Premessa. 1. Natura giuridica della valutazione. 2. Illeciti commissivi ed omissivi: danno patrimoniale e danno non patrimoniale. 3. Illeciti commissivi e danno patrimoniale. 4. Danno patrimoniale immediato, futuro e perdita di chances. 5. Danno non patrimoniale: il danno biologico. 6. Il danno non patrimoniale segue: il danno morale subiettivo. 7. Il danno non patrimoniale segue: il danno esistenziale. 8. Danno patrimoniale da ritardo nella valutazione del militare. 9. La reintegrazione in forma specifica nella valutazione del militare.
PREMESSA
Le recenti novità in campo giurisprudenziale e normativo impongono talune osservazioni specifiche in materia di risarcimento del danno per lesione di interessi nascenti dalla valutazione del personale militare, tradizionalmente sottratti alla risarcibilità. Con il presente articolo, si tenta di operare un’applicazione critica alla materia delle risultanze dottrinali e giurisprudenziali più recenti in tema di risarcimento del danno da azione amministrativa.
Nel contempo si cercherà di seguire un percorso descrittivo che esula dai tradizionali schemi dottrinali della responsabilità collegata all’atto, per collocare il significato della responsabilità per valutazione militare nel quadro dell’organizzazione delle FF.AA.
Chi scrive chiede dunque un atto di clemenza al lettore, poiché la materia trattata è, in base all’attuale stato di evoluzione giurisprudenziale e normativa, torbida e magmatica.
1. NATURA GIURIDICA DELLA VALUTAZIONE
Sia la giurisprudenza amministrativa sia il quadro normativo esistente inclinano a definire l’atto di valutazione come[1] un atto di giudizio[2] di natura tecnico-discrezionale, non congiunto a singoli fatti di riferimento ma ad una complessa e globale valutazione generale di una serie di qualità personali (morali, professionali, fisiche, di carattere) giudicate, con riferimento ad un dato periodo di tempo e con un modello valutativo precostituito, da soggetti individuati mediante apposito atto normativo. La dottrina che si è occupata della materia, ha invece privilegiato la dimensione procedimentale della valutazione a scapito di un univoco e preciso giudizio sulla natura giuridica dell’atto finale.
La disciplina fondamentale della documentazione caratteristica consente di avallare l’impostazione giurisprudenziale. Essa è racchiusa nella legge quadro del 5 novembre 1962, n. 1695 concernente “i documenti caratteristici degli Ufficiali, dei Sottufficiali e dei militari di truppa dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e della Guardia di Finanza”. L’Arma dei carabinieri invece trova la sua fonte legislativa nel dlvo n. 298 del 5 ottobre 2000, che, adottando norme dalla generica formulazione, sembra estendere ad essa le disciplina valutativa[3]Il discendente DPR n. 213 del 8 agosto 2002, che ha abrogato il precedente regolamento, disciplina le modalità di redazione dei documenti caratteristici ed il cui art. 1, comma 1, stabilisce che “i documenti caratteristici hanno lo scopo di registrare tempestivamente il giudizio personale, diretto ed obiettivo dei superiori sui servizi prestati e sul rendimento fornito dal militare, rilevando le capacità e attitudini dimostrate ed i risultati conseguiti”. Tale DPR 213 è stato modificato ulteriormente, ma in modo non sostanziale, dal DPR n. 255 del 11/7/2006. Per la Guardia di Finanza, in particolare, vige il DPR n. 429 del 13/12/1967 e s.m.i., il cui art. 1 riproduce la medesima formula sopra indicata[4]..
Seguendo l’impostazione normativa di cui all’art. 1 della l. 241/90, che distingue tra atti paritetici ed atti autoritativi, si può affermare che l’atto di valutazione non è un atto paritetico o negoziale, ma piuttosto un atto ad indole autoritativa[5], perché esplicantesi senza necessità del consenso del destinatario, essendo, più esattamente, atto a carattere iussivo, sottratto alla disciplina degli atti paritetici.
