Il termine diritto sta ad indicare un complesso di regole, generali ed astratte, per mezzo delle quali è possibile organizzare le forme di vita sociali e di preservarne le strutture, al fine di garantire la loro sopravvivenza e di sfuggire all’autodistruttivo sentimento della sopraffazione dell’uno sull’altro. Esso sorse quando i primi uomini, che avevano raggiunto un sufficiente grado di intelligenza, maturarono l’idea che avrebbero costruito di più unendo le loro forze, formando gruppi sempre più estesi di individui, piuttosto che privilegiare ciascuno una solitaria lotta della sopravvivenza, recando nocumento alle altrui sfere di azione, limitandole o annientandole. In tal senso, può dirsi che il diritto costituisce una necessità, alla quale l’umanità è giunta per provvedere al suo primario istinto di sopravvivere al perdurare del tempo.
Sebbene formato da regole, il diritto non deve, però, essere abbandonato alla semplice disposizione di una serie di precetti che, per loro natura, non possono assolvere alla fondamentale meta cui si è fatto cenno. Devono, perciò, essere regole peculiari e la loro peculiarità è insita nel riconoscimento che ad esse viene prestato in termini di “giuridicità”. Se, infatti, il fine del diritto è quello di assicurare la vita del gruppo sociale, esso non può essere formato da meri inviti ad agire in un certo modo, ma deve possedere quella forza che solo il riconoscimento della loro obbligatorietà può recare, dal momento che solo se il loro contenuto si identifica in un comando o in un divieto, a cui sono associate determinate conseguenze in caso di inosservanza, al diritto può essere accreditato quel ruolo che la storia finora gli ha riconosciuto.
Di qui la conclusione secondo cui il diritto, detto anche sistema normativo, è un dato insieme di norme giuridiche, dal contenuto storicamente mutevole a cui viene demandato il compito, secondo le parole di una nota dottrina, di prevenire, mediante una disciplina prefissata, l’insorgere di liti ovvero di dirimerle ovvero ancora, nel suo aspetto fisiologico, ad organizzare le varie forme di vita sociale. E si è detto che queste norme devono essere generali ed astratte. Generali perché devono comprendere, nel loro raggio di azioni, tutti i consociati, astratte perché devono racchiudere nel limitato numero di poche parole – di cui si compone il precetto – la previsione di una serie indeterminata di casi, il cui accadimento può caratterizzare la vita quotidiana dei membri delle società alle quali esse sono dirette.
Ciò sta a significare, sul piano concreto, che, lungi dall’idea di racchiudere in un codice ogni singola manifestazione della vita quotidiana – il che sarebbe impossibile se si pone mente, per un momento alla infinita varietà attraverso la quale l’agire umano può trovare la sua estrinsecazione – la generalità ed astrattezza delle norme giuridiche consente, attraverso la previsione di un numero limitato di precetti di ordinare, comunità anche enormi, di individui, ai quali vengono forniti degli schemi generali di comportamento entro i quali devono necessariamente confluire le ipotesi generali ipotesi astratte formulate dai soggetti ai quali viene riconosciuto il compito, ricorrendo determinati presupposti, di dettare le regole giuridiche.
In tal modo, diviene possibile prevenire e comporre le innumerevoli ipotesi conflittuali che possono caratterizzare la vita di ogni comunità, poiché dagli schemi generali ed astratti forniti dal sistema normativo, soggetti portatori di opposti interessi possono trovare una composizione altrimenti non raggiungibile in assenza di un dato complesso di norme giuridiche. Si pensi, per un momento, alle norme che, nel nostro ordinamento, definiscono i connotati tipici del rapporto di lavoro. In esso, è possibile notare la presenza di due soggetti, ciascuno mirante al raggiungimento di uno scopo in antitesi con quello dell’altro: il datore di lavoro vuole avvalersi delle energie del prestatore di lavoro all’interno della sua impresa; il prestatore di lavoro vuole incrementare il suo patrimonio mediante l’incorporazione di risorse economiche. Questi opposti interessi possono trovare composizione solo attraverso la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato.
