Il delitto di calunnia

Redazione 29/09/04
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di Dott. Cristiano Brunelli
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Il delitto di calunnia è stato collocato dal legislatore nel titolo III capo I del libro II dedicato ai delitti contro l’amministrazione della giustizia poichè considerato in epoca moderna reato in grado di offendere non solo la rispettabilità del soggetto calunniato ma anche il regolare svolgimento dell’ amministrazione della giustizia da parte dello Stato[1].
Il contenuto normativo dell’art. 368 c.p. punisce “chiunque, con denunzia, querela, richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’Autorità giudiziaria o ad altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni.
La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato pel quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave.
La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo; [e si applica la pena dell’ergastolo, se dal fatto deriva una condanna alla pena di morte]”.
Autorevole dottrina, successivamente all’entrata in vigore del codice Rocco, relativamente all’individuazione dell’interesse tutelato dalla norma de qua ha dato luce a tre diverse teorie; una prima, più marcatamente tradizionale, è perfettamente in linea con i dettami codicistici nell’incentrare esclusivamente nell’amministrazione della giustizia la tutela del proprio operato[2] mentre al tempo stesso un’altra attribuisce alla fattispecie in oggetto una caratteristica plurioffensiva nel ritenere meritevole di protezione anche la salvaguardia dell’onore e della libertà personale del calunniato[3].
Una terza corrente di opinione esclude invece dalla tutela normativa l’interesse dello Stato alla corretta e funzionale amministrazione della giustizia[4].
Indubbiamente l’art. 368 c.p. garantisce la protezione normativa, seppur su livelli diversi, tanto del andamento della giustizia quanto dell’onore e della rispettabilità della persona ingiustamente accusata; in tal senso l’interesse privato, ad avviso di chi scrive, risulta paradossalmente privilegiato rispetto a quello pubblico.
Infatti il legislatore protegge dapprima indirettamente l’incolumità del calunniato punendo il soggetto attivo del reato colpevole di aver causato l’avvio di un procedimento penale contra legem e di poi, successivamente ad un raffronto del regime sanzionatorio ex art. 368 c.p. con le pene stabilite per i reati di autocalunnia e simulazione di reato, l’interesse dell’innocente; inoltre, a riprova di quanto appena esposto, è utile osservare la durezza delle aggravanti previste in capo al reo come diretta conseguenza del rischio in cui può incorrere il soggetto passivo quando effetto della condotta criminale sia una sentenza di condanna.
La calunnia è un reato di pericolo ed istantaneo.
Ai fini della sua integrazione non risultano necessari sia l’avvio del procedimento penale da parte dell’Autorità giudiziaria essendo sufficiente la minaccia di un danno per la normale attività della giustizia sia l’incompetenza dell’organo portato a conoscenza dei fatti.
La condotta incriminata, cioè accusare qualcuno nella piena consapevolezza di saperlo innocente, può essere posta in essere attraverso la presentazione formale di una querela o di una denuncia all’autorità giudiziaria competente palesando l’ipotesi di calunnia diretta o simulando le tracce di un reato nel caso di quella indiretta; la falsità dell’accusa, requisito fondamentale del reato, può manifestarsi sia nell’inesistenza del reato che nell’innocenza della persona accusata.
Tuttavia affinchè possa sussistere il reato la falsità sopra descritta deve necessariamente avere ad oggetto un fatto penalmente rilevante non comportando responsabilità in capo all’agente la dichiarazione mendace ma del tutto innocua[5]; a tal riguardo la dottrina si è divisa in merito al reale valore da attribuire alla fattispecie in ipotesi.
La parte maggioritaria di essa è concorde nell’attribuire una valenza strettamente sostanziale al reato considerando la fattispecie criminosa nell’insieme degli elementi costitutivi oggettivi e soggettivi mentre ampia giurisprudenza è da tempo orientata nel considerare il delitto in esame a tutela esclusiva del corretto esercizio della giustizia e riconducendo quindi il contenuto della condotta ad una notizia di reato idonea alla celebrazione di un processo inutile[6].
La ritrattazione successiva non elimina il reato neanche nel caso in cui fosse la polizia giudiziaria ad accertare la falsità delle dichiarazioni ma rappresenta un ulteriore fatto che non esclude il precedente: qualora la ritrattazione fosse il risultato del reale pentimento dell’agente e si accompagnasse alla buona volontà di rimediare ai danni precedentemente cagionati essa potrebbe giustificare l’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p..
In riferimento ai rapporti con altri delitti, la calunnia assorbe la simulazione di reato in quanto reato più grave[7] mentre sussiste concorso di reati con la falsa testimonianza[8] poiché il contenuto normativo di cui all’art. 372 c.p. indirizza il suo operato verso la punizione del testimone il quale ometta di dire la verità al contrario quanto previsto dal delitto di calunnia è diretto a colpire il dovere dell’agente di non incolpare qualcuno sapendolo innocente.
Note:
[1] MARONGIU, Calunnia (dir. intermedio), in Enc .dir., V, Milano, 1959, p. 816, “nell’epoca moderna – per esempio, nella nuova legislazione criminale toscana di Pietro Leopoldo, del 1786 – si vede meglio che in passato che la calunnia offende e danneggia non soltanto colui che è falsamente accusato, ma l’amministrazione della giustizia e, in definitiva, lo Stato”. Al riguardo anche BARTOLO, Calunnia, in I delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di Franco Coppi, Giappichelli Editore, Torino, 1996.
[2] In tal senso, PANNAIN, Calunnia e autocalunnia, in Nss. D.I., II, Torino, 1958, p. 678 ss; CURATOLA, Calunnia (dir. pen.), in Enc. Dir., V, Milano, 1959, p. 817 ss.; MONTALBANO, Profili dommatici del delitto di calunnia, in Riv. Pen., 1962, I, p. 30.
[3] ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, II, Milano.
[4] PULITANO’, Calunnia e autocalunnia, in D. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 9 ss; FIANDACA – MUSCO, Diritto penale, I, Bologna, 1988; PAGLIARO, La calunnia, Palermo, 1961.
[5] Cfr. BARTOLO, Calunnia, in Delitti contro l’amministrazione della giustizia, a cura di F. Coppi, Giappichelli Editore, Torino, 1996.
[6] Così Cass., sez. III, 14 aprile 1965, Castagna, in Riv. It. dir. proc. pen., 1966; inoltre Cass., sez. VI, 26 giugno 1992, Felisetti, in Mass. Dec. Pen., 1992.
[7] Cass., 25 gennaio 1935, Ianni, in giust. Pen., 1935, II, 1257, 458.
[8] Cass., 31 maggio 1947, Recchia, in Giust. Pen. 1948, II, 35; Cass., 25 giugno 1957, Franceschetti e altri, in Giust. Pen. 1958, II, 45; Cass., 28 febbraio 1964, Stech e altro, in Cass. pen. Mass. Ann. 1964, 612; Cass., 19 novembre 1982, Catapano, in Giust. Pen. 1983, II, 423; Cass., 24 febbraio 1998, Intorno, in Cass. pen. 1999, 2139.

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