Il danno tanatologico come figura limite dell’ordinamento giuridico

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Figura di recente emersione, il danno tanatologico (o danno da morte) ha diviso dottrina e giurisprudenza, orientatesi, di volta in volta, nel senso o della recisa esclusione della configurabilità giuridica di detto danno o nel senso opposto di un suo pieno diritto di cittadinanza all’interno del nostro ordinamento.

Il perché di questa divisione risiede nelle caratteristiche peculiari del danno tanatologico, di là dal fatto che esso non gode di un’esplicita previsione legislativa – non sarebbe la prima volta che una fattispecie giuridica viene definita in via suppletiva dall’interprete – e che si concretano nella subitaneità della morte rispetto all’evento lesivo e quale presupposto di una pretesa risarcitoria iure hereditatis. Riteniamo anzi che sia proprio la prima circostanza menzionata a costituire il vero punctum dolens della questione, il che si renderà più chiaro non appena ne avremo delineato i contorni.

Prima però è necessario distinguere il danno tanatologico rispetto ad altri istituti finitimi. E già con la sentenza n.184 del 1986 la Corte Costituzionale, nell’operare una separazione tra il danno-evento e il danno-conseguenza, statuiva che:

va premessa la distinzione tra evento dannoso o pericoloso, al quale appartiene il danno biologico, e danno conseguenza, al quale appartengono il danno morale subiettivo ed il danno patrimoniale. […] Ogni danno è, in senso ampio, conseguenza: anche l’evento dannoso o pericoloso è, infatti, conseguenza dell’atto, del comportamento illecito. Tuttavia, vale distinguere […] l’evento materiale, naturalistico, che, pur essendo conseguenza del comportamento, è momento od aspetto costitutivo del fatto, dalle conseguenze dannose, in senso proprio, di quest’ultimo, legate all’intero fatto illecito (e quindi anche all’evento) da un ulteriore nesso di causalità. […] Il danno biologico costituisce l’evento del fatto lesivo della salute, mentre il danno morale subiettivo (e il danno patrimoniale) appartengono alla categoria del danno-conseguenza in senso stretto.

La Corte dunque operava una prima summa divisio tra il danno biologico da una parte e quello morale/patrimoniale dall’altra1.

Questo riferimento al danno biologico è importante in quanto è proprio come sua species che si è tentato, tra l’altro, di considerarlo.

Vi è poi da distinguere tra le pretese risarcitorie esercitabili jure proprio da chi aveva con il defunto legami affettivi, familiari o di lavoro da quelle esercitabili jure hereditatis e che sono quelle che ci interessano. Nel primo caso è esemplificativa la circostanza del danno da uccisione che mette capo ad una richiesta di risarcimento a favore delle cd. vittime di rimbalzo, non riconducibili ai soli eredi, ma anche a coloro che avevano legami non estemporanei con il defunto2. In questo contesto, se il danno biologico3 si configura come quello consistente nella lesione dell’integrità psico-fisica del congiunto o del terzo in conseguenza dell’evento morte, i sopravvissuti potranno agire jure proprio per il danno alla salute subito4.

Resta da chiedersi cosa ne sia del danno da morte in quanto trasmissibile jure hereditatis, potendo gli eredi, ed essi soli, vantare una pretesa risarcitoria già spettante al de cuius al momento della morte. In questo caso “il problema concerne la risarcibilità del danno costituito dalla perdita della vita, come danno biologico, e la sua trasmissibilità jure hereditatis e ciò nei due casi: quello della perdita istantanea della vita e quello delle lesioni con successivo esito mortale.”5

E’ a partire da queste considerazioni che si può tentare una ricostruzione della fisionomia del danno tanatologico.

