Il diritto alla salute del detenuto in regime di 41bis ai tempi del covid-19

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Abstract: Il rapporto tra il diritto alla salute ed il sistema carcerario è labile a causa delle condizioni di quest’ultimo. Risulta difficile bilanciare l’esigenza di garantire la sicurezza penitenziaria e la collettività con il diritto del detenuto alla salute, specie quando questi si trovi in regime di 41bis Ord. Pen. e maggiormente nel periodo storico attuale, nel quale la salute risulta compromessa dal Covid-19. Tale scritto ha il fine di affrontare il tema del diritto alla salute in generale ed il problematico rapporto con il regime detentivo del carcere duro, traendo spunto dai novelli interventi normativi, e dalle assolute novità giurisprudenziali del periodo.

SOMMARIO: 1. Il Diritto alla Salute nell’ordinamento nazionale e sovranazionale – 2. Il regime detentivo del 41bis Ord. Penitenziario – 3. Il Diritto alla Salute del detenuto in regime di 41bis – 4. La salvaguardia della salute del detenuto al 41bis ai tempi del Covid-19;

Il Diritto alla Salute nell’ordinamento nazionale e sovranazionale.

 

Il diritto alla salute nel nostro ordinamento è considerato un diritto essenziale, ed è costituzionalmente garantito. Proprio l’art. 32 della Carta Costituzionale recita che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun modo violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Ordunque, dal tenore letterale della norma, è lapalissiano che siffatto diritto deve necessariamente essere garantito a chiunque, ragion per cui sarebbe costituzionalmente illegittima una disparita di trattamento tra i soggetti liberi ed i detenuti, ciò ai sensi sia del predetto art. 32, sia ex art. 3 della Costituzione.

Naturalmente al fine di conciliare il diritto alla salute con il regime carcerario è doveroso scernere un concetto di salute specifico ed inteso come essenziale per la sopravvivenza, poiché qualora si intendesse come forma di benessere complessivo del singolo soggetto, questo sarebbe, aprioristicamente, di assoluta incompatibilità con il sistema carcerario, e tale eventualità striderebbe con l’interesse collettivo.

Per la soluzione della problematica di specie, interviene la normativa sovranazionale. La compatibilità del diritto de quo al sistema carcerario è oggetto di studio già dai primi anni 30, periodo nel quale la Commissione Internazionale Penale e Penitenziaria, aveva ideato una serie di norme atte a stabilire dei criteri minimi di salvaguardia del benessere dei detenuti. Tale orientamento viene ripreso ed applicato, in seguito, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, e con altre disposizioni dal medesimo tenore.

Al contrario, in ambito Comunitario, non vi è alcuna disposizione normativa specificatamente varata a tutela del diritto de quo, ma ad ogni modo questo è garantito ricollegandolo ad altri diritti garantiti dalla CEDU[1].

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2. Il regime detentivo del 41bis Ord. Penitenziario.

Con l’avvento della Repubblica e con la conseguente introduzione della Carta Costituzionale, vi è stato un mutamento profondo della concezione stessa di pena. Siffatta, per mezzo della detenzione carceraria, aveva la punizione del detenuto quale unico scopo. Tale visione cambiava radicalmente, venendo introdotto il cd principio del fine rieducativo della pena, sicché il carcere cessava di essere, quanto meno esclusivamente, un luogo di punizione, per divenire luogo di rieducazione del condannato[2].

Tale visione rendeva predominante la tutela del detenuto rispetto alle esigenze di sicurezza, comportando un vulnus nel sistema, che, difronte a detenuti particolarmente pericolosi, finiva con il perdere la propria ratio. Infatti questi non solo non percepivano quella rieducazione tanto auspicata, ma sfruttavano l’ambiente carcerario per ampliare la propria capacità di delinquere. Sicché per colmare tale vuoto normativo, viene introdotto l’art. 90 Ord. Pen. (ora abrogato), con il fine di attuare una differenziazione trattamentale fra detenuti, per “gravi ed eccezionali motivi di sicurezza”. Tale normativa però era eccessiva, in quanto, di fatto, rintroduceva avverso tali soggetti, l’esclusivo fine punitivo della pena, operando un regresso rispetto alle novità giuridiche ottenute. Siffatta quaestio viene risolta solo con l’introduzione della L. 663/86, che getta le basi giuridiche per quello che sarà l’attuale articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario.

