Il demansionamento nell’impiego pubblico e la posizione della giurisprudenza

Sgueo Gianluca 06/12/07
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1. Il demansionamento nell’impiego pubblico – 2. La posizione della dirigenza – 3. La posizione degli impiegati
 
1. Il demansionamento nell’impiego pubblico
La trattazione del tema del demansionamento nell’impiego pubblico deve tener conto della disciplina dettata dal codice civile a favore dei dipendenti delle aziende private. Infatti, esistono differenze e punti di contatto notevoli tra le due discipline.
Per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti va detto subito che la disciplina del demansionamento nel settore pubblico è completamente diversa rispetto a quella appena tratteggiata. La materia è attualmente disciplinata dall’art. 52 del d.lgvo 30 marzo 2001, n. 165, che ha riprodotto la disposizione contenuta agli artt. 56 e 57 del d.lgsvo n. 29/1993, con le modifiche introdotte dall’art. 25 del d.lgsvo n. 80/1998, successivamente modificato dall’art. 15 del d.lgs.von. 387/1998.
La lettura della disciplina ora richiamata consente di evidenziare – pur nel quadro della complessiva riforma del rapporto di lavoro e delle innovazioni apportate proprio a questo istituto – la permanenza di profili di specialità. La giustificazione di questi risiede nel vincolo di scopo che caratterizza l’organizzazione amministrativa ed impedisce la piena sussunzione dell’istituto nell’ambito delle disposizioni del capo I, titolo II del libro V del codice civile, secondo la prospettiva prescelta dal legislatore in seguito all’approvazione la riforma avviata dalla legge delega n. 421/1992.
Difatti, nonostante le radicali modifiche alla regolamentazione giuridica del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la disciplina legale del diritto del datore di lavoro di mutamento delle mansioni del dipendente pubblico presenta indubbiamente caratteristiche del tutto peculiari ed autonome rispetto al regime vigente nel settore privato, come delineato dal nuovo testo dell’art. 2103 c.c[1].
La mancata, piena trasposizione, della norma privatistica nel quadro di regole del rapporto di lavoro pubblico, nasce, appunto, dall’esigenza di evitare l’introduzione di forme di riconoscimento automatico di promozioni e di garantire il dato formale del rispetto delle piante organiche.
Ciò, nello spirito della riforma enunciato sin dalle norme di apertura del provvedimento, allo scopo di eliminare all’origine il riprodursi di fenomeni clientelari con il riconoscimento di promozioni che non siano precedute da forme di oggettiva valutazione e selezione del personale e di eliminare lo spreco di risorse contenendo la spesa pubblica entro vincoli predeterminati[2].
 
2. La posizione della dirigenza
Se dunque, come abbiamo detto, la riforma della disciplina delle mansioni del lavoratore pubblico non ha soppresso del tutto lo ius variandi del datore di lavoro, ci si è preoccupati comunque di regolarne l’esercizio in modo da proteggere adeguatamente anche il patrimonio professionale del lavoratore. A tal fine, la normativa opera una distinzione fondamentale:
Per quanto riguarda i dirigenti, specifiche disposizioni a tal proposito si rinvengono all’art. 19, al quarto comma, con riferimento al conferimento degli incarichi dirigenziali e al passaggio ad incarichi diversi.
La disposizione precisa infatti espressamente che “al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’art. 2103 c.c.”. Tali incarichi vengono conferiti sempre a tempo determinato, per un periodo compreso tra i due e i sette anni e con facoltà di rinnovo, sulla base “dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza”. Per ciascun incarico viene definita contrattualmente, la durata, gli obiettivi da perseguire e il trattamento economico e lo stesso può essere revocato “nelle ipotesi di responsabilità dirigenziale per inosservanza delle direttive generali e per i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione”.
L’esclusione dell’applicazione dell’art. 2103 dle codice civile comporta la possibilità che il dirigente possa essere trasferito da un incarico di livello più elevato ad uno di livello inferiore senza incorrere nel divieto di demansionamento posto dal codice civile.
 