Intanto occorre chiedersi se il danno tanatologico possa farsi rientrare nella categoria di quello biologico. Come abbiamo detto all’inizio la dottrina e la giurisprudenza si sono divise in ordine alla possibilità della configurabilità stessa del danno tanatologico e ciò proprio rilevando come non possa darsi analogia tra danno alla vita e danno alla salute, non potendosi il primo identificare come cifra ultima del secondo, poiché “il diritto alla salute consiste nella possibilità di fruire di un benessere psico-fisico durante l’esistenza. Presupposto del danno alla salute è che vi sia sopravvivenza, potendo solo in caso di sopravvivenza risultare leso il diritto ‘di star bene.’”6 In quest’ottica un danno biologico trasmissibile jure hereditatis si configurerebbe, a tutto concedere, per la vittima rimasta in vita per un apprezzabile lasso di tempo7. Il danno alla vita, invece, rimarrebbe ancorato alle sanzioni penali e a quelle civili sub specie di danno morale.8

Secondo questa interpretazione si resterebbe, anche a voler sostenere la trasmissibilità del danno, al danno biologico o al danno morale chiesto jure proprio e la morte, quando fosse istantanea, causando la perdita della capacità giuridica, priverebbe il diritto al risarcimento del suo titolare, vanificando così le pretese degli eredi9.

A questa impostazione è da opporre quella di coloro che affermano che “ciò che si trasmette non è il diritto personale alla salute, ma il diritto di credito al risarcimento del danno che, avendo natura patrimoniale, è senza dubbio trasmissibile”10, in una con la considerazione che “Il diritto alla vita è giuridicamente tutelato dal nostro ordinamento: è dunque lo stesso legislatore ad imporre il risarcimento nel caso di illegittima lesione anche se non fornisce una definizione normativa di danno tanatologico”11.

In quest’ultimo senso è andata pronunciandosi la recente giurisprudenza di merito, che ha riconosciuto la trasmissibilità del danno tanatologico a prescindere dall’istantaneità o meno della morte, sulla scorta di considerazioni come quelle palesate per esempio dal Tribunale di S.Maria Capua Vetere: “essendo stata riconosciuta la risarcibilità dei danni arrecati [al bene della salute] e costituendo la morte il danno supremo alla salute di una persona, sarebbe illogico e paradossale non garantire tutela risarcitoria quando la lesione sia stata tanto grave da provocare la soppressione del bene stesso”12. Dello stesso tenore la pronuncia del Tribunale di Vibo Valentia 28 maggio 2001, che ha definito “la perdita della vita alla stregua di un danno esistenziale, ossia di un danno prodotto all’esistenza di un soggetto, distruggendolo del tutto.”13

Del tutto diversa è risultata la posizione della Corte di Cassazione, che nel 2007 statuiva che

la lesione dell’integrità fisica con esito letale, immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo, non è configurabile come danno biologico, poiché la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprezzabile lasso di tempo [cors. nostro] tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse, nel qual caso è configurabile un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i quali potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante iure hereditatis14.

Dunque solo “un apprezzabile lasso di tempo” tra la lesione e la morte farebbe nascere la pretesa risarcitoria. Lasso di tempo la cui rilevanza si è andata spostando, nelle pronunce della Suprema Corte dall’an al quantum debeatur a seguito della lesione letale: “in caso di morte causata da lesione dopo un apprezzabile lasso di tempo, la quantificazione del danno biologico terminale (quale danno alla salute che, se pur temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità) va effettuato in considerazione delle peculiari caratteristiche del pregiudizio.”15 Ovverossia, stante la successiva pronuncia della Cassazione n. 11761 del 19 maggio 2006: “la risarcibilità del danno biologico iure hereditatis, in sostanza, è esclusa […] in ogni caso di morte immediata e sussiste soltanto quando la vittima sopravviva almeno per il tempo limitato indispensabile perché quella perdita di tipo biologico possa realizzarsi.”16

Mentre da un lato si riconosce cioè un diritto al risarcimento susseguente al danno da morte, dall’altro esigenze liquidative imporrebbero la necessità di temporalizzare il danno stesso in modo da individuare quello che il Collegio definisce danno biologico terminale. Non sarebbe invece risarcibile il cd. danno morale terminale, ovvero “la sofferenza psichica, di massima entità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo.”17

