Il discrimen tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione: una applicazione pratica in ambito cautelare tra oggettività della condotta e finalismo, aspettando le SS.UU. Penali

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Nota a commento della Sentenza n° 10647/2020 della Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, emessa all’udienza del 13.12.2019 e depositata il 25.3.2020.

 (a cui è stata rimessa questione in decisione il 16.7.2020, ricorrenti FILARDO Nicola + 2, con ordinanza di rimessione della Seconda Sezione n° 50696/2019).

 

Introduzione. Il caso concreto e la decisione della Corte di Cassazione, 2^ Sezione Penale. Una prima (incerta e parziale) risposta, in ambito cautelare, alla vexata questio.

La Corte di Cassazione, 2^ Sezione Penale, con la sentenza emessa all’esito della udienza del 13.12.2019, depositata il 25.3.2020, ha riaffrontato (sia pure in ambito cautelare) la vexata questio del discrimen tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione.

La decisione adottata, di annullamento con rinvio per nuovo esame, costituisce una soluzione obbligata (e per nulla sorprendente), non essendo stati approfonditi e motivati, nel provvedimento impugnato, alcuni aspetti essenziali per la corretta qualificazione giuridica del fatto contestato al prevenuto.

In particolare, non essendo stato accertato se l’imputato era effettivamente titolare di un diritto di credito certo liquido ed esigibile (dalle intercettazioni telefoniche era emerso che l’imputato era creditore di una somma di circa €. 10.000,00 per motivi di lavoro nei confronti della p.o., senza che però fosse stata acquisita la versione della presunta persona offesa sul punto e/o acquisite le sue dichiarazioni, essendo questa una prospettazione “unilaterale” del cautelato) nei confronti della presunta persona offesa, suscettibile di essere azionato davanti al giudice civile (del lavoro, nel caso di specie) e se era stato tenuto un comportamento violento o minaccioso dall’indagato che avesse prodotto l’effetto di costringere la p.o. a pagare una somma (peraltro la metà di quella asseritamente dovuta, a seguito della intermediazione di un personaggio presentatosi ed accreditato come vicino, se non intraneo, alla mafia, presente all’occasione dell’incontro, svoltosi cordialmente e concluso con saluti amichevoli ed anche un bacio sulla guancia, all’esito del quale la p.o. si era determinata a bonificare la metà della somma pretesa), la Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, non ha potuto che accogliere il secondo motivo di ricorso proposto dalla difesa dell’imputato, rinviando al giudice della cautela per un nuovo ed approfondito esame di merito su tali aspetti essenziali ai fini della corretta qualificazione giuridica del fatto, che – come è noto – non può essere certamente accertato e ricostruito dai giudici di legittimità.

Nella motivazione, la Seconda Sezione Penale manifesta (chiaramente) di aderire ad un ben determinato indirizzo della Suprema Corte in relazione alla individuazione della distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione, secondo cui il reato di estorsione sarebbe ravvisabile quando il titolare della pretesa giuridicamente azionabile esercita la violenza o una minaccia grave e comunque sproporzionata rispetto al fine da conseguire e che produce l’effetto di costringere la p.o. a soggiacere all’autore non lasciandogli altra scelta ed, invece, si configurerebbe il diverso (meno grave) reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando la violenza o la minaccia esercitata dal titolare della pretesa azionabile in giudizio produce un effetto più blandamente persuasivo, e non costrittivo, sulla persona offesa.

Per la verità tale soluzione non è del tutto (ad avviso dello scrivente) persuasiva e riflette appieno tutte le incertezze ed oscillazioni della giurisprudenza nel tentativo di individuare una netta e precisa linea di demarcazione tra il reato di cui all’art. 393 e quello di cui all’art. 628 c.p.

Un confine mobile, spesso invisibile, che dipende (spesso e volentieri) dall’accertamento di merito del fatto contestato e dei rapporti tra le parti e che sfugge a volte alla pretesa dell’interprete di intrappolare in una definizione concettuale e astratta la realtà fenomenica di un fatto umano.

Al di là della labilità del discrimen di per sè, dettata dalla necessità di ricostruire il fatto ed accertarlo nella sua dimensione concreta e specifica (sempre presente in ogni fattispecie sottoposta a giudizio), si deve  rilevare che la questione, della corretta individuazione del confine tra queste due fattispecie, è assai ingarbugliata anche dal punto di vista teorico e giuridico, sotto plurimi e decisivi aspetti.

Prova ne è che sempre la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha rimesso questione alle SS.UU. con ordinanza n° 50696/2019, che verrà decisa alla udienza del 16.7.2020.