3. La posizione degli impiegati
A diverse conclusioni deve invece giungersi per le altre categorie di dipendenti pubblici. Invero, come si è osservato in dottrina, mentre l’art. 56 del d.lgsvo n. 29/1993, nella sua stesura originaria assegnava al dirigente il potere di adibire il dipendente a mansioni o compiti immediatamente inferiori, analoga previsione non è stata riportata anche nel testo dell’art. 53 del d.lgvo n. 165/2001.
Sulla scorta di tale omissione deve pertanto ritenersi che l’attuale disciplina non preveda tale possibilità, con eccezione di tutte quelle ipotesi in cui ciò sia imposto da altre disposizioni di legge, e comunque sempre a tutela della persona del lavoratore, come ad esempio in caso di riduzione della capacità lavorativa per malattia o infortunio[3].
 
 
 
[1] Cfr. D’Aponte M., Progressioni di carriera e assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego: la permanenza di una disciplina speciale tra esigenze di tutela e abusi della p.a, in Lavoro nelle P.A., 2005, V, pagg. 833 ss., il quale sostiene che: “Appare infatti chiaro che le disposizioni sulla promozione automatica ed il riconoscimento del diritto all’ottenimento delle differenze economiche previste dalla disciplina privatistica, contrastino con le norme in tema di progressione delle carriere, attribuzione di incarichi e copertura degli organici da una parte, e con i principi costituzionali di legalità, buon andamento ed imparzialità che devono ispirare l’azione della pubblica amministrazione, da un’altra”.
[2] Cfr. D’Aponte M., Progressioni di carriera e assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego: la permanenza di una disciplina speciale tra esigenze di tutela e abusi della p.a, in Lavoro nelle P.A., 2005, V, pagg. 833 ss., per cui: “Non va difatti sottaciuto, come si è osservato, che il processo di contrattualizzazione del lavoro pubblico avviene al di fuori del quadro di garanzie costituzionali della libertà di iniziative economica privata di cui all’art. 41 della Costituzione, collocandosi invece nel segno del principio di legalità della funzione pubblica che deve esercitarsi rigorosamente entro i criteri di cui all’art. 97 Cost., individuati dalla legge, per quanto riguarda specificamente i rapporti di lavoro, nell’efficienza, trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa”
[3] Secondo D’Aponte M., Progressioni di carriera e assegnazione di mansioni superiori nel pubblico impiego: la permanenza di una disciplina speciale tra esigenze di tutela e abusi della p.a, in Lavoro nelle P.A., 2005, V, pagg. 833 ss. “Tale diversità affonda le sue radici già nel provvedimento di delega, poiché la legge 23 ottobre 1992 n. 421 nell’impostare, all’art. 2, la riforma del pubblico impiego, fissò una serie di criteri cui il governo si sarebbe dovuto attenere, tra cui la previsione di una disciplina delle mansioni che derogasse a quanto previsto dall’art. 2103 c.c. La lettera n) dell’art. 2 l. 421/92, infatti, stabiliva che il governo, nell’adottare i decreti delegati attuativi della riforma dovesse prevedere che, con riferimento al settore pubblico, in deroga all’art. 2103 c.c., l’esercizio temporaneo di mansioni superiori non attribuisce il diritto alla assegnazione definitiva delle stesse, che sia consentita la temporanea assegnazione con provvedimento motivato del dirigente alle mansioni superiori per un periodo non eccedente tre mesi o per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto esclusivamente con il riconoscimento del diritto al trattamento corrispondente alla attività svolta e che comunque non costituisce assegnazione alle mansioni superiori l’attribuzione di alcuni soltanto dei compiti propri delle mansioni stesse, definendo altresì criteri, procedure e modalità di detta assegnazione”.

Sgueo Gianluca

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