In altri termini, o il danno da morte è qualificabile come danno biologico o, se pur inquadrabile in una nozione ampia di danno morale, in vista delle sofferenze arrecate dall’evento luttuoso ai familiari o patite dal soggetto, ma, in ambo i casi per un lasso di tempo non apprezzabile,18 non sarebbe risarcibile. In tal modo la tutela del danno tanatologico tout court, dipenderebbe dalla sua inclusione in categorie di danno più ampie e quantificabili in base al tempo che separa la lesione dalla morte. Si toglie così al danno da morte la possibilità di porsi come istituito giuridico autonomo, relegandolo all’interno di altre fattispecie19.

Sorprendentemente, però, la Suprema Corte, con sentenza 8 aprile 2010 n. 8360 ha mutato atteggiamento e ha così stabilito:

si deve tener conto, nel quantificare la somma dovuta in risarcimento dei danni morali, ‘anche della sofferenza psichica subita dalle vittime delle lesioni fisiche alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia, in consapevole attesa della fine’; […] si da evitare ‘il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega […] il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita’ […].

Il giudice deve cioè personalizzare la liquidazione dell’unica somma dovuta in risarcimento dei danni morali, tenendo conto anche del cd. danno tanatologico, ove i danneggiati ne facciano specifica e motivata richiesta e le circostanze del caso concreto ne giustifichino la rilevanza20.

In questo modo, come è stato detto, “si supera la distinzione tra i danni subiti dalla vittima dell’evento morte, che […] distingueva tra il danno biologico terminale (identificato con le sofferenze fisiche patite dalla vittima durante il periodo di sopravvivenza tra l’evento lesivo e il decesso) e il danno morale terminale (costituito dalle sofferenze morali e psicologiche patite in quello stesso lasso di tempo).”21

La Corte, pur mantenendo sempre ferma, la distinzione tra il diritto alla salute e il diritto alla vita, in quanto implicanti, il primo, di necessità, la sopravvivenza ed il secondo la mera presenza o assenza di vita, ritiene ora il danno da morte tutelabile iure hereditatis nelle due forme del danno biologico e del danno morale.

A quest’altezza della discussione il danno tanatologico assume una connotazione trasversale: da danno biologico (poi danno biologico terminale), risarcibile in quanto implicante una menomazione dell’integrità psico-fisica, viene a costituirsi come species del danno morale cd. terminale, in quanto afferente alle sofferenze interiori patite dal soggetto leso e con coscienza, da parte di quest’ultimo, di tali sofferenze22. In entrambi i casi, permane comunque la necessità di un lasso di tempo apprezzabile tra la lesione e la morte, che consenta al giudice di valutare in termini quantitativi l’ammontare del danno stesso.

La possibilità di un danno tanatologico, trasmissibile jure hereditatis come conseguenza della perdita istantanea o pressoché immediata della vita, sembra quindi non potersi delineare nel nostro ordinamento, non tanto per una resistenza a stabilire in astratto una tutela risarcitoria in questo caso, quanto perché, sul piano della decisione da parte del giudice chiamato a pronunciarsi sul danno da morte istantanea, mancherebbero gli elementi atti a quantificare il danno, che rimane così di volta in volta una filiazione del danno biologico piuttosto che di quello morale, senza veder riconosciuta una sua autonomia categoriale.