Il quesito è stato posto alle SS.UU. dalla Sezione Remittente nei seguenti termini:

“Se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni debba essere qualificato come reato proprio esclusivo e, conseguentemente, in quali termini si possa configurare il concorso del terzo non titolare della pretesa giuridicamente tutelabile. Se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al grado di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi come debba essere accertato tale elemento”.

In attesa della decisione delle SS.UU., non sembra inutile interrogarsi sul significato e sulla portata dei quesiti posti, in modo da tentare di individuare le possibili soluzioni agli stessi e verificare la loro tenuta dal punto di vista giuridico.

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La prima questione è se l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni sia un reato esclusivo o di mano propria oppure un reato “comune” (secondo l’interpretazione propugnata dalla Sezione remittente).

Alcune ultime pronunce di legittimità – delle quali l’ordinanza di rimessione dà adeguatamente conto – accreditano il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni come un reato esclusivo o c.d. “di mano propria”, ritenendo che la condotta tipica possa essere commessa soltanto dal titolare del diritto giuridicamente azionabile e non da un terzo estraneo ad essa.

Tali pronunce fanno leva su un duplice argomento, uno di natura letterale secondo cui tale reato è commesso da chi “…si fa ragione da se medesimo” (il che farebbe pensare ad un reato legato ad un tipo di autore ed escluderebbe conseguentemente la possibilità della ingerenza di un terzo nell’esercizio di una pretesa giuridicamente azionabile che non gli appartenga), ed un altro di natura sistematica secondo cui l’inserimento del reato di cui all’art. 392 e 393 c.p. nell’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia dovrebbe far ritenere che se è in qualche modo tollerabile che il titolare di un preteso diritto lo eserciti con violenza o minaccia in danno dell’obbligato non potrebbe accettarsi che si comporti così un terzo estraneo che verrebbe così ad usurpare il monopolio statale dell’esercizio della giurisdizione.

Tali argomentazioni vengono criticate dalla Seconda Sezione rimettente e non sono peraltro realmente convincenti.

Infatti, depone in senso contrario alla tesi della natura di reato proprio (che si vorrebbe attribuire all’esercizio arbitrario delle proprie ragioni) il fatto che tale delitto possa essere commesso da “chiunque”.

Tale locuzione è tipica dei reati comuni.

E non certo di reati che presuppongano un determinato tipo di autore.

Ciò induce a ritenere che il reato di ragion fattasi sia un reato comune e non necessariamente proprio.

Non vi è poi ragione per escludere l’operatività del concorso di persone nel reato, che, di fatto (se si ragionasse in tali termini), verrebbe del tutto svuotato.

Infatti, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si può configurare quando ad agire, per la realizzazione di un proprio preteso diritto, sia il titolare della pretesa.

Ma anche quando allo stesso presti un consapevole contributo, causalmente efficiente, di rafforzamento o agevolazione della condotta un terzo estraneo.

E cioè un soggetto diverso che abbia ricevuto mandato di recuperare il credito o di esercitare il diritto, oppure che coadiuvi, agevoli e rafforzi il proposito del titolare della pretesa, nella consapevolezza di porre il proprio contributo alla realizzazione di tale fine, giuridicamente azionabile, e non (come ovvio) di una rivendicazione sfornita di azione giudiziaria.

Altrimenti, verrebbe del tutto sterilizzato il concorso dell’extraneus nella commissione della condotta tipica (che non potrebbe mai esistere) e sarebbero automaticamente qualificate come estorsive tutte quelle condotte poste in essere dal terzo, su specifico mandato, e/o che si collocano nell’ambito della agevolazione o del rafforzamento del proposito del titolare della pretesa azionabile in giudizio, soltanto per la sua estraneità rispetto al rapporto sostanziale controverso.

Insomma la pretesa sarebbe sempre, in via automatica, “ingiusto profitto” se a esercitare la condotta tipica, sia pure nei limiti del mandato ricevuto, fosse un terzo estraneo al rapporto.

Una simile interpretazione non è ragionevole in quanto finirebbe per obliterare il dato normativo attraendo nell’ambito del reato più grave di estorsione tutte le condotte dell’extraneus, senza eccezioni, anche quando esse si pongono nell’ambito o di uno specifico mandato ricevuto oppure si affiancano, sostenendolo e rafforzandolo (apportando un contributo efficiente e causalmente orientato), al titolare del presunto diritto.

Per queste ragioni, la critica della Sezione rimettente appare (ad avviso dell’autore) convincente, nel ritenere – in difformità delle ultime pronunce di legittimità – che il reato di cui all’art. 393 c.p. non sia un reato proprio, ma comune, e che, comunque, debba ritenersi ammissibile il concorso ex art. 110 c.p. del terzo estraneo con il titolare del diritto, a pena di svuotamento dell’istituto del concorso di persone.

Le Sezioni Unite saranno chiamate dunque a dirimere il contrasto sorto sul punto chiarendo l’operatività ed i limiti del concorso.