Si legga anche:”Diritto penale ai tempi del Coronavirus”

3. Il Diritto alla Salute del detenuto in regime di 41bis.

Risulta facilmente desumile che la disciplina, preliminarmente trattata, concernente il diritto alla salute, debba essere applicata anche ai detenuti in regime carcerario del 41bis Ord. Penitenziario, seppur con delle ovvie limitazioni[3]. Naturalmente tali limitazioni non devono essere interpretate come estreme, in quanto il diritto alla salute rappresenta, sempre e comunque, un’esigenza primaria e fondamentale. Tale arduo compito spetta a quei giudici preposti, che dovranno, rispetto al caso di specie, valutare il confine tra lecita limitazione del diritto alla salute ovvero estrema ed illecita. Si potrebbe affermare che in siffatta scelta, si debba considerare legittima allorché questa sia commisurata rispetto alle finalità dello specifico regime detentivo preso in esame nella fattispecie concreta. Nell’ipotesi del 41bis, lo scopo è determinato dalla necessità di ovviare ai legami tra il detenuto, a cui la misura è applicata, ed il sistema criminoso di cui fa parte, in modo che sia impossibile per questi di condurre, o comunque controllare, le operazioni illecite dall’interno dell’istituto penitenziario. Talché, qualsivoglia compressione del diritto alla salute del detenuto, che esula da siffatta finalità è da considerarsi assolutamente illegittima.

Invero, lo stesso approccio carcerario del 41bis, di per se rappresenterebbe una violazione al diritto alla salute. La compatibilità di tale regime penitenziario con il benessere del detenuto è alquanto discussa. La condizione di assoluto isolamento, e la rigidità delle condizioni carcerarie, paiono idonee a generare nel soggetto, importanti problemi di natura psicologica, probabile motivo per cui, il tasso di suicidi in carcere è maggiore per i detenuti in regime speciale, piuttosto che per quelli in regime ordinario.

In relazione a tale argomento, la giurisprudenza italiana si è sempre espressa valutando in maniera acritica la rigidità della misura carceraria de quo. La Consulta, in decisioni pregresse, ha sempre contestato la sussistenza di elementi di incompatibilità tra il regime del 41bis e il diritto alla salute. Tale orientamento, seppur in maniera labile, ha subito modifiche solo in tempi relativamente recenti, con sentenze in cui la Corte Costituzionale ha ammesso l’influenza del regime detentivo speciale sulle condizioni psicofisiche dei carcerati[4].

Proprio a tale orientamento giurisprudenziale si deve la sentenza n. 99/2019, della testé citata Consulta, per mezzo della quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47ter co 1ter Ord. Pen., nella parte in cui si ovviava a prevedere la possibilità che il Tribunale di Sorveglianza potesse convertire la misura carceraria con quella degli arresti domiciliari, derogando al comma 1 del predetto articolo, nei casi in cui al detenuto sopravveniva una grave infermità mentale.

Per ciò che attiene la giurisprudenza di legittimità, vi è diatriba sull’argomento, e si ravvisano orientamenti fra loro contrastanti.

Diverso è l’approccio sovranazionale, che sebbene inizialmente non ha preso una posizione netta, in tempi recenti ha espresso forti perplessità in merito alla misura detentiva del 41bis in relazione ad una eventuale compressione dei diritti fondamentali dell’uomo, e segnatamente il diritto alla salute. La corte EDU ha affermato che “la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di ritrovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova di intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute ed il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”[5].

Tale decisione, invero non ancora del tutto recepita dalla giurisprudenza nazionale, non lascia dubbi in merito alla predominanza dei diritti fondamentali, e segnatamente di quello alla salute, rispetto ad un regime detentivo che ha natura principalmente amministrativa, è che invero, a parere di chi scrive, non è strettamente fondamentale per l’esecuzione della pena, che ad ogni modo verrebbe perpetrata ed eseguita in altro modus.

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4. La salvaguardia della salute del detenuto al 41bis ai tempi del Covid-19.