Nel segno di questa recente amplificazione applicativa del danno tanatologico sono poi diverse pronunce della giurisprudenza di merito, come la sentenza del Tribunale di Trani, anteriore a quella della Cassazione succitata e che ne anticiperebbe, secondo la dottrina l’apertura di vedute statuendo che:

il diritto alla vita contiene in sé quello alla salute (32 Cost.), si che il riconoscimento del secondo impone di attribuire al primo primaria rilevanza costituzionale (ex art. 2 Cost.). Nucleo della Carta Costituzionale intorno al quale gravita l’intero ordinamento giuridico è la tutela e il rispetto della persona, che ha ingresso nel sistema della responsabilità civile attraverso la norma generale di cui all’art. 2059 c.c. (in seguito alle sentenze del giudice di legittimità del 31 maggio 2003, n. 8827 e 8828 può dirsi ormai superata l’impostazione teorica che faceva riferimento all’art. 2043 c.c., che ha ad oggetto il risarcimento dei danni di natura patrimoniale). E’ la persona il fulcro della tutela non i suoi singoli diritti (sofisticamente isolati tra di loro), che ne costituiscono soltanto le molteplici esplicazioni. La morte neutralizza la persona, eppertanto esige il risarcimento23.

Ciò che comporta

una ricostruzione ed un apprezzamento in chiave oggettiva del pregiudizio verificatosi, compatibile con una dissociazione – stante la peculiarità della conformazione della fattispecie che si risolve nella neutralizzazione del diritto alla vita del soggetto leso (che evidentemente non potrà azionare il proprio diritto al risarcimento) – tra il titolare della situazione soggettiva violata (la vita), che è di natura personalissima come tale intrasmissibile, e gli eredi dello stesso che acquistano iure successionis il diritto di credito al risarcimento del danno, sicuramente trasmissibile, nei confronti dell’autore della condotta omicida24.

Statuizioni che vanno ad aggiungersi alle considerazioni recenti della dottrina (pur riguardanti la materia affine del danno esistenziale) per cui

il danno in genere, e il danno esistenziale in particolare, consiste sempre in nell’alterazione in peius della sfera giuridica del danneggiato. Il danno, civilisticamente inteso, è connotato in tutti i casi da aspetti materiali, naturalistici, che non possono essere confusi con il profilo intrinsecamente giuridico della lesione. Elemento, quest’ultimo, indefettibile della fattispecie aquiliana, ma di per sé insufficiente per il sorgere di un’obbligazione risarcitoria, almeno nei sistemi di civil law, da circa due millenni a questa parte25.

In base a queste affermazioni sembra superato la ‘storica’ sentenza della Corte Costituzionale n. 184 del 198626 per cui si dava distinzione tra danno-conseguenza e fatto lesivo come circostanza che assorbe in sé tutta la fattispecie. Per giunta lì la Corte si riferiva al danno biologico, separandolo da quello morale/patrimoniale, divisione, anche questa, superata in dottrina e in giurisprudenza, risultando accorpati il danno biologico e quello morale (quando non siano entrambi considerati espressione di un’accezione più ampia di danno morale) rispetto al danno patrimoniale.

Alla luce delle ultime considerazioni il quadro sembra alquanto composito e la figura del danno tanatologico alquanto ibrida.

In primo luogo rileviamo come per la giurisprudenza di merito, peraltro sovente in anticipo sulle statuizioni dalla Suprema Corte, la più volte da quest’ultima rimarcata distinzione tra danno alla salute e danno alla vita come momenti di esclusione o inclusione nell’ordinamento del danno tanatologico, non abbia ragione di essere in quanto si tratta di realtà intrecciate e indissolubili: di quale salute si vuol parlare in assenza del suo presupposto cioè della vita?

Da questo punto di vista le statuizioni dei giudici di merito, soffermatesi più di una volta sui principi costituzionali posti a difesa del diritto alla vita, avrebbero forse meritato miglior sorte di quella che ha visto la Cassazione concedere al danno da morte una rilevanza solo in termini di danno morale terminale con il leso consapevole di essere in fin di vita. Tra l’altro quello che si trametterebbe jure successonis è un diritto al risarcimento e non quello personalissimo alla vita, della cui intrasmissibilità nessuno dubita.

