione (c.d. principio di efficacia della procedura).

Secondo il principio di legalità, la decisione dell’organo non può mai pervenire al risultato di privare il consumatore delle tutele garantite dalle disposizioni imperative della legge dello Stato sul territorio del quale l’organo ha la sua sede.

Il principio di libertà impone che la decisione dell’organo possa essere vincolante nei confronti delle parti solo se esse ne sono state precedentemente informate ed hanno esplicitamente accettato il vincolo. L’adesione del consumatore alla procedura extragiudiziale non può comunque derivare da un patto preventivo assunto in violazione del diritto di adire le giurisdizioni competenti per la risoluzione giudiziaria della controversia.

In virtù, infine, del principio di rappresentanza, la procedura non può privare le parti del diritto di farsi rappresentare o accompagnare da un terzo in qualunque fase della procedura stessa.

 

5. Il Dlgs. n. 28/2010 alla luce dei dettami costituzionali

Il dlgs. 28/2010 opta per una dilatata operatività della giurisdizione c.d. condizionata per buona parte della materia privatistica.

Per la interpretazione delle nuove previsioni in tema di conciliazione potranno costituire una buona bussola di orientamento i referenti costituzionali, la casistica formatasi in materia di rito del lavoro, ed i principi comunitari.

Per ciò che riguarda la coerenza con le norme comunitarie, sia la Direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008, sia una recentissima sentenza della Corte di Giustizia, pongono quale unico limite agli Stati membri che intendono introdurre un tentativo obbligatorio di conciliazione, quello di non impedire alle parti “di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario6.

La Consulta, più volte chiamata a sindacare sulla legittimità di forme di “filtro” per l’accesso alla giurisdizione, ne ha sempre affermato la legittimità per il caso in cui la “sanzione” da applicare, nei confronti della domanda giudiziaria proposta in assenza di tale filtro preventivo, fosse quella della mera improcedibilità e non quella, più grave, della improponibilità7; l procedimento obbligatorio di mediazione diventa dunque una semplice condizione di procedibilità della domanda, e non una condizione di proponibilità dell’azione8.

Tali “filtri”, infatti, vanno adeguatamente valutati alla luce dell’art. 24 Cost. che sancisce, quale principio generale per il nostro ordinamento, la tutela dell’accesso al sistema giudiziario.

La conformità a tale precetto delle disposizioni in commento può evincersi dalla previsione di un periodo massimo di durata della fase conciliativa, e dall’anticipazione degli effetti della domanda giudiziale (vengono soltanto sospesi i termini di prescrizione e decadenza relativi all’esercizio giudiziale della pretesa).

L’obbligo di mediazione, poi, non impedisce né rende nulla la trascrizione della domanda proposta in mancanza del previo tentativo di conciliazione.

Più delicata e problematica appare invece la conformità all’art. 24 Cost. con riferimento all’ampiezza dell’area coperta dalla conciliazione obbligatoria ex lege: dall’analisi delle ipotesi menzionate nell’art. 5, comma 1, può evincersi che, nel quadro dei diritti disponibili, restano ben pochi settori (se non quello societario e quello delle azioni di classe espressamente eccettuato dalla norma) per cui non è imposto il procedimento di mediazione come filtro preventivo. Tanto più che la legge n. 69/2009 non delegava in maniera determinata e per oggetti definiti l’introduzione di fattispecie in cui il tentativo di conciliazione fosse obbligatorio. Il comma 1, dell’art. 60 è infatti generico nel delegare il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione”, né può desumersi alcuna previsione di dettaglio dalla lettura del comma 3, che detta i criteri della delega.

