Il ddl di riforma della legge pinto

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Di fronte alla lentezza della giustizia italiana il legislatore non pensa di intervenire stanziando nuove risorse per ridurre la durata dei processi, ma di complicare ai cittadini le procedure esistenti per ottenere i dovuti indennizzi e di ridurre, se possibile, l’importo degli indennizzi stessi.

E’ quanto risulta dal Disegno di Legge n. 1880, che mira ad introdurre il cosiddetto “processo breve”, ed in particolare dall’art. 1 del DDL che riguarda la riforma della legge 24 marzo 2001 n. 89 sull’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, c.d. Legge Pinto, presentato in Senato da parlamentari della maggioranza.

Detto DDL avrebbe come obiettivo, secondo i firmatari, “quello di rendere più certi i presupposti, la procedura e la quantificazione dell’equo indennizzo, nel quadro di un generale contenimento degli effetti, anche economici, derivanti dalla durata non ragionevole del processo”.

In realtà la stessa relazione al DDL rende chiaro che l’obiettivo perseguito principalmente è proprio quello di limitare i costi economici derivanti a carico dello Stato dall’applicazione della Legge Pinto.

L’ammontare degli indennizzi corrisposti, infatti, è passato da 14,7 milioni di Euro nel 2007, a 25 milioni di Euro nel 2008, a 13,6 milioni di Euro nel solo primo trimestre del 2009. Allo stesso modo il numero dei ricorsi è cresciuto esponenzialmente da 5.051 nel 2003, a 17.259 nel primo semestre 2009, con una proiezione finale di oltre 34.000 ricorsi a fine anno.

Allo scopo, quindi, di tentare di frenare questo inarrestabile trend, con il DDL si intenderebbe introdurre una serie di modifiche alla legge Pinto.

Innanzitutto viene determinata la durata irragionevole del processo, superata la quale si ha diritto all’indennizzo: due anni per il primo grado, due anni per l’appello, due anni per il giudizio in Cassazione, ai quali deve aggiungersi un altro anno in caso di rinvio del procedimento. Ciascuno di tali termini può essere aumentato fino alla metà dal giudice incaricato di valutare la ragionevolezza della durata del procedimento, in considerazione della complessità del caso e del comportamento delle parti, e quindi la durata totale del processo potrebbe arrivare sino a dieci anni e mezzo prima di potersi definire irragionevole.

Questa disposizione limiterebbe la discrezionalità assoluta di cui ora godono i giudici nel valutare se la durata di un processo sia o meno irragionevole; d’altra parte la durata dei processi che viene prevista come ragionevole dal DDL potrebbe addirittura considerarsi ottimistica, in quanto è esperienza comune che un giudizio che duri meno di sei anni tra primo e secondo grado può definirsi veloce secondo gli attuali standard degli uffici giudiziari italiani.

Il DDL, se approvato, porrebbe inoltre un serio freno alla concreta possibilità di proporre la domanda di indennizzo, in quanto prevede che entro 6 mesi dalla scadenza dei termini previsti per la durata ragionevole di ciascun grado di giudizio (in pratica, nel periodo che va da diciotto e ventiquattro mesi dall’inizio del processo) la parte deve presentare una espressa richiesta al giudice procedente di sollecita definizione del giudizio entro due anni, o comunque quanto prima.

In mancanza, la parte vedrebbe riconosciuto il suo diritto all’indennizzo solo per il ritardo successivo alla presentazione della richiesta.

Esemplificando, se la richiesta di sollecita definizione venisse presentata tre anni dopo l’inizio del processo di primo grado, e quest’ultimo durasse in tutto quattro anni, l’indennizzo verrebbe liquidato solo in relazione all’anno successivo alla presentazione della domanda, e quindi sarebbe notevolmente ridotto.

Secondo il DDL, in seguito alla presentazione della richiesta di sollecita definizione del giudizio, il procedimento dovrebbe godere di una corsia preferenziale, ed essere trattato prioritariamente dagli uffici giudiziari.

Quest’ultima disposizione in realtà rischierebbe di avere scarsi effetti pratici. E’ infatti facile pronosticare che, poiché raramente i procedimenti si concludono entro diciotto mesi dal loro avvio, sarebbe quasi sempre interesse delle parti in causa avanzare la richiesta di sollecita definizione del giudizio.

La corsia preferenziale auspicata dal DDL si troverebbe così in breve tempo ad essere intasata come le corsie delle nostre autostrade nel mese di agosto, vanificando ogni tentativo di trattazione spedita della causa.