La trattazione, in via preliminare, degli argomenti analizzati è doverosa per trattare il medesimo assunto, in relazione al particolare periodo storico che sta vivendo l’Italia (ed il resto del mondo), colpita da una pandemia, la SARS-CoV-2, che necessariamente si ripercuote anche negli ambienti carcerari.

Un evento di tale eccezionalità, non poteva che generare soluzioni altrettanto straordinarie, ragion per cui il Governo, all’interno del più ampio D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, ha previsto una normativa che consente a tutti quei soggetti che debbono scontare meno di 18 mesi di pena, di poter ottenere, sino al 30 giugno 2020, la conversione della misura carceraria in detenzione domiciliare.

Orbene, siffatta normativa che coinvolge circa 4000 detenuti nell’intero territorio nazionale, sebbene rilevante, non affronta il problema con la dovuta minuziosità. Rimane, infatti, un interrogativo in merito alle sorti di tutti quegli altri detenuti, che dovendo ancora scontare una pena superiore ai 18 mesi, sono esclusi dal D.L., ma per i quali sussiste, comunque, l’emergenza sanitaria. Fra questi anche quelli in regime di 41bis. Si premette che tale scritto lungi dal voler alludere che la medesima misura del citato decreto legge, debba essere applicata indistintamente a tutti i carcerati, ma semplicemente si voleva auspicare un diverso provvedimento con il medesimo fine, ossia la tutela del diritto alla salute di codesti soggetti. Ciò non è avvenuto, ragion per cui siffatto vulnus normativo, deve necessariamente essere colmato dagli operatori giudiziari che, per mezzo di decisioni individuali ancorate alla casistica di specie, sono tenuti a porre soluzione alla quaestio. Sicché, i Giudici sono chiamati ad analizzare la fattispecie concreta, valutare la situazione dei singoli soggetti, e la compatibilità delle loro condizioni di salute con l’ambiente carcerario durante la diffusione del virus de quo, nonché bilanciare la tutela del diritto alla salute con gli interessi della collettività.

Ovviamente siffatte scelte devono coinvolgere non solo i detenuti in regime ordinario, ma anche, necessariamente, i detenuti al regime speciale del 41bis, poiché il diritto alla salute non può essere valutato in base alla gravità dei crimini commessi dai soggetti, né tantomeno in base alla loro pericolosità sociale. Ed effettivamente così è stato. Sono diverse le ordinanze dei Giudici aditi, atte a sottoporre, provvisoriamente, alcuni soggetti detenuti in regime del carcere duro, alla detenzione domiciliare. Naturalmente, tali scelte giurisprudenziali, sono giustificate da ragioni di assoluta necessità, talché siffatto alleggerimento delle misure detentive è stato concesso solo a quei detenuti, che a causa di una situazione fisica già di per se compromessa, qualora avessero contratto il virus, avrebbero avuto poche chance di sopravvivenza, o quantomeno notevoli complicazioni. Effettivamente, tali decisioni – doverose a parere di chi scrive – sono numericamente limitate, talché hanno coinvolto solo una percentuale estremamente ridotta di detenuti in regime di 41bis, rimanendo ingiustificato l’allarmismo dell’opinione pubblica che si è appellata allo scandalo. Infine particolarmente delicata è la situazione di quei soggetti che sono detenuti a seguito di misure cautelari coercitive, ma per i quali non vi è giudizio definitivo di colpevolezza. Questi sono sottoposti alla medesima disciplina testé analizzata, sebbene sarebbe stato auspicabile, ad opinione dello scrivente, che fossero coinvolti nelle disposizioni normative del D.L. 18/2020.

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Note

[1] Cecchini F., La tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto Penale Contemporaneo, 23/01/2017.

[2] De Gioiellis D., Regime penitenziario di rigore, tra esigenze di sicurezza e diritto alla salute, p. 151, in Massaro A., La tutela della salute nei luoghi di detenzione, Roma Tre-Press, 2017.

[3] Corte Costituzionale, sentenza n. 349 del 24/06/1993.

[4] V. in tal senso Corte Costituzionale, sentenza n. 186/2018; sul punto anche Corte Costituzionale, sentenza n. 143/2013;

[5] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza del 08/01/2013, Torreggiani e altri c. Italia.

Domenico Chirumbolo

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