Altro profilo che pone qualche dubbio di coerenza costituzionale attiene a quelle disposizioni che prevedono sanzioni e condanne alle spese per la parte vittoriosa che abbia rifiutato la proposta conciliativa poi recepita in sentenza; tali sanzioni sono piuttosto gravi e scattano in automatico, addirittura oltre la previsione della delega di legge che ne sanciva la mera “possibilità”. L’art. 13, infatti, stabilisce che il giudice condanna la parte vittoriosa a pagare le spese sostenute dal soccombente nel periodo successivo alla proposta, l’indennità del mediatore e il compenso eventualmente dovuto all’esperto, nonché a versare una somma pari al contributo unificato dovuto. Il rischio di rimanere penalizzati però si riduce notevolmente nel caso in cui vi sia una coincidenza solo parziale tra la proposta rifiutata e la decisione del giudice: in questo caso la parte vincitrice può essere esclusa dalla ripetizione delle spese sostenute durante il procedimento di mediazione purchè concorrano gravi ed eccezionali ragioni che devono risultare esplicitamente dalla motivazione della sentenza. Tutte queste sanzioni hanno un chiaro scopo deflazionistico ma, secondo una dottrina, avrebbero la funzione di ostacolare la giustizia con strumenti di coazione indiretta: “manca il divieto diretto ed immediato di adire il giudice, ma vi è la costrizione morale che porta lo stesso risultato9. In più, la stessa dottrina ravvisa ulteriori profili di incostituzionalità per violazione “degli art. 24 e 102 Cost., sia perché la mediazione preventiva così concepita e disciplinata intralcia il libero esercizio dell’azione civile, sia perché il c.d. mediatore imparziale assume la veste di un giudice e dà vita alla creazione di una giurisdizione straordinaria o speciale, così come è stato ripetutamente deciso dalla Corte Costituzionale a proposito degli arbitri obbligatori10. Ma tali considerazioni non sembrano condivisibili: l’istituzione infatti del tentativo di conciliazione obbligatorio non porta all’istituzione di una nuova giurisdizione. Il conciliatore non decide: egli ha il diverso compito di agevolare la comunicazione tra le parti facendo emergere aspetti della vicenda ed interessi reciproci che possono portare entrambe le parti a concludere un accordo compositivo; e pertanto la vincoltività di una tale composizione trova pur sempre la sua fonte nell’autonomia negoziale e non in un provvedimento giurisdizionale.

 

6. Mediazione facilitativa ed aggiudicativa

Nel procedimento di mediazione il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole da cristallizzare poi in un documento firmato da entrambe.

Il ruolo del mediatore può essere meramente facilitativo oppure aggiudicativo.

Nel primo caso egli spinge le parti ad una attenta analisi della situazione, aiutandole ad evidenziare e mettere in luce i punti di forza e le debolezze delle rispettive pretese, al fine di pervenire ad una composizione della lite con reciproco beneficio. In quest’ultimo caso viene redatto un verbale positivo, cui viene allegato il testo dell’accordo (art. 11, comma 1 dlgs 28/2010) che viene sottoscritto dalle parti e dal mediatore che certifica l’autografia delle stesse o la loro impossibilità di sottoscrivere. Qualora l’accordo conciliativo abbia ad oggetto diritti su beni immobili soggetti a trascrizione (e annotazione), nonché per gli atti di divisione ex art. 2645 c.c., si dovrà provvedere a tali ulteriori formalità, ed a tal fine allora la sottoscrizione del verbale dovrà essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

L’accordo positivo potrà anche prevedere, per il caso di violazione o inosservanza degli obblighi o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro (art. 11, comma 3).

Il comportamento del mediatore può, altresì, essere aggiudicativo: e ciò accade quando le parti, da sole, non riescano a raggiungere un compromesso soddisfacente. Il mediatore, in questo caso, formula una proposta di conciliazione dopo aver informato le parti delle conseguenze inerenti alla spese processuali ex art. 13 del dlgs 28/2010, nel caso in cui il provvedimento che definisca il giudizio dovesse corrispondere interamente al contenuto della proposta rifiutata.

La proposta conciliativa può essere formulata dal mediatore in qualunque momento del procedimento ove le parti ne facciano concorde richiesta. In questo caso il mediatore comunica per iscritto alle parti la proposta di conciliazione e queste ultime dovranno far pervenire, per iscritto ed entro 7 giorni, l’accettazione o il rifiuto della stessa. La mancata risposta entro il predetto termine equivale a rifiuto.

Della proposta, del suo rifiuto o della sua accettazione, bisogna dare notizia nel processo verbale. Salvo diverso accordo, la proposta non potrà contenere riferimenti alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento: infatti il mediatore è tenuto al segreto professionale e vincolato all’obbligo di riservatezza.

L’art. 60 della legge delega n. 69 del 2009 nulla prevedeva a riguardo, e ci si chiedeva cosa sarebbe successo qualora il mediatore venisse chiamato a deporre sui fatti di cui fosse venuto a conoscenza durante la conciliazione; il legislatore ha risolto la questione prevedendo all’art. 9 il dovere di riservatezza, ed all’art.10 del dlgs 28/2010 l’inutilizzabilità delle informazioni acquisite e l’obbligo del segreto professionale.

La proposta del conciliatore può dunque essere accettata o rifiutata; in entrambi i casi si dà atto della proposta nel verbale di conciliazione e questo, come già detto, viene sottoscritto da entrambe le parti e dal mediatore che certifica l’autografia delle stesse, o la loro impossibilità a sottoscrivere.