L’atto di valutazione avrebbe natura tecnico-discrezionale e, secondo l’insegnamento classico, a fronte di esso dovrebbero agitarsi, in via ordinaria, solo interessi legittimi di tipo oppositivo. Rientra, tuttavia, nell’ambito della cognizione della giurisdizione esclusiva[6] (e non di legittimità né di merito) del G.A.
2. ILLECITI COMMISSIVI ED OMISSIVI: DANNO PATRIMONIALE E DANNO NON PATRIMONIALE
La complessità dell’organizzazione sociale e dei relativi rapporti, sia nella loro natura che nella loro misura, ha imposto alle corti di giudizio un profondo sforzo di analisi teso a diversificare le caratteristiche del pregiudizio conseguente ad azione pubblicistica illegittima in relazione alle esigenze prospettate dagli istanti ed in armonia con le analoghe varietà delle tipologie di risarcimento che si riscontrano con più frequenza nel diritto privato.
Il risarcimento per equivalente, in particolare, è misura ristorativa di diverse tipologie di danno. La summa divisio generalmente fatta in dottrina riguarda il danno patrimoniale e quello non patrimoniale. Mentre il danno patrimoniale (d’ora in poi, per brevità, dp) è definito come il complesso delle perdite economiche subite[7] e/o del mancato guadagno, il danno non patrimoniale (dnp) si sta faticosamente configurando – sia in dottrina che in giurisprudenza – secondo un plesso comprensivo, con maggiore o minore certezza[8], di:
· danno morale soggettivo (‘praetium doloris’ o ‘pecunia doloris’);
· danno biologico (lesione del bene giuridico ‘salute’ suscettibile di accertamento medico legale);
· danno conseguente alla lesione di un interesse di rango costituzionale inerente alla persone (tradizionalmente definito ‘danno esistenziale’).
Il dnp costituirebbe pertanto, alla luce della recente giurisprudenza[9], un danno derivante dalla “lesione di valori inerenti alla persona”.
Anche la figura dell’illecito amministrativo è stato studiato analiticamente e riguardato sotto il duplice aspetto della commissività e della omissione.
L’illecito commissivo [10] consiste in una lesione causata mediante un provvedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo (ad es., il diniego di un atto abilitativo) oppure lesivo di un interesse difensivo o conservativo (ad es., il ritiro di un precedente atto abilitativo già concesso). L’illecito omissivo, invece, ha luogo nei casi di silenzio illegittimo della PA ovvero quando non sia esercitato – nonostante un atto di impulso – il potere di vigilanza o di repressione di un illecito lesivo di un diritto assoluto o relativo di chi può trarre vantaggio dall’esercizio del potere. Omissione può esservi, infine, quando non sia concluso un procedimento caratterizzato dall’emanazione di atti autoritativi ablatori (ad es., non è emesso il decreto di esproprio pur essendovi la preordinazione del vincolo, la dichiarazione di pubblica utilità e l’occupazione d’urgenza). In definitiva, l’illecito omissivo[11] riguarda il mancato od il ritardato esercizio di una doverosa funzione pubblica.
Applicando i criteri distintivi illustrati nel precedente paragrafo, il soggetto militare sembra essere ordinariamente titolare del solo interesse oppositivo a fronte degli atti di valutazione, mentre un interesse pretensivo pare configurabile nelle ipotesi di omissione o di ritardo nell’emanazione del provvedimento, ma solo laddove esse siano fondate su un obbligo della PA di emanare un atto di valutazione secondo i presupposti statuiti dalla cit. legge del 1962 e dal successivo regolamento DPR n. 213/02 e s.m.i..
Tuttavia, l’interesse vantato può essere di natura pretensiva anche nel caso in cui, intervenuta una res iudicata, il giudice dell’ottemperanza abbia imposto l’emanazione di un atto valutativo secondo determinati criteri prefissati[12] nella sentenza da eseguire. Qui, secondo una giurisprudenza[13], sarebbe addirittura configurabile un diritto soggettivo dell’istante all’attuazione del decisum, quando il ricorso sia diretto all’esecuzione di una statuizione tassativa e puntuale da cui discendano obblighi precisi per la PA. Ma laddove questa dia esecuzione al giudicato, anche se parzialmente o mediante l’emanazione di un atto illegittimo, l’interesse resta di natura oppositiva.