E’ inoltre importante sottolineare che, per i processi attualmente pendenti iniziati da oltre due anni, la richiesta di sollecita definizione del giudizio dovrebbe essere proposta entro soli sessanta giorni dalla eventuale entrata in vigore della legge di approvazione del DDL.

Importanti modifiche verrebbero introdotte dal DDL anche per quanto riguarda la liquidazione dell’indennizzo.

Innanzitutto, nella liquidazione il giudice dovrebbe tenere conto della domanda proposta, o accolta, nel procedimento nel quale si assume verificata la violazione del termine ragionevole di durata.

E’ chiaro che la domanda proposta può essere ben diversa da quella accolta (posso chiedere 100 in giudizio ed ottenere 10), e quindi la disposizione appare di interpretazione abbastanza dubbia.

Ma, cosa ancora più importante, il DDL dispone che l’indennizzo è ridotto ad un quarto se le domande del ricorrente sono state rigettate in giudizio, o quando ne è evidente l’infondatezza.

Tale disposizione non sembra avere giustificazione e sembra dettata solo ed esclusivamente dal fine di contenere i costi per lo Stato, in quanto scopo della Legge Pinto non era quello di tutelare solo la parte vincitrice, ma di tutelare tutti i cittadini davanti alle tragiche lentezze del sistema giudiziario italiano.

E’ evidente, infatti, che chiunque ha diritto di sapere se ha torto o ragione dalle autorità giudiziarie in tempi ragionevoli, e che lo scopo della Legge Pinto non era quello di tutelare solo la parte vincitrice, ma di tutelare tutti i cittadini davanti alle tragiche lentezze del sistema giudiziario italiano.

In conclusione, la proposta di modifica sembra avere scarse chances di accelerare i processi lumaca, ed ottime possibilità, invece, di ridurre le domande di indennizzo e, conseguentemente, gli esborsi dello Stato.

L’art. 1 del Disegno di Legge n. 1880 è giunto all’esame del Senato lo scorso 14 gennaio 2009, ed è stato approvato in prima lettura dall’assemblea senza modifiche sostanziali, ma con l’introduzione di alcune novità di carattere procedurale.

Pur trattandosi di un testo suscettibile di essere ulteriormente modificato nelle successive letture dalle Camere, tra le novità al DDL introdotte può essere interessante rilevare che non è più previsto, per la proposizione delle domande di indennizzo, il patrocinio obbligatorio di un avvocato, potendo la parte interessata proporre personalmente la domanda.

Anche la recente pronuncia n. 27348 delle Sezioni Unite della Cassazione, depositata lo scorso 24 dicembre 2009, sembra inscriversi nel complessivo disegno di limitare per i cittadini la possibilità di chiedere l’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo.

I Giudici della Suprema Corte, risolvendo un precedente contrasto giurisprudenziale, hanno stabilito che per valutare la ragionevole durata del processo vanno tenuti distinti il processo ordinario di cognizione ed il processo esecutivo, in caso di procedimento civile, nonché il processo amministrativo di cognizione ed il giudizio di ottemperanza, in caso di processo amministrativo.

Le Sezione Unite hanno infatti affermato che il processo cognitivo e quello di attuazione della sentenza, civile o amministrativa, sono autonomi in quanto hanno presupposti e funzioni diversi, e pertanto le loro durate non possono sommarsi.

Solo al termine di ciascuno di essi sarà quindi possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine di 6 mesi previsto dalla vigente legge n. 89/2001, l’equa riparazione per la violazione della durata ragione del processo.

Secondo quanto deciso dalla Cassazione, il processo di cognizione e quello di esecuzione dovranno quindi essere valutati separatamente al fine di giudicare se ciascuno di essi ha superato o meno il termine che il cittadino può ragionevolmente attendersi.

Se, per esempio, il processo di cognizione durasse 4 anni e quello di esecuzione altri 3 anni, non si potrebbe lamentare una durata complessiva del processo di 7 anni e quindi chiedere l’indennizzo per l’eccessività dello stessa, ma si dovrebbe valutare se la durata di 4 anni è appropriata per il giudizio di cognizione, così come se la durata di 3 anni può considerarsi ragionevole per il procedimento esecutivo.

E’ chiaro che questa interpretazione rischia di limitare seriamente la possibilità per i cittadini di ottenere l’equa riparazione.

Sebbene validamente argomentata, la sentenza delle Sezioni Unite potrebbe risultare di difficile comprensione per i cittadini, i quali non sono interessati dalla distinzione tra processo di cognizione e processo di esecuzione, ma solo ad ottenere il rapido e concreto soddisfacimento delle loro ragioni.

 

Avv. Michele Massimo Corvasce

Michele Massimo Corvasce

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