 

7. Il verbale di conciliazione

Al termine della procedura, che deve in ogni caso concludersi entro quattro mesi (art. 6, comma 1), si redige un verbale che viene depositato presso la segreteria dell’organismo di conciliazione adito.

L’accordo finale delle parti ha natura contrattuale, e dovrà avere la forma e la sostanza previsti da eventuali disposizioni di leggi specifiche per le materie trattate.

Su istanza di parte, il verbale di accordo che non sia contrario all’ordine pubblico, norme imperative e buon costume, può essere omologato con decreto del presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo, previo accertamento anche della regolarità formale.

A seguito di omologa, il verbale di conciliazione può avere forza di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione in forma specifica e l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Nel caso di controversie transfrontaliere, il tribunale competente per l’omologazione sarà quello nel cui circondario l’accordo deve essere eseguito.

Il legislatore ha previsto dei vantaggi per il verbale di accordo sottoscritto dalle parti. Infatti esso è esente dall’imposta di registro sino ad un valore di 50,000 euro (art. 7, comma 3) ed è idoneo, come già detto, a costituire titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12, comma 1).

 

8. La mediazione e la sua relazione con gli istituti affini

La mediazione viene immaginata dal legislatore come alternativa al processo. Proprio per questa sua funzione, è stato previsto un obbligo di informazione a carico del legale, relativamente alle controversie che hanno ad oggetto diritti disponibili per cui il tentativo di conciliazione è obbligatorio.

Il documento contenente l’informativa al cliente, qualora poi la causa vada in giudizio, deve risultare allegato all’atto di citazione.

Se manca l’allegazione è lo stesso giudice ad informare la parte sulla possibilità di mediazione, come, si presume abbia già fatto l’avvocato, anche se ciò non risulta dagli atti.

Nel caso in cui l’informazione non venga data neanche al momento del conferimento dell’incarico, o non sia sufficientemente esaustiva, la sanzione prevista è invece assai grave: l’assistito potrebbe impugnare il contratto che lo lega al legale domandandone l’annullamento (art. 4), e chiedere altresì i danni secondo le ordinarie regole di diritto comune.

La violazione dell’obbligo di informazione comporta, come detto, l’annullabilità (e non più la nullità, come previsto nello schema di decreto del 2009) del contratto tra l’avvocato e l’assistito. Occorre tuttavia osservare che gli eventuali vizi del contratto di patrocinio tra l’avvocato e il suo assistito non si ripercuotono sul potere di rappresentare la parte in giudizio. Pertanto, è da ritenere che anche laddove l’assistito dovesse decidere di agire in giudizio nei confronti del suo avvocato invocando l’annullabilità del contratto di patrocinio, un eventuale accoglimento della domanda non inficerebbe la procura alle liti e quindi gli atti processuali svolti dal difensore per conto della parte.

 

9. La mediazione e il processo civile

Può anche accadere che la mediazione si svolga successivamente all’instaurazione del giudizio, nel caso in cui giudice adito suggerisce alle parti di optare per una soluzione conciliativa. Il giudice non è mai obbligato a formulare un tale invito: egli deve piuttosto valutare in concreto se ve ne siano gli estremi, o se i diritti in contesa siano disponibili.

Le parti possono ignorare tale invito ed il processo proseguirà senza che si producano conseguenze ulteriori rispetto a quella sancita dall’art. 116, comma 2, c.p.c.

Qualora, invece, l’invito venga accolto, le parti restano sempre libere di individuare la sede o l’organismo presso cui avviare un procedimento di mediazione.

Se la mediazione ha successo, le parti possono chiedere al giudice di dichiarare cessata la materia del contendere e provvedere successivamente a domandare l’omologazione dell’accordo al Presidente del tribunale nel cui circondario è avvenuta la mediazione.

Le parti possono anche chiedere al giudice di recepire il contenuto dell’accordo in un verbale di conciliazione formato ai sensi dell’art. 185 c.p.c col vantaggio di avere subito un titolo esecutivo.

Qualora entro il termine di quattro mesi11 fissato dalla legge la mediazione fallisce, il giudice proseguirà con l’udienza a suo tempo fissata, non occorrendo che siano le parti a riassumere la causa.

L’onere di sollevare l’eccezione relativa al mancato esperimento del tentativo di mediazione spetta, presumibilmente, al convenuto che può proporla entro la prima difesa. Viene in tal modo confermata la soluzione, già precedentemente predisposta in materia societaria, di rendere rilevanti in sede processuale le clausole di conciliazione volontaria, in funzione di un tentativo che sia poi esperito presso gli organismi abilitati. Se l’impegno a ricorrere preventivamente alla mediazione è previsto da una clausola, l’improcedibilità deve essere proposta su eccezione di parte nella prima difesa.