Poiché, come detto, l’interesse oppositivo emerge laddove l’interessato voglia evitare un pregiudizio concreto alla propria sfera giuridica a fronte di un atto amministrativo, esso sembrerebbe esercitabile in sede giudiziaria soltanto ex post, ossia dopo l’emanazione dell’atto. Prima di tale momento, il militare sembrerebbe privo di tutela, in quanto, mancando la lesione concreta, non è possibile agire per l’annullamento mediante i ricorsi amministrativi (che non legittimano a richiedere il risarcimento del danno) né sarebbe possibile agire mediante il potere di intervento che la legge 241/90 attribuisce a tutti i destinatari di un atto amministrativo adottabile con forme procedimentali, poiché la giurisprudenza prevalente tende a dichiarare inammissibili le domande di intervento nel procedimento amministrativo volto all’emanazione di un atto altissimamente discrezionale quale è la valutazione.
Sul piano processuale, a fronte del silenzio della PA, che omette di emanare l’atto valutativo, la giurisprudenza richiede che il soggetto interessato faccia accertare previamente l’illegittimità di tale silenzio che si configura come silenzio inadempimento. Solo dopo aver fatto accertare tale illegittimità, egli può agire, con un separato giudizio, dinanzi al GA per chiedere il risarcimento del danno. Il danno infatti non potrebbe essere richiesto in seno allo stesso rito del silenzio, poiché esso[14] postula incombenti istruttori che si giudicano non compatibili con la sua sommarietà[15] e poiché esso non solo non è azionabile contro il silenzio su istanze meramente patrimoniali ma non sarebbe – almeno secondo la tesi che appare prevalente – nemmeno convertibile in un rito di cognizione[16]. Se poi la PA emani il provvedimento valutativo mentre è in corso il giudizio sul silenzio[17] il giudice non può estendere il sindacato su tale atto sopravvenuto, perché vi ostano sia la specialità del procedimento sul silenzio sia il fatto che, dovendo il giudice pronunziarsi in base a quanto chiesto con la domanda iniziale (art. 112 cpc), la domanda formulata nell’atto introduttivo non contiene la specifica impugnativa dell’atto emanato.
Quindi il ricorrente dovrebbe agire per le vie giurisdizionali (o amministrative) contro il provvedimento valutativo sopravvenuto ovvero, se non è scaduto il termine decadenziale e se ciò è riconosciuto ammissibile dal giudice, potrebbe proporre motivi aggiunti e chiedere la conversione del rito sommario in quello cognitorio.
Inoltre, la PA resta libera di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento. Una differente soluzione, infatti, cozzerebbe con il principio desunto dal notissimo disposto di cui all’art. 4 dell’All. E della legge sul contenzioso amministrativo del 1865, che impedisce al giudice di condannare la PA ad un facere determinato (ossia, all’emanazione di un atto valutativo del tutto conforme alle richieste del valutando). Indirettamente, determinerebbe l’annullamento del potere di valutazione del relativo titolare attribuito con atto normativo.
3. ILLECITI COMMISSIVI E DANNO PATRIMONIALE
La regola generale prevede che il danno patrimoniale è risarcibile solo in quanto sia conseguenza immediata e diretta della lesione (art. 1223CC). La dottrina e la giurisprudenza riconducono alla risarcibilità anche taluni effetti indiretti, che tuttavia si pongono nel solco della normalità del nesso eziologico tra lesione e danno (cd. danno indiretto)[18].
Sembrerebbe arduo ipotizzare che una valutazione – illegittima a causa dei noti sintomi di eccesso di potere, incompetenza e violazione di legge – produca un danno diretto ed immediato, suscettibile di valutazione economica, nella sfera giuridica patrimoniale del valutando.
