Il diritto di recesso ed i contratti di vendita di strumenti finanziari fuori sede: commento a Cass. SS. UU. N. 13905/13

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Con la sentenza n. 13905 del 03.06.2013, le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto l’annoso contrasto relativo all’interpretazione dell’art. 30, comma 6, del d. lgs n. 58/98 (di seguito “TUF”), stabilendo che il diritto di recesso ivi contemplato e la conseguente previsione di nullità di cui al comma successivo trovino applicazione “non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dall’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario medesimo in favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio di investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela”.

Le tappe della decisione resa dalla Corte a Sezioni Unite

L’esame delle precedenti decisioni rese dalla Corte

Sottolineando il contrasto sul punto, le Sezioni Unite osservano che la Corte di Cassazione con due sentenze del 2012 (la n. 2065, in www.lexadvisor.org e la n. 4564, in www.ilcaso.it) aveva escluso che il diritto di recesso e la connessa sanzione di nullità in caso di omessa indicazione di tale facoltà trovino applicazione al di fuori dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli. Nelle citate decisioni la Corte ha ritenuto dirimente la considerazione che, mentre nel servizio di collocamento l’intermediario agisce per conto dell’emittente – nei confronti del quale assume l’impegno contrattuale di promuovere l’acquisto, offrendo servizi finanziari a condizioni di tempo e prezzo predeterminati – i servizi di investimento diversi da quello di collocamento implicano l’instaurazione di rapporti individuali fra intermediario e cliente che comportano, per il primo, l’adempimento di specifiche prestazioni nell’interesse del secondo. Diverse sarebbero quindi, nelle due fattispecie, le condizioni di acquisto del servizio (predeterminate in un caso e libere nell’altro), nonché l’interesse individuale perseguito. Osservano ancora le Sezioni Unite che da tale orientamento si dissocia una decisione dello stesso anno (Cass. n. 1584/12, in www.altalex.com), che, senza tuttavia affrontare in modo approfondito la questione, ammette un’interpretazione estensiva dell’art. 30, comma 6, TUF.

L’interpretazione dell’art. 30, comma 1, TUF

Le Sezioni Unite partono dall’interpretazione dell’art. 30, comma 1, TUF al fine di determinarne l’ambito oggettivo di applicazione, concludendo che i termini “collocare” e “collocamento” ivi contenuti siano stati adoperati dal legislatore in un’accezione atecnica. Si legge infatti nella sentenza che la nozione di “servizio di collocamento” non sarebbe “coerente” con la definizione di “offerta fuori sede” contenuta alla lettera b) del primo comma dell’art. 30 TUF, ove si parla di collocamento di “servizi ed attività di investimento”. Sarebbe, infatti, inverosimile parlare di servizio di collocamento in senso proprio, laddove ad essere collocati siano non strumenti finanziari, ma altri servizi di investimento. Tale considerazione induce le Sezioni Unite a ritenere che il “collocamento” di cui alla lett. b) dell’art. 30, comma 1, TUF stia presumibilmente ad indicare ogni promozione e offerta di servizi di investimento sollecitata dall’intermediario, a prescindere da qualsivoglia rapporto a monte fra emittente e promotore “riconducile alla figura del servizio di collocamento”.

La suddetta conclusione deriva dall’ovvia correlazione della citata disposizione con l’art. 1, comma 5, TUF, che offre la definizione di “servizi e attività di investimento” e nel quale “i contratti di collocamento di strumenti finanziari” (previsti specificamente alle lettere c) e c-bis) rappresentano una species all’interno del più ampio genus dei “servizi e attività di investimento”. Ciò darebbe conto del fatto che il termine “collocamento” di cui alla lettera b) dell’art. 30, comma 1, TUF non sia stato utilizzato dal legislatore nel suo significato tecnico.

L’affermazione non rappresenta invero una novità nel panorama della giurisprudenza sia di merito che di legittimità sul punto. Nella decisione n. 4564/12, sopra citata, la Corte di Cassazione aveva già affermato che i termini “promozione e collocamento” di cui all’art. 30, comma 1, TUF “sono usati in senso atecnico, riferito indistintamente agli strumenti finanziari ed ai servizi di investimento”. Tale conclusione non era però servita alla Cassazione, in quella decisione, per superare l’ostacolo letterale rappresentato dalla particolare limitazione della facoltà di recesso ai soli contratti di collocamento e di gestione di portafogli individuali, operata dall’art. 30, comma 6, TUF. Anzi, proprio il criterio di interpretazione letterale aveva condotto il Giudice di Legittimità a ritenere che, mentre nel primo comma dell’art. 30 TUF il termine “collocamento” sia stato utilizzato in maniera atecnica, nel sesto comma esso designi, al contrario, il servizio di collocamento in senso proprio.