E’ importante notare che gli effetti della domanda di mediazione sono gli stessi della domanda giudiziale per quanto attiene alla prescrizione che viene interrotta e sospesa; per ciò che concerne la decadenza, invece, viene impedita dalla domanda di mediazione ove questa sia presentata per la prima volta, e se il tentativo fallisce il termine inizia a decorrere dalla data del verbale negativo, per un periodo pari a quello originariamente previsto.

 

10. La mediazione e l’arbitrato

L’idea che nelle controversi devolute in arbitri fosse posto come obbligatorio il tentativo di mediazione è naufragata ragionevolmente, grazie alla Commissione Giustizia del Senato che con motivazioni condivisibili ha sostenuto che “non appare coerente configurare la mediazione come condizione di procedibilità rispetto al procedimento arbitrale che è procedimento privato, per sua natura celere e dotato di attitudine alla conciliazione”.

Le ragioni deflattive del contenzioso, infatti, non sono sostenibili davanti ad un rito assolutamente volontaristico come quello arbitrale.

Qualora le parti abbiano previsto una clausola convenzionale o statutaria la mediazione può divenire un passaggio obbligato del giudizio arbitrale; in tal caso potrà accadere o che le stesse parti vi procedano spontaneamente, o che una di loro formuli nella prima difesa la relativa eccezione a pena di decadenza nella comparsa di risposta, se innanzi al giudice ordinario, e nell’atto equivalente, in caso di giudizio arbitrale.

Nel procedimento innanzi ad arbitri non si produrranno gli effetti sostanziali della domanda di mediazione (interruzione della prescrizione, sospensione dei termini di decadenza, idoneità alla trascrizione, disciplina fiscale), e non varranno le regole sul procedimento.

 

11. Il ruolo dell’avvocato

Compito dell’avvocato , dopo aver dato al cliente l’informativa sull’obbligatorietà del processo conciliativo, è quello di dare avvio alla procedura; egli redigerà la domanda e la depositerà insieme agli eventuali documenti presso l’organismo che si occuperà di nominare il mediatore, fissare l’incontro e convocare l’altra parte.

Per la domanda iniziale, come per l’eventuale risposta della controparte, non sono previsti requisiti formali specifici; occorre però considerare che la domanda, da depositarsi presso l’organismo adito, deve, ipso facto, essere redatta in forma scritta. La domanda deve indicare altresì l’organismo scelto, le parti, l’oggetto della lite e le ragioni della pretesa.

L’istanza, ai sensi dell’art. 5 comma 6, del decreto in commento, dal momento in cui è comunicata alle altre parti, produce sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale e impedisce altresì la decadenza. Il verbale dell’eventuale accordo potrà essere poi trascritto ed avere forza di titolo per l’iscrizione di ipoteca.

Durante l’esperimento della procedura conciliativa l’avvocato avrà cura di aiutare il mediatore a condurre le parti verso la migliore alternativa possibile di accordo (“Maan”) e valuterà tale opportunità con il cliente. Dovrà evidenziare al cliente i punti forti ed i punti deboli della difesa di entrambe le parti, cercando di calibrare al meglio le pretese, in termini di tempo e costi, con le conseguenze di un eventuale abbandono del tavolo delle trattative.

L’avvocato deve poi attentamente considerare la situazione del cliente al fine del proprio consiglio sulla mediazione; ed in tale senso dovrà avere riguardo anche agli interessi ed al carattere del proprio cliente, più o meno disponibile alla mediazione.

Sarà opportuno consigliare il ricorso alla mediazione quando le parti hanno interesse alla prosecuzione dei rapporti; o quando il valore della controversia non giustifica i tempi ed i costi di un giudizio ordinario; o se il cliente non ha prove sufficienti a dimostrare in giudizio la fondatezza della propria pretesa; o se vi è un peculiare interesse a mantenere riservata la soluzione della controversia.

 

12. La clausola di mediazione

La previsione legislativa sulle concrete modalità di redazione della clausola conciliativa, risulta piuttosto lacunosa quanto all’individuazione dei requisiti di forma e sostanza che essa deve avere

Muovendo l’analisi dal dettato normativo, occorre innanzi tutto prendere in considerazione la forma che tale pattuizione dovrebbe rivestire. Il requisito della forma scritta della clausola di mediazione sembra potersi evincere facilmente dal testo di legge; resta invece da chiarire se si tratti di forma ad substantiam o ad probationem. In assenza della previsione di una sanzione espressa sembra di poter affermare che la forma scritta della clausola venga richiesta semplicemente ai soli fini probatori.