Questo esempio è, dunque, più che sufficiente per delucidare su una ulteriore specificazione del concetto sopra esposto: la norma giuridica detta gli elementi che compongono una fattispecie astratta; il caso della vita, invece, presenta una serie di altri elementi, i quali, devono corrispondere in grandi linee a quelli dettati dalla norma generale ed astratta per essere ad essa rispondenti. La norma, tuttavia, oltre che astratta (cioè rispondente ad un modello ipotetico in grado di raccogliere il manifestarsi di una serie indefinita di accadimenti), è anche generale. Ciò significa che essa non è diretta a questo o a quel soggetto, ma a tutti i soggetti dell’ordinamento giuridico in applicazione del principio costituzionale dell’uguaglianza (art. 2 Cost.). Così costruito, il sistema normativo è in grado di venire incontro alle esigenze generali, ai molteplici bisogni che i consociati possono esprimere nelle loro manifestazioni, di modo che ognuno di loro, sebbene le norme mirio alla soddisfazione di interessi più generali, possano trovare in esse il punto di riferimento per risolvere le questioni che, in assenza di queste regole, condurrebbero, in breve tempo, al disfacimento del sistema nel suo complesso.
Si è prima accennato alla funzione riconosciuta al diritto di prevenire e comporre i conflitti che possono verificarsi all’interno del corpo sociale. In questo senso, il diritto costituisce uno strumento da cui non si può prescindere per mantenere all’interno del gruppo quella pace sociale senza la quale non sarebbe concepibile alcuna forma organizzata di individui. In assenza di norme in grado di regolare e indirizzare la condotta collettiva, finirebbe per avere prevalenza la nuda forza sulla ragione e, in breve, si determinerebbe il collasso della struttura sociale.
Il diritto, invero, dal punto di vista storico, nasce proprio dal soddisfacimento del naturale desiderio o aspirazione dell’uomo di sopravvivere ai contrasti che possono aversi all’interno della struttura in cui è inserito, poiché dalla sopravvivenza degli altri consociati riuniti nel gruppo sociale dipende la sua stessa sopravvivenza e la possibilità di realizzare quelle aspirazioni che solo grazie all’esistenza delle norme del diritto egli è in grado di perseguire.
Ciò posto, il diritto accredita se stesso come indice di qualità della evoluzione raggiunta da un qualsivoglia gruppo sociale, tanto che il grado di civiltà e di cultura di un popolo può essere desunto innanzitutto dal sistema giuridico che si è dato; più tale sistema si dimostra in grado di assolvere al suo fondamentale compito di prevenire e risolvere i conflitti fra individui, più potrà dirsi che l’organizzazione politica che esprime il sistema ha ben operato.
Il diritto, tuttavia, è sempre una creazione degli esseri umani, concepito come un insieme di regole che gli uomini si sono dati per stare insieme e progredire ciascuno con l’aiuto degli altri. Quindi, esso non è alieno da imperfezioni né, pertanto, può dirsi che possa prevenire e risolvere tutti i possibili conflitti che possono ingenerarsi in seno al gruppo. Ciò nonostante, il diritto è sempre espressione della liberà volontà dei consociati, poiché le regole di cui esso si compone altro non sono che la proiezione di un bisogno fondamentale insito in tutti gli esseri viventi, che è quello di sopravvivere alle difficoltà e ai pericoli che la quotidianietà presenta.
Il diritto, allora, si regge sul consenso dei membri del corpo sociale. Questo principio costituisce un corollario fondamentale di ogni sistema normativo che possa dirsi realmente esistente e poggiare su solide basi radicate nel gruppo di cui è una promanazione. Se non vi è consenso non vi è diritto. In tal modo, diviene possibile comprendere che se un dato insieme di norme giuridiche assolve al suo precipuo compito di prevenire i conflitti sociali e di comporli (nel caso essi siano già venuti in essere), non alla stessa conclusione si arriva ove in un gruppo le norme sono imposte con la forza da una ristretta minoranza sulla maggioranza. In una situazione del genere è ravvisabile non un gruppo sociale retto da un sistema di norme giuridiche, ma un insieme di persone retto dalla prevaricazione di un piccolo numero di esse su tutti gli altri. Ciò testimonia che il diritto, qualunque esso sia, non si legittima da sé, né è in grado di trarre in se la forza per imporsi sui consociati, perché è esso stesso una creazione dei consociati e come tale non può prescindere da essi e, in specie, dal loro consenso. Viceversa, è necessario che il sistema normativo sia condiviso dalla maggioranza dei consociati e non tragga il suo fondamento dalla forza intimidativa della violenza esercitata da un dato gruppo di potere più o meno ristretto.