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite ritengono invece che il solo criterio di interpretazione letterale non sia decisivo perché “nel medesimo articolo (art. 30, n.d.r.) – o quanto meno nel suo primo comma – la parola collocamento ha anche sicuramente un’accezione che va al di là della prestazione di quello specifico servizio”.

La critica che veniva opposta da una parte della giurisprudenza ad un’interpretazione estensiva dell’art. 30, comma 6, TUF osservava in particolare che l’attribuzione al termine “collocamento” prevista dall’art. 30, comma 6, TUF di un significato atecnico renderebbe inutile l’enunciazione espressa “gestione di portafogli”. Sul punto, la sentenza del 7 luglio 2007 resa dal Tribunale di Venezia (in www.ilcaso.it) osserva in particolare che “se dovesse intendersi il collocamento genericamente quale vendita di titoli, non sarebbe stato necessario aggiungere una specifica ipotesi di servizio finanziario, che risulterebbe già ricompressa nella fattispecie generale; dall’altro lato, risponde ad un principio di coerenza della norma l’accostamento di due ipotesi specifiche e quindi di due distinte fattispecie di diversi servizi di investimento,  piuttosto che di una ipotesi generale ed atecnica e di uno specifico esempio di servizio”. Nello stesso senso anche Cass. 4564/12, sopra citata.

La soluzione cui giungono le Sezioni Unite è sicuramente più coerente con la struttura e la finalità della disposizione normativa. Attribuendo due diversi significati al medesimo termine “collocamento” nell’ambito dell’art. 30 TUF si creerebbe una illogica distonia che le medesime Sezioni Unite hanno inteso appunto superare integrando il criterio di interpretazione letterale con quello di interpretazione logico-sistematica.

L’individuazione della ratio legis sottesa alla previsione dell’art. 30, comma 6, TUF

Decisiva per la soluzione del contrasto è parsa infine l’individuazione della ratio legis sottesa alla previsione del diritto di recesso nel caso di offerta fuori sede. Tale ratio è stata individuata nella volontà di riequilibrare il contratto in tutte quelle ipotesi in cui l’investimento non sia conseguenza di una decisione premeditata del cliente e quindi di ripristinare, a posteriori, quella mancanza di adeguata riflessione in merito all’operazione.

Così individuata la ratio della norma in commento, secondo le Sezioni Unite è del tutto indifferente la tipologia di servizio di investimento di volta in volta offerto, le medesime esigenze di tutela potendo ravvisarsi tanto con riferimento ai contratti di collocamento in senso proprio, quanto alle altre ipotesi di vendita di strumenti finanziari nell’ambito di un servizio di investimento diverso.

La principale obiezione a un’interpretazione estensiva dell’art. 30 muoveva dalla ravvisata assenza, nell’ambito dei servizi di investimento diversi dal collocamento, della ratio legis sottesa al diritto di recesso. Secondo l’orientamento più restrittivo, infatti, nel caso di negoziazione “fuori sede” di strumenti finanziari, la presenza di un contratto quadro – e quindi di un pregresso rapporto contrattuale fra il “cliente” ed il soggetto delegato per la definizione negoziale – attenuerebbe quell’effetto sorpresa e renderebbe quindi l’investitore più consapevole (cfr. Trib. Torino 08.03.11 in www.ilcaso.it; Corte App. Bologna 04.06.08 in Contratti, 2009, 153 ss; App. Brescia 20.06.07 in www.ilcaso.it).

Le Sezioni Unite osservano che la circostanza che un ordine di acquisto “possa essere riconducibile ad un siffatto contratto quadro” non “fa venir meno il rischio che il cliente venga colto di sorpresa, quando il singolo ordine sia frutto di una sollecitazione posta in essere dall’intermediario fuori dalla propria sede”. Ciò che rileva è l’assenza di previa autodeterminazione al compimento della singola operazione di investimento, indipendentemente dal fatto che la stessa costituisca atto attuativo di un contratto quadro.

L’ultima obiezione che la Sezioni Unite intendono superare è quella connessa alla variabilità delle condizioni di mercato (nel caso di servizi di investimento diversi dal collocamento) durante il periodo di sospensione degli effetti del contratto, che potrebbe favorire comportamenti opportunistici dell’investitore. A tal proposito, si legge nelle sentenza che eventuali casi di esercizio scorretto del diritto di recesso potranno essere neutralizzati attraverso il ricorso al principio di buona fede, quale presidio e limite invalicabile di qualsiasi rapporto contrattuale.

L’indebito richiamo alla buona fede quale correttivo dell’esercizio del diritto di recesso

L’affermazione di cui sopra, analizzata nei termini di cui si dirà di seguito, finisce per limitare, con riferimento ai servizi di investimento diversi dal collocamento, quel diritto di recesso di cui si è affermata l’applicazione e – di fatto – vanifica il tentativo delle Sezioni Unite di fare definitivamente chiarezza sul punto.