E’ evidente che, invece, tutte le condotte, violente o minacciose, del terzo che si pongano al di là dei limiti dell’esercizio dell’altrui diritto (in base al mandato ricevuto) oppure che pretendano di trarre da tale condotta illecita anche un arricchimento e accrescimento della propria sfera patrimoniale o personale, non potranno che rientrare nell’ambito del delitto di estorsione, proprio perché strumentali alla realizzazione di un profitto che non potrà che essere ritenuto ingiusto.

La seconda questione, quella più complicata, è se il discrimen tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e quello di estorsione vada individuato nell’elemento oggettivo, consistendo nel grado di gravità della violenza o minaccia esercitata, oppure in quello soggettivo e, in tale ultima ipotesi, come debba essere accertato tale elemento.

L’approccio che vorrebbe individuare l’elemento differenziale nel grado di gravità della violenza o minaccia esercitata non appare del tutto convincente, per due ordini di ragioni.

La prima è che tale elemento (la gravità della violenza o minaccia) non è previsto dalla legge.

Pertanto se esso dovesse essere applicato come discrimen si potrebbe ravvisare una violazione del principio di riserva di legge di cui all’art. 25 Cost., in quanto si attribuirebbe al giudice il potere di ravvisare il reato più grave (quello di estorsione) in luogo del reato di cui all’art. 393 c.p. in base – fondamentalmente – ad una sua valutazione discrezionale della gravità (o meno) della violenza o minaccia esercitata, anche quando la stessa sia stata posta in essere al fine di esercitare un preteso diritto fornito di tutela giurisdizionale.

La seconda ragione è di ordine letterale, in quanto anche il reato di cui all’art. 393 c.p. prevede un’ipotesi aggravata al comma III quando l’esercizio della pretesa tutelabile in sede giudiziaria viene posta in essere con armi; ciò analogamente a quanto avviene per il delitto di estorsione (comma 3).

Visto dunque che in entrambe le fattispecie incriminatrici è previsto un aumento di pena per la fattispecie base quando la condotta tipica viene posta in essere con armi e che, quindi, può ritenersi “grave”, non si comprende come tale criterio possa fungere utilmente da discrimine tra il reato di ragion fattasi e quello di estorsione.

La soluzione che invece vorrebbe individuare il criterio distintivo tra le fattispecie incriminatrici de quibus nell’elemento soggettivo comporta invece la problematica (intrinseca) delle modalità di accertamento e prova dell’intenzione dell’autore del reato, e cioè delle ragioni poste alla base della decisione nel foro interno del reo.

L’intenzione dell’autore della condotta (quella di esercitare un suo preteso diritto, che potrà essere anche infondato nel merito, ma che deve essere esistente in base ad una sua ragionevole e fondata convinzione, anche se errata, oppure quella di agire per conseguire un profitto ingiusto nella consapevolezza che quanto richiesto non è dovuto) viene, allora, fatta derivare – ancora una volta – dalla gravità della violenza o della minaccia esercitata, come indicatore del dolo; ciò analogamente a quanto avviene per il delitto di omicidio, in cui, in assenza di dichiarazioni dell’arrestato o di elementi concreti, il dolo omicidiario si desume dalla gravità della violenza esercitata nei confronti della vittima.

Si tratta di una interpretazione che, in tutta evidenza, pur facendo finta di ripudiare l’approccio oggettivista per abbracciare il finalismo, si “riavvita” su se stessa e ritorna al concetto (prima abbandonato e che, come si è visto sopra, non è positivizzato e non potrebbe dunque fungere da idoneo criterio distintivo tra le fattispecie, implicando anche peraltro dei grandi margini di valutazione ed apprezzamento di natura discrezionale) della gravità della violenza o minaccia esercitata, per la evidente necessità di legare l’accertamento dell’elemento soggettivo alle circostanze e modalità oggettive della condotta per ricavarne quelle che processualmente debbono essere, necessariamente, delle certezze.

3) Valutazioni conclusive (necessariamente provvisorie).

Non resta a questo punto che attendere la decisione delle SS.UU. Penali, alla udienza del 16.07.2020, affinché sciolga i dubbi sopra espressi.

Nella speranza che la decisione del Supremo Collegio non sterilizzi l’istituto del concorso delle persone nel reato (precludendone l’accesso all’extraneus, diverso rispetto al titolare della pretesa giuridicamente azionabile), determinando così l’allargamento della sfera di operatività della estorsione, in malam partem, e che il criterio discretivo delle due fattispecie non venga individuato nel grado di gravità della violenza o minaccia esercitata, in violazione della riserva di legge, sulla base di un parametro non normativamente previsto e che implica notevoli margini discrezionali e valutativi di apprezzamento da parte del giudicante.

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