Sotto questo rilevente profilo, non possono non citarsi, come testimonianza, le sconvolgenti esperienze dittatoriali che hanno caratterizzato buona parte del secolo scorso, conducendo anche a guerre mondiali. Si trattava di ordinamenti ove il diritto non si reggeva sul consenso dei loro popoli ma veniva imposto da una piccola classe giunta al potere con la forza, impedendo che i consociati potessero partecipare attivamente alla fondamentale attività che deve essere sempre riconosciuta ad essi, esistendo il diritto solo ove essi si ancori sul consenso del popolo di cui è destinato a regolare la vita collettiva ed individuale.
Questa impostazione teorica costituisce una conquista solo recente delle esperienze ordinamentali moderne. Nelle prime comunità umane, infatti, si riteneva che il diritto e la sua capacità di essere osservato fossero residenti esclusivamente nel principio di autorità. Ciò implicava una necessaria adesione alle regole normative, poiché in mancanza la loro applicazione veniva attuata con la forza. Ma se questo principio pare insito anche nelle attuali concezioni dei sistemi normativi, oggi non si può più prescindere dalla logica del consenso, attraverso la predispozione di scelte che sono espressione della volontà dei consociati manifestata nelle ordinarie forme di partecipazione alla vita politica del Paese.
Se, invece, si prescindesse dal consenso e l’osservanza del diritto venisse ricondotta solo all’uso della forza, si correrebbe il rischio di legittimare ordinamenti dai connotati aberranti, ove ogni regola, anche la più oltraggiosa dei principi fondamentali comunemente noti, entrerebbe a far parte del sistema normativo, sol perché il suo disposto è racchiuso in un precetto emanato dagli organi cui la legge attribuisce il potere normativo.
E non v’è dubbio, a questo proposito, come le esprienze dittatoriali del secolo XX siano state caratterizzate da un esclusivo ancoraggio della loro prolusione normativa all’uso della forza, al fine di imporre comandi, che talvolta assumevano anche i connotati di elementi negatori di consolidati valori di civiltà (si pensi, ad esempio, alla legislazione razziale che caratterizzò la Germania per oltre un tredicennio, quando, sulla base di discutibili presupposti scientifici, si cercò di teorizzare un concetto di supremazia di una razza sulle altre che non trovava riscontro non solo in alcun fondamento scientifico o biologico, ma che urtava profondamente contro quei consolidati valori di civiltà cui sopra si è fatto riferimento).
Pertanto, solo di recente e con l’avvento di regimi democratici, il diritto pare essersi affrancato in maniera definitiva dal suo antico ancoraggio al princio di autorità per porsi come la più limpida espressione della volontà delle maggioranze presenti all’interno di assemblee liberamente elette e le cui determinazioni sono vincolanti per tutti i consociati. Sotto questo profilo, non può non evidenziarsi come questa evoluzione del modo di concepire o di giustificare il diritto si leghi, in maniera indissolubile, anche ad un’altra conquista della moderna civiltà: cioè, quella di legare in termini sempre più intimi il proprio personale desiderio di soddisfazione degli interessi personali, mossi da intenti egoistici, con il perseguimento di interessi più generali, in un disegno che vede nel consociato la maturazione della convinzione di essere egli stesso un membro di un corpo collettivo più grande, di cui condivide le scelte, partecipando attivamente alle sue manifestazioni, e osservandone i precetti, di cui anch’egli è stato protagonista (diretto o indiretto) del processo che ha portato alla sua concreta espressione.