Una volta individuata, infatti, la ratio del recesso nel tentativo di riequilibrare un rapporto contrattuale sorto in seguito ad una sollecitazione dell’intermediario e, ricostruita la norma nel senso di ritenere che tale giustificazione causale sussista anche con riferimento ai servizi di investimento diversi dal collocamento, il richiamo al principio di buona fede appare fuorviante e privo di fondamento.

Come osservato dalle Sezioni Unite, il recesso assume una funzione correttiva delle modalità di costituzione del rapporto contrattuale e di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi delle parti. Nel bilanciamento di tali opposti interessi, quello dell’investitore ad una scelta consapevole e meditata dell’investimento è stato ritenuto prevalente dal legislatore e meritevole di tutela mediante l’attribuzione del cd. ius poenitendi. Proprio per tale ragione, appaiono irrilevanti, sotto il profilo giuridico, le singole motivazioni in virtù delle quali l’investitore si determina al recesso, la cui giustificazione causale è stata individuata dal legislatore in esigenze pubblicistiche di tutela del contraente debole. Il recesso serve a riparare una situazione di squilibrio, alla quale il cliente è libero di reagire in base alle più disparate e personali motivazioni; a tal proposito, non è privo di significato il fatto che il recesso previsto dalla norma in commento sia assolutamente discrezionale. Questa discrezionalità è la giusta misura di riequilibrio che compensa la posizione di vantaggio goduta dall’intermediario nel caso di stipulazione del contratto a seguito di offerta fuori sede. Privare l’investitore di tale discrezionalità, attraverso l’indebito richiamo al principio di buona fede, si risolve in una limitazione del diritto contraria alla stessa ratio ispiratrice della norma in commento.

Ora, se anche il recesso fosse esercitato dal “cliente” a seguito di una variazione delle condizioni di mercato che gli facciano giudicare come non conveniente l’investimento, non pare potersi ravvisare in questi casi una violazione del canone generale di buona fede oggettiva. Non vi è infatti lesione alcuna dell’affidamento della banca all’esecuzione del contratto, dal momento che, per espressa previsione normativa, l’efficacia del contratto è differita al decorso del termine di sette giorni. Né occorre scomodare la teoria dell’abuso del diritto per concludere che, in una tale situazione, non si configura assolutamente un utilizzo abusivo della facoltà giuridica, attraverso il perseguimento di interessi ulteriori rispetto a quelli per i quali il recesso viene riconosciuto (si veda sul punto la motivazione di Cass. n. 20106/09 in www.altalex.com). Anche in tal caso, infatti, ad essere perseguito è l’interesse ad una scelta consapevole e meditata circa l’utilità dell’investimento. L’esercizio del diritto potestativo, nel caso di mutate condizioni di mercato, non è dunque in contrasto con lo scopo per il quale lo stesso è riconosciuto e non pone l’intermediario in una posizione più gravosa di quella in cui si troverebbe nel caso di recesso operato dall’investitore per motivi diversi.

Se al cliente è lasciata la facoltà di valutare ex post la sussistenza di una reale determinazione all’investimento, è evidente che tale valutazione sarà condotta alla stregua di tutti gli elementi pertinenti, sussistenti al momento della decisione, tra cui anche le mutate condizioni di mercato. Sarebbe, al contrario, assurda una logica che costringa l’investitore, in nome di un non precisato interesse superiore, a rimanere legato ad un investimento che non desidera e di cui, probabilmente, non era convinto dall’inizio.

Inoltre, la contestazione della legittimità del recesso che la banca potrà operare in presenza di mutate condizioni di mercato consente pericolose disparità di trattamento rispetto a quelle situazioni in cui il recesso viene effettuato in relazione ad una prestazione di servizi di collocamento, ove la generale immutabilità delle condizioni di vendita rende di gran lunga meno probabile tale cambiamento.

Se le caratteristiche tecniche naturalmente connesse ai servizi di investimento diversi dal collocamento sono state giudicate dalle Sezioni Unite non sufficienti ad escludere che nei primi si possano individuare le stesse esigenze di tutela dell’investitore che ricorrono nel secondo, non si vede perché tali caratteristiche dovrebbero invece assumere rilevanza nel momento di effettivo esercizio del diritto di recesso per contestarne la legittimità.

Così facendo, quelle disparità di trattamento fondate sulla diversa tipologia di servizio di investimento offerto dall’intermediario, che la Corte ha voluto scongiurare, aderendo ad un’interpretazione estensiva dell’art. 30, comma 6, TUF, si ripresentano nuovamente.

Si auspica dunque che nell’elaborazione giurisprudenziale il richiamo alla buona fede, operato dalla dalle Sezioni Unite, non si traduca in una indebita limitazione della facoltà di recesso con riferimento a tutti i servizi di investimento diversi dal collocamento.

Guarnieri Antonella

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