E’ vero che la visione meno rigorosa della giurisprudenza di merito ha portato quest’ultima a parlare di danno da morte, danno biologico e danno esistenziale come fattispecie fungibili, ma ciò si deve da un lato alla difficoltà di fissare il proprium del danno da morte, dall’altro a quella non-distinzione a monte tra vita e salute che genera inevitabilmente tanto infrazioni di campo quanto prospettive di maggior apertura in rapporto alle conseguenze giuridiche di un evento come la morte.

Come per ogni istituto di nuova emersione la mappatura delle fattispecie che lo riguardano è un passaggio inevitabile che non può essere eluso da visioni preconcette.

Quello che viene fuori dalle statuizioni della giurisprudenza di merito e di legittimità, è che il danno da morte, che va provato come ogni altro danno (il che ricade nel tema della quantificazione del danno su cui torneremo tra breve), secondo gli ultimi orientamenti, anche dottrinali, come tipologia a se stante di danno, non esiste: la perdita istantanea della vita ricade in un inesorabile mors omnia solvit. Esiste, di là dalle buone intenzioni di qualche giudice e di qualche illuminato commentatore, un danno tanatologico come danno morale terminale, come danno esistenziale, come generico danno alla persona e via enumerando.

In secondo luogo il punto cardine di molte pronunce della Corte di Cassazione, il lasso apprezzabile di tempo tra la lesione e la morte, sarebbe momento indefettibile dell’accertamento giudiziale, in mancanza del quale risulterebbe indeterminabile il quantum debeatur.

Intanto non si capisce perché le difficoltà che ben possono incontrarsi nello stabilire il pretium doloris quando si parla di danno morale e che vengono ricondotte alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. non debbano poter ricevere lo stesso trattamento in tema di danno tanatologico, quando non lo si voglia inquadrare nel danno morale ‘a tempo’ e ‘consapevole’.

Secondariamente, come scrive Viola

è stata sottolineata anche la funzione rieducativa, lato sensu, della responsabilità extracontrattuale, tale per cui, si dice, al danneggiante deve comunque essere imposto un risarcimento del danno […] con il corollario applicativo che in tema di liquidazione del danno tanatologico, si dovrà prendere in considerazione la somma corrispondente al massimo dell’invalidità permanente relativa al danno biologico, come limite minimo.27

Una prospettiva ragionevole, secondo la quale si potrebbe “presentare nell’atto introduttivo del processo […] una voce autonoma di danno (quantificabile in una misura superiore rispetto a quella relativa al danno biologico da invalidità permanente), da affiancare al danno morale e futuro”28

Voce autonoma di danno la cui quantificazione non è certo un problema insolubile.

Principi costituzionali e possibilità di configurare, in sede giudiziale, il danno tanatologico come fattispecie a se stante e suscettiva di autonoma liquidazione (prospettiva in base alle quale sarebbe opportuno ritornare alla distinzione, pur da ridisegnare, tra evento dannoso e danno-conseguenza operata dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza 184/86), sembrano legittimare l’indipendenza categoriale del danno tanatologico e fondare sensati dubbi sulle astruse costruzioni, recenti e passate, soprattutto della Corte di Cassazione, troppo spesso incline a forme di pensiero debole né utili né necessarie.

1 Diversa e più articolata, ma nello stesso orizzonte di senso, la bipartizione voluta dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 8827 e n. 8823 del 2003, dove ai danni patrimoniali si oppongono quelli non-patrimoniali, cui in la Corte fa rientrare il danno morale subiettivo, il danno biologico e il danno esistenziale come ricavabili tutti dall’art. 2059 c.c.

2 Cfr. AA.VV., Il danno non patrimoniale nel processo civile, Maggioli, 2009, pp. 99 e ss.

3 Il danno esistenziale, invece, è stato individuato dalla Cassazione come quello derivante dall’uccisione del congiunto e che trova la sua ragion d’essere nella lesione dei diritti inviolabili della famiglia: non può quindi “farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata ‘danno esistenziale’” (Cass. sez. unite 11 novembre 2008, n. 26972), cit. in Il danno non patrimoniale, cit., p.103, n. 8.