Quanto detto non deve portare alla errone conclusione che la forza non si riveli più indispensabile nei moderni sistemi normativi fondati sul consenso popolare. In realtà, il diritto, inteso quale corpo di norme giuridiche, non può prescindere, in taluni casi, dalla sua forza coattiva, cioè dal suo potere di imporsi, entro certi limiti, sulla volontà contraria manifestata dai consociati. La coazione, quindi, costituisce una componente essenziale del diritto, senza della quale non vi sarebbe diritto ma solo un complesso di regole dalle quali promana un invito ad agire in un dato modo ma senza obbligo in tal senso.
L’ordinamento giuridico reagisce alla inosservanza dei suoi precetti attraverso l’applicazione delle sanzioni, cioè misure di carattere giuridico che determinano una invasione più o meno pronfonda della sfera dei soggetti, restringendola nella misura necessaria a ricostituire l’ordine giuridico che è stato violato. La sanzione può assumere forme diverse a seconda dei diversi settori del diritto di cui essa è espressione. Così, ad esempio, nel diritto penale la privazione della libertà costituisce il mezzo più usato per l’attività di prevenzione e di repressione dei reati, cioè di quei comportamenti umani esteriori che si pongono su un piano di contrasto con la tutela e la conservazione di taluni beni giuridici, di cui, sulla base di scelte di politica generale, si è preferito disporre detta forma di protezione in luogo di altre. Sempre nel diritto penale, ricorrendone i presupposti applicati, può disporsi anche una misura di carattere patrimoniale, che si sostanzia nell’obbligo del pagamento di una determinata somma di danaro per riparare alla violazione commessa (tale è il caso della multa e dell’ammenda).
In altri settori del diritto, invece, il concetto di sanzione assume un significato ed una intensità diversa. Nel diritto privato, ad esempio, lo stesso concetto di sanzione è sconosciuto, fatta eccezione per i cosiddetti astreientes, che sono provvedimenti che, talvolta, il giudice può adottare per fare fronte all’atteggiamento non osservante delle sue determinazioni da parte dei soggetti tenuti in tal senso, disponendo, ad esempio, il pagamento di una somma di danaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento del suo ordine.
Nel campo del diritto privato, più che di sanzione, si parla di mezzi di tutela che la legge rimette ai privati, i quali, a fronte dell’inadempimento da parte di altro soggetto privato, possono scegliere se limitarsi a prendere atto di un siffatto comportamento oppure reagire, servendosi dei poteri di azione che la legge gli riconosce. Così, ad esempio, a fronte della inosservanza di un obbligo derivante da contratto, la parte adempiente può sia chiedere al giudice l’emanazione di una sentenza che riconosca il suo diritto di pretendere l’adempimento che è mancato, ovvero sciogliersi dal suo impegno e chiedere, in ogni caso, il risarcimento del danno arrecato alla sua sfera giuridica dal contegno inosservante della controparte.
Assente del tutto è, invece, la privazione di libertà a fronte della violazione dei precetti del diritto privato. Anche questa costituisce una conquista recente delle moderne esperienze ordinamentali, poiché in epoche precedenti era prevista, addirittura, la carcerazione per il mancato pagamento dei debiti. Secondo l’antico diritto romano, infatti, il debitore che non pagava rischiava di perdere la sua libertà e di essere venduto come schiavo o, nei casi in cui non venisse acquistato da alcuno, di essere ucciso dal suo creditore.
Oggi, invece, sono previsti meccanismi di pressione che incidono solo sulla sfera patrimoniale dei soggetti e, solo entro limitati profili, su quella della persona. Tale può essere il caso di un inquilino, il quale si veda destinarsi dal proprietario dell’immobile che occupa un atto con il quale quest’ultimo gli manifesta una volontà contraria rispetto a quella della tacita rinnovazione del contratto di locazione.
Ove l’inquilino resista e si rifiuti di lasciare i vani occupati – a questo punto sine titulo – è prevista una particolare procedura tendente al suo “sfratto” con immissione del proprietario nell’interno della sua abitazione e con contestuale espulsione del suo inquilino. E, ovviamente, ove questo manifesti ancora opposizione all’ordine che gli perviene dall’autorità, è prevista la sua espulsione “fisica” dall’immobile oramai occupato illegittimamente, anche attraverso l’ausilio della forza pubblica. In questo caso, quindi, l’uso della forza estrinsecatosi attraverso il suo sprigionamento sulla “persona” del consociato è stata resa indispensabile per il ripristino dell’ordine giuridico violato dalla sua condotta inosservante della regola che gli vietava di occupare un immobile senza averne il titolo.