La clausola di mediazione deve avere come contenuto minimo la scelta di un organismo di mediazione convenzionalmente scelto tra quelli iscritti nell’apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia. La scelta di un organismo non iscritto, o la genericità di della clausola su questo punto, non dovrebbe determinarne di per sé la nullità. Nel caso in cui invece l’organismo non risulti iscritto, l’eventuale verbale conciliativo non godrà dei privilegi indicati dalla legge.

La scelta di un organismo rispetto ad un altro può rivelarsi fondamentale quando se ne conoscono i gradi di specializzazione o la professionalità, mentre può rivelarsi penalizzante nel caso in cui la scelta possa nascondere interessi sottostanti. In particolare, nei contratti con il consumatore, occorrerà adeguatamente valutare quelle pattuizioni che possono assumere i caratteri della vessatorietà.

In questo senso pare auspicabile prevedere una competenza territoriale per gli organismi di conciliazione, magari avuto riguardo alla competenza del Giudice territorialmente competente per il futuro ed eventuale processo.

 

 

1 Il dlgs n.28/2010, art. 1, lett. c) indica come “mediazione: l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa” e, alla lettera e) come “conciliazione: la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della mediazione”.

2 Paradossalmente, mentre il legislatore, di fatto, constata il fallimento della conciliazione in ambito laburistico, la estende oggi maggioranza delle controversie civili e commerciali; di fatto l’art. 31 c. 1, d.d.l. “Deleghe al governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in materia di lavoro pubblico e di controversie di lavoro”, sostituisce l’art. 410 c.p.c., rendendo facoltativo il tentativo di conciliazione nella materia laburistica. L’art. 31, comma 8, estende le nuove disposizioni contenute negli artt. 410, 412, 412 ter e 412 quater c.p.c. anche alle controversie in materia di pubblico impiego abrogando gli artt. 65 e 66, dlgs. 30 marzo 2001, n. 165. L’art. 31, comma 2, prevede invece che solamente il “tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 80, comma 4, dlgs. 10 settembre 2003, n. 276, è obbligatorio”.

3 Gli incontri individuali sono strumenti fondamentali per il mediatore poiché egli riesce così ad instaurare un rapporto personale con le parti. Durante questi incontri il mediatore può ottenere delle informazioni riservate che una parte non vuole comunicare all’altra ma che potrebbero essere fondamentali per la risoluzione del problema; viene fatto un esame della realtà controllando punti di forza e debolezza della pretesa di ciascuna parte; è possibile affrontare i momenti di empasse della mediazione o gli stati di forte emotività che potrebbero pregiudicare la trattativa; si favorisce la formulazione delle proposte e la riflessione sulla migliore alternativa all’accordo negoziato, ossia vengono individuate le possibili alternative qualora non venisse raggiunto un accordo di mediazione. Il mediatore verifica poi la sussistenza di una volontà delle parti a continuare la lite: più le parti si arroccano sulle proprie posizioni e più hanno interesse ad agire in giudizio, meno saranno portate ad una conciliazione.

4 I più importanti accordi coinvolgono banche, telecomunicazioni, energia, ferrovie, poste.

5 I Corecom sono gli uffici di governo, garanzia e controllo sul sistema delle comunicazioni in ambito regionale. Si tratta di organi funzionali dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom).

6 Corte di giustizia, 18 marzo 2010 (cause riunite C-317, 318, 319 e 320/2008), 42 e ss., Alassini c. Telecom Italia e Wind.

7 Cfr. per tutti Corte cost., 26 ottobre 2007, n. 355 e 19 dicembre 2006, n. 463, ove la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 bis c.p.c. è stata dichiarata inammissibile “sulla base del rilievo che il legislatore può imporre condizioni all’esercizio del diritto di azione se queste, oltre a salvaguardare gli interessi generali, costituiscono, anche dal punto di vista temporale, una limitata remora all’esercizio del diritto stesso.”

8 Ciò significa che la parte può agire in giudizio anche prima di avviare la mediazione e procedere eventualmente a trascrivere la domanda giudiziale per conseguire intanto gli effetti sostanziali descritti dall’art. 2652 e ss. c.c.

9 Cfr. Monteleone G., La mediazione “forzata”, in www.judicium.it

10 Cfr. Monteleone G., op. cit.

11 Onde evitare successive “dilazioni strategiche”, il legislatore ha chiarito che questo termine non può essere dilatato neanche dall’applicazione della c.d. feriatio (art. 6, comma 2) e che non si conteggia ai fini della ragionevole durata del processo (art. 7).

Nunzio Andrea Russo

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