4 Cfr. Op.cit., p. 103.

5 Op.cit., p. 105.

6 Ibidem.

7 Cfr., nello stesso senso, Trib. Milano, 2 settembre 1993; Trib. Firenze, 10 dicembre 1994, Trib. Bologna 25 ottobre 1994.

8 Cfr. Cass. 2 aprile 2001, n. 4783.

9 Cfr. Cass. 20 gennaio 1999, n. 491. V. anche Corte cost. 372/94, che stabilisce: “vita e salute sono beni giuridici diversi, oggetto di diritti distinti, sicché la lesione dell’integrità fisica con esito letale non può considerarsi una semplice sottoipotesi di lesione alla salute in senso proprio, la quale implica la permanenza in vita del leso con menomazioni invalidanti.”, cit. in Maura Tampieri, La tutela civile della persona, CEDAM, 2010, p. 67.

10 Op.cit., p. 107.

11 Ibidem.

12 Trib. Santa M. Capua Vetere, 14 gennaio 2003, cit. in Il danno non patrimoniale, cit., p.112. Cfr. App. Roma, 2 giugno 1994; Trib. Venezia, 13 dicembre 2004; Trib. Messina, 14 febbraio 2006.

13 Cit. in Maura Tampieri, La tutela civile della persona, CEDAM, 2010, p. 68.

14 Cass. 22 marzo 2007, n. 6946, cit. in Il danno non patrimoniale, cit., p.118. Lasso di tempo che la Corte stabiliva in almeno ventiquattro ore dal decesso (Cass. 19 ottobre 2007, n. 21976). Altro problema è quello dello stato psichico cosciente o meno, della vittima tra la lesione e la morte. La Corte ha mostrato in proposito un atteggiamento ondivago: dall’irrilevanza dello stato psichico rispetto al fatto oggettivo della lesione, affermato dalla Cassazione nella pronuncia del 1 dicembre 2003, n. 18305, alla necessità del suo accertamento sancita nella sentenza n. 6946/2007. V. anche, n favore della teoria oggettiva, Cass., sez. un.,11 novembre 2008 e Cass., 13 gennaio 2009, n. 458. Lo stato psichico rileverebbe, secondo quest’ultima pronuncia, come presupposto di un danno morale: “la vittima, nel pur breve lasso di tempo intercorso tra l’incidente e la morte, aveva lucidamente percepito il dramma della propria giovane vita che si stava spegnendo, e siffatta, intensa sofferenza si era senz’altro tradotta in un danno morale trasmissibile iure successionis.” Siamo dunque nel campo del danno morale. Sul punto cfr. infra, p. 4.

15 Cass., 16 maggio 2003, n. 7632, cit. in Il danno non patrimoniale, cit., p.121.

16 Cit. Maura Tampieri, La tutela civile della persona, CEDAM, 2010, p. 65.

17 Cass., sez. un. 11 novembre 2008.

18 Cfr. Cass., 13 gennaio 2009, n. 458. V. sul punto A. Lasso, “La legittimazione dei congiunti ad agire per la tutela della personalità del defunto”, in Rass. dir. civ. 3, 2008 p. 688 e ss.

19 V. supra n. 10.

20 Cit. in AA.VV., La nuova responsabilità civile, UTET, 2010, p. 389.

21 Ibidem.

22 Sembra così giunta ad un approdo l’indecisione sulla coscienza o meno della propria sofferenza da parte del soggetto leso, come presupposto del danno morale terminale. Cfr., sul punto, supra, n. 10.

23 Trib. Trani, 1 marzo 2008, cit. in La nuova responsabilità civile, cit., p. 389.

24 Ibidem.

25 La nuova responsabilità civile, cit, p. 391.

26 V. supra, p….

27 Luigi Viola, I danni derivanti da morte, Halley editrice, 2005, p. 72.

28 Op. cit. p. 73.

Avv. Savino Mauro

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