Supponiamo, ad esempio, che l’atto di valutazione sia adottato da un soggetto incompetente e che si tratti di un caso di incompetenza relativa rientrante nelle ipotesi di cui all’art. 3 del DPR n. 213/02 e s.m.i.. Se l’atto non è ritirato in via di autotutela dalla stessa PA, esso può essere impugnato dall’interessato, ma nessun risarcimento potrà ottenersi se l’atto non ha avuto alcuna influenza diretta ed immediata sul patrimonio giuridico dell’istante (si pensi al caso di un militare superiore in anzianità giudicato da un pari grado di minore anzianità). Da citare è anche una recente sentenza[19] con cui si nega il risarcimento del danno nel caso in cui l’atto amministrativo, annullato per incompetenza, possa essere reiterato ora per allora dall’organo competente.
Se invece l’atto assume una valenza negativa in sede di attuazione di un successivo atto o di un successivo procedimento e viene impugnato in tale occasione sotto forma di atto presupposto o collegato (frequente è il caso dell’atto di valutazione che è utilizzato come titolo in seno ad un procedimento di avanzamento[20]), potrebbe discutersi se siamo in presenza di un danno diretto o indiretto, ma rileverebbero fondamentalmente due problemi:
· uno relativo all’impugnativa dell’atto di valutazione, poiché, qualora sia scaduto il termine di impugnativa, potrà essere impugnato soltanto l’atto finale della procedura di avanzamento o della diversa procedura successiva, protestando che l’illegittimità dell’atto di valutazione ha influito sul risultato finale della procedura successiva secondo un meccanismo solitamente definito di invalidità derivata;
· un altro di risarcibilità dell’atto di valutazione, nel senso che nessun risarcimento sarà dovuto per l’illegittima valutazione in sé, se non quello che consiste nelle probabili influenze negative sulla procedura successiva.
Quanto al primo aspetto, l’atto illegittimo di valutazione dovrà essere influente sulla procedura di avanzamento secondo un rapporto di causalità adeguato e normale[21] e tale questione si presenta pregiudiziale su ogni altra[22]. Dottrina e giurisprudenza[23], con riguardo allo specifico caso di una procedura di avanzamento a scelta già effettuatasi, affermano che l’annullamento ex se dell’atto di valutazione non comporti un obbligo di rinnovazione della procedura di avanzamento, perché ciò sarebbe in contrasto con l’intero sistema di avanzamento. Se[24] invece la procedura di avanzamento è annullata, l’unico rimedio sarà il rinnovo della stessa (=reintegrazione in forma specifica) escludendo il risarcimento per equivalente, perché il bene della vita (promozione) non è riconosciuto dalla sentenza di annullamento. Se poi l’annullamento comporti, ai sensi dell’art. 40 del dlvo n. 490/97 in materia di avanzamento, l’immediata promozione dell’interessato, allora quest’ultimo avrà titolo anche al risarcimento del danno per equivalente.
Quanto al secondo aspetto, è evidente che l’onere della prova del danno patrimoniale da probabile mancato avanzamento sarà più difficile[25].
Se si ritiene che la lesione nasca non dall’atto valutativo presupposto, ma dal successivo atto, allora quest’ultimo soltanto è meritevole di impugnazione ed il danno sarebbe diretto ed immediato nella prospettiva del mancato avanzamento. Se invece si ritiene che la lesione (mancato o ingiusto avanzamento) nasca da un atto valutativo dannoso non impugnato nei termini, dovrebbe ricorrere la figura del danno indiretto. Giustificazione troverebbe in tale ipotesi la tesi che ammette il risarcimento a prescindere dalla specifica impugnativa dell’atto di valutazione (abbandono della pregiudiziale amministrativa), anche laddove il ricorrente, nell’atto di ricorso, si limiti ad estendere la sua impugnazione anche agli atti “collegati e/o presupposti”, indicati nella formula di stile che usualmente si pone nelle premesse. La giurisprudenza[26] ammette in generale l’istituto della presupposizione non soltanto con riferimento agli atti della medesima serie procedimentale, ma anche ad atti contenuti in procedimenti differenti; avverte però[27] che è inoppugnabile, in sede di ricorso avverso il giudizio di avanzamento a scelta, la documentazione caratteristica che l’interessato conosca da tempo e che non abbia provveduto ad impugnare, e che l’impugnazione deve essere comunque specificamente rivolta a quel dato atto supposto lesivo.