In altri casi, invece, la coazione della norma di diritto privato si manifesta attraverso l’obbligo di corrispondere una data somma di danaro. Tale può essere il caso dell’obbligo di risarcimento del danno ingiusto ex art. 2043 c.c., secondo cui ogni fatto provocato con dolo o colpa e che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga l’autore al risarcimento a favore della persona del danneggiato. Questa norma apre tutta una serie di disposizioni dal tenore analogo, che, in misura più o meno ampia, prevedono l’obbligo di ristorare i soggetti che hanno accusato un pregiudizio della loro sfera di interessi per i quali l’ordinamento predispone un sistema di tutela. Così, ad esempio, l’art. 2052 c.c. stabilisce che il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito, salvo che provi il caso fortuito.
In breve, ciò significa che se a cagione dell’animale viene a verificarsi un incidente stradale, obbligato a risarcire il danno sarà il proprietario o il soggetto che lo ha in custodia e sempre che non risulti presente un elemento tale da eliminare alla radice la responsabilità, quale, nel caso di specie, il fortuito.
Si tratta di ipotesi di responsabilità extra-contrattuale, così dette perché non si riscontra, in concreto, alcuna relazione giuridicamente rilevante tra le parti del rapporto, che viene in essere solo nel momento in cui il pregiudizio all’altrui sfera giuridica è stato consumato. Ove, invece, tra le parti vi sia un legame che prende la sua fonte in un contratto, cioè in un rapporto per mezzo del quale esse intendono regolare un determinato assetto di interessi, la responsabilità deriva proprio dalla assente o inadeguata osservanza degli obblighi che possono essere stati previsti a carico di una o di entrambe le parti in seguito ad un accordo intervenuto tra di esse.
Il riconoscimento della responsabilità, tuttavia, non sempre è sufficiente a ripristinare l’ordine giuridico violato. Se, infatti, nel caso del rifiuto da parte dell’inquilino di lasciare liberamente e spontaneamente l’immobile si è fatto fronte attraverso un intervento diretto sulla sua persona, che è stata “fisicamente” estromessa dagli spazi occupati illegittimamente, nel caso dell’obbligo di risarcire il danno, ove il debitore non ubbidisca al precetto che tanto gli impone, è possibile fare ricorso alla c.d. procedura di esecuzione forzata. Quest’ultima, infatti, prevede che, in forza di un titolo c.d. esecutivo (l’elenco è indicato dall’art. 474 c.p.c.), la parte creditrice può agire in via diretta sui beni dell’altra parte, facendo in modo che essi siano venduti all’asta al fine di soddisfarsi sul ricavato fino alla concorrenza del suo credito.
Anche in questo caso, però, benchè all’inizio non si determini la necessità di usare della forza fisica per ottenere la conformità al diritto della situazione di fatto, ben può essere possibile che il proprietario dei beni verso i quali ci si appresti ad agire si rifiuti di effettuarne la consegna ovvero impedisca di apporre su di essi i vincoli resi necessari per conservare integre le ragioni dell’altra parte ovvero ancora può farne oggetto di disposizione in nocumento del creditore.
Nelle ipotesi in cui si verifichi uno di questi accadimenti è previsto l’apprestamento di adeguate misure: così, ad esempio, un atto di alienazione dei beni in pregiudizio delle ragioni del creditore può essere annullato attraverso l’esperimento dell’azione pauliana di cui all’art. 2901 c.c., per mezzo della quale il creditore può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni. Ove, invece, il proprietario degli stessi beni, in luogo di atti di disposizione, si rifiuti di consentire il loro spossessamento, è previsto l’uso della forza, per mezzo della quale i detti beni vengono sottratti alla sua disponibilità e messi a disposizione del creditore che ne può chiedere la vendita all’asta o la loro assegnazione, sempre entro i limiti necessari a soddisfare le sue ragioni.
Questi esempi rendono edotti della realtà alla quale all’inizio del nostro discorso si è fatto cenno: il diritto è un complesso di regole apprestate per prevenire e risolvere i conflitti che possono accadere in seno ad un gruppo sociale. Nei casi in cui le dette regole vengono violate, l’ordinamento appresta i rimedi più opportuni per ricostituire l’ordine giuridico violato. Questa premessa riassuntiva del discorso condotto sino a questo momento, offre una interessante prospettiva che consente di operare una distinzione tra le regole del diritto e le regole create dalla sfera morale, come possono essere le regole sociali o religiose. Queste ultime, infatti, non sono caratterizzate dall’applicazione delle sanzioni in caso di loro inosservanze, se per sanzioni si intendono le misure indicate sopra, con le quali è possibile incidere in maniera più o meno intensa sulla sfera personale e patrimoniale dei consociati.
Ciò testimonia che, a differenza del diritto, il complesso delle regole morali poggia esclusivamente sulla spontanea adesione dei soggetti a cui viene destinato. Si tratta, pertanto, di regole non giuridiche, perché rispondono all’esigenza di regolazione di sfere di interessi in ordine alle quali l’ordinamento mantiene un atteggiamento di indifferenza o di neutralità.
Ma il concetto di sanzione può anche essere inteso in un senso più ampio, che non si correli necessariamente all’adozione di misure invasive della sfera della persona ad opera di organi esterni a ciò deputati. Così, ad esempio, può accadere che l’inosservanza delle regole sociali o della sfera religiosa determini sanzioni sotto il profilo di una squalificazione sociale del soggetto che se rende autore, attraendo verso di lui un giudizio di disistima, innescato dalla violazione di regole che, sebbene non giuridiche, rispondono ad una considerazione di rilevanza, sotto altri profili, da parte dei consociati, che pure hanno interesse a mantenere integre i settori che quei precetti sono chiamati a regolare attraverso la produzione di regole di condotta.
La rigorosa separazione tra sfera giuridica e sfera morale che sopra si è tracciata, tuttavia, non deve indurre nell’erronea credenza che il diritto si disinteressi completamente dei precetti sociali o religiosi, o che non risenta, in misura più o meno profonda, della loro influenza. Talvolta, infatti, può accadere che siano proprio le norme giuridiche a richiamare i consociati all’osservanza di precetti morali. Tali sono, ad esempio, i costanti richiami alla buona fede e alla correttezza, ispirando un sistema di rapporti in cui i soggetti che ne sono protagonisti non possono prescindere, ai fini di una migliore soddisfazione dei loro interessi, dall’osservanza di regole comunque rilevanti per il diritto, benchè non sempre agevole si presenta il compito, da parte degli organi a ciò destinati, di accertarne l’esistenza e la concreta violazione.
In altri casi, ancora, ben può accadere che la sfera giuridica e la sfera morale trovino un punto comune di approdo, concorrendo alla regolazione di specifiche aree di interesse. Il riferimento più comune è quello delle obbligazioni naturali ex art. 2034, comma 1, c.c., secondo cui non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. Si tratta, in quest’ultimo caso, di peculiari rapporti, pure rilevanti per il diritto, ma che traggono la loro fonte precipua in una sfera ad esso estranea, ma con essa incidente e concorrente alla regolazione di determinati settori di comune interesse.
Il diritto, però, si mostra rispetto dell’autonomia degli ambiti di provenienza di codesti precetti, escludendo che, come statuito dalla norma, una delle parti possa avvalersi dei rimedi afferenti in esclusiva una delle due sfere per invadere l’area di pertinenza propria riconosciuta in modo esclusivo all’altra. In tal senso trova spiegazione il divieto delle azioni di ripetizione a cui fa cenno la norma sopra richiamata.
Un altro aspetto che preme esaminare, in conclusione del nostro discorso, è quello della tecnica di cui il legislatore si serve per elaborare le regole del diritto. Si è fatto spesso cenno alla locuzione precetto per indicare una regola dalla quale promana il comanda ad agire in un certo modo, in altri casi, però, può ben darsi che la norma esprima una diversa esigenza, che si estrinseca attraverso la predisposizione di una definizione ovvero di una classificazione. In altri casi, ancora, è possibile che, specie a livello costituzionale, essa esprima una asserzione o una descrizione.
Ciò non deve far pensare che in queste ipotesi peculiari la norma sia priva della sua funzione di imporre un dato assetto ai suoi destinatari. Così, in privati non potranno operare classificazioni in difformità rispetto a quelle previste dalla norma, al fine, ad esempio, di sottoporre un dato bene ad un regime giuridico diverso da quello proprio della norma che lo comanda. In tal senso, non è possibile applicare ad un bene immobile la disciplina propria di un bene appartenente ad altra categoria giuridica, quale quella dei beni mobili o dei beni immateriali.
Un discorso non dissimile deve essere ripetuto per le norme costituzionali. Taluni autori, specie nel periodo immediatamente successivo alla entrata in vigore del testo fondamentale, avevano sostenuto che ad alcune norme di esso non si potesse riconoscere un contenuto precettivo, ma solo programmatico, provenendo da dette norme un’affermazione di principio, ma non regole tali da imporre un dato comando ai consociati in via diretta. Questa posizione oggi è quasi del tutto superata, poiché, grazie anche all’attività della corte costituzionale, entrata in funzione nel 1956, sono state superate tutti gli ostacoli che si frapponevano al riconoscimento alle norme della carta costituzionale un significato precettivo. Molte norme, infatti, benchè non indichino puntualmente l’azione attesa o vietata, assumono rilevanza sotto il profilo interpretativo, fornendo la chiave di lettura per comprendere il senso esatto di altre leggi, che con le norme costituzionali si legano in una relazione peculiare, in virtù della quale le seconde non devono dettare prescrizioni contrarie a quelle desumenti dalle prime.
In tempi ancora più recenti si è assistiti ad un fenomeno peculiare che ha visto una ulteriore evoluzione del modo di elaborare la norma giuridica per perseguire fini diversi da quelli più propriamente relativi alla sfera dei comandi e dei divieti. Tale è stato il caso delle cosiddette norme promozionali, espressione che sta ad indicare la particolare funzione che ad un precetto viene dato ove ad esso si faccia ricorso per sostenere lo sviluppo di determinati settori della sfera economica privata, in termini di espansione del reddito nazionale e dell’occupazione. Un esempio tipico è costituito dagli incentivi fiscali destinati al mondo delle imprese private, ove queste ultime si impegnino al raggiungimento di dati risultati ovvero ad effettuare determinati investimenti in alcune zone depresse, come quelle del meridione d’Italia. In questi ultimi casi, non è dato ravvisare nelle disposizioni in esame un contenuto precettivo, poiché non vengono espressi comandi o divieti e neppure vengono indicate definizioni o classificazioni. Più semplicemente, la norma assolve a compiti di utilità sociale – che nel caso sopra richiamato si rinvengono nella incentivazione allo sviluppo delle aree economicamente depresse, entro i limiti previsti dalle leggi nazionali e sopra-nazionali.
Il discorso condotto sino a questo momento è servito ad illustrare non solo i caratteri peculiari del diritto inteso come un dato sistema di precetti e di sanzioni correlative, ma anche a sondare un aspetto del problema che fino a non molto tempo fa era oggetto di scarsa attenzione da parte degli studiosi e degli stessi legislatoria, vale a dire la presa d’atto che il sistema normativo non può più porsi su un piano di indifferenza rispetto alla sfera sociale e alla sua crescita in tutti i suoi settori, limitandosi soltanto a dettare una serie di comandi e di divieti e ad associare ad essi le sanzioni per il caso di loro inosservanza.
Piuttosto, il diritto deve compenetrarsi sempre più a fondo nella sfera sociale e di attività dei consociati, non solo offrendo loro quella protezione senza la quale essi non potrebbero manifestare correttamente la loro personalità, ma anche i sostegni e talvolta i ripari per assicurare una crescita equilibrata a tutto il gruppo sociale.
Dott. Luigi Carfora
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