Problema collegato è quello di stabilire se sia configurabile la disapplicazione provvedimentale, con riguardo all’atto valutativo ormai inoppugnabile rispetto al successivo procedimento, in modo che il giudice amministrativo possa considerare lesivo l’atto relativo a quest’ultimo procedimento. Parte minoritaria della giurisprudenza ammette tale disapplicazione, senza però classificarla come obbligatoria, purché l’atto amministrativo da disapplicare incida su diritti soggettivi[28], altrimenti nega tale potere al giudice sostenendo che sarebbero violati i termini decadenziali di impugnativa. Nel caso di specie, pur trattandosi di giurisdizione esclusiva, prevale la tesi che dinanzi ad atti valutativi si possano agitare solo interessi legittimi, poiché si tratta di atti autoritativi discrezionali. Tuttavia potrebbe ipotizzarsi il caso in cui l’atto valutativo costituisca il presupposto (ormai inoppugnabile, benché supposto illegittimo) di un procedimento amministrativo volto a dare attuazione a situazioni giuridiche soggettive aventi la forma e la consistenza di diritti soggettivi, soprattutto quando la qualifica finale contenuta nell’atto di valutazione sia connessa con la concessione di determinate indennità o altre utilità patrimoniali, supponendo esistenti gli altri concorrenti presupposti di fatto o di diritto.
Se poi l’atto valutativo fosse illecito[29] (ad es., perché ingiurioso), allora anche una qui una lesione diretta del patrimonio del valutando sarebbe tendenzialmente inconfigurabile. Il danno patrimoniale potrebbe ricorrere, ma in via indiretta, in quanto abbia influenzato negativamente provvedimenti ulteriori incisivi sullo status o sulle vicende modificative del rapporto di pubblico impiego del militare. Nascerebbe invece direttamente un diritto al risarcimento per equivalente od anche in forma specifica (ad es., con la pubblicazione della sentenza) del danno morale ai sensi dell’art. 185 cp.
Infatti, ad essere illecita è la condotta umana e non l’atto in sé, che di solito è strumento per attuare la condotta. Resta il fatto che un atto di valutazione contenente, per restare all’esempio addotto, un’ingiuria è sicuramente sottoponibile ad un vaglio di annullamento, se non altro perché la mancata cancellazione degli effetti della lesione potrebbe dare vita ad un danno indiretto o, al limite, ad un danno permanente o ad effetti permanenti.
Il giudice penale, dal canto proprio, non può annullare l’atto di valutazione emanato, ma può solo farne disapplicazione, sindacandone – come paiono ritenere giurisprudenza e dottrina prevalenti – tutti e tre i vizi di legittimità.
Non sembra che rilevino, in tal caso, le limitazioni che alcuni, sia in dottrina che in giurisprudenza, pongono per il sindacato del G.O.: talora escludendolo per tutte le ipotesi di eccesso di potere, talaltra per alcuni casi di eccesso di potere (travisamento dei fatti, ingiustizia manifesta), poiché in tali ipotesi esso sarebbe così penetrante da far sospettare un’indebita influenza del giudice sulla discrezionalità della PA o addirittura su scelte di merito della stessa. Il riconoscimento dell’illiceità penale, infatti, dovrebbe condurre il giudice – soprattutto nei casi in cui l’atto valutativo costituisca il risultato del reato, ossia l’evento lesivo – a farne disapplicazione quanto meno sotto il profilo della ingiustizia manifesta.
Se il reato fosse omissivo (es. rifiuto di atti d’ufficio), anche qui sarebbe difficile ipotizzare un danno patrimoniale diretto, perché, a parte la considerazione che la PA militare attiva un sistema di controllo costante della sussistenza degli atti di valutazione, vigendo un obbligo di “custodia” della documentazione caratteristica in capo ad un differente organo individuato dal regolamento (art. 12 DPR n. 213/02), in un ordinamento gerarchico sono attivabili i noti poteri di sostituzione ed avocazione, che coprirebbero il vuoto valutativo provvisoriamente prodotto dal reato, in analogia con quanto previsto dal comma 4 dell’art. 2 del cit. regolamento, che disciplina le ipotesi di “mancanza” del compilatore o dei revisori.
Se si ritiene che l’atto, pur illecito, non sia nullo per carenza di potere ma resti annullabile, costituendo una modalità di esecuzione del reato, allora saranno esperibili l’azione dinanzi al G.A. o i rimedi amministrativi per annullare l’atto secondo i canoni dei noti vizi amministrativi.
L’atto valutativo si potrebbe ritenere illegittimo ed improduttivo di effetti tanto se esso riguarda l’intero giudizio finale, quanto se l’illiceità riguarda un singolo giudizio interno, a meno che si ritenga difficile che ricorra un rapporto di armonico sviluppo logico e conseguenziale con il giudizio finale, il quale potrebbe non esserne inficiato. Ad ogni modo, l’accertamento definitivo del reato, sia se attuato con riferimento ad un giudizio interno sia con riferimento al giudizio finale, dovrebbe costituire ipotesi di vizio di legittimità “palese e manifesto”, come sogliono dire i giudici quando riconoscono l’illegittimità dell’atto valutativo.
In tali casi, pertanto, il danno patrimoniale diretto discende dalle spese sostenute in occasione del processo penale (esclusi le spese processuali e gli onorari, che sono riconosciuti nella sentenza come voce a sé stante) e per attivare il processo amministrativo di annullamento ovvero i rimedi amministrativi opportuni, salvo che la PA non provveda ad annullare l’atto in via di autotutela.
4. DANNO PATRIMONIALE IMMEDIATO, FUTURO E PERDITA DI ‘CHANCES’
Quale perdita economica diretta ed immediata può subire il valutato a fronte di un atto valutativo non conforme? Ovvero quale diretto ed immediato mancato guadagno?
Se si ritiene l’atto valutativo come atto puntuale rispondente soltanto all’interesse della PA di monitorare e controllare nel tempo l’attività e le qualità dei propri dipendenti[30], sembra difficile considerare l’esistenza di un possibile dp. Ma se si ritiene l’atto valutativo come strumento di gestione del personale in cui poter comparare l’interesse del singolo con gli obiettivi dell’organizzazione, come tende a riconoscere la dottrina specifica[31], allora il discorso può mutare.
Accogliendo la prima impostazione, infatti, la valutazione potrebbe non corrispondere, in sé considerata, ad un interesse patrimoniale immediato dell’interessato. Di qui il dubbio che, in caso di illegittimità, ne scaturisca un danno patrimoniale consequenziale ai sensi dell’art. 1223 CC: l’eventuale danno sarebbe diretto ma non immediato, con conseguente impossibilità di risarcimento.
La casistica si trae, principalmente, dall’art. 4 del DPR 213/02 e s.m.i.. Per comodità di studio, si può distinguere a seconda che si tratti di illecito commissivo (valutazione illegittima non tardiva) ovvero di illecito omissivo (mancata emanazione dell’atto valutativo).
Sia nel caso di illecito commissivo che omissivo, difficile appare configurare il risarcimento del danno patrimoniale diretto quando l’emanazione dell’atto di valutazione corrisponde ad un interesse organizzativo principale della PA (ad esempio, nei casi in cui la valutazione è fatta per compimento del periodo annuale non documentato: art. 4, comma 1, lett. f). Tuttavia si consideri che solo in apparenza l’interesse è proprio unicamente della PA, poiché l’interesse alla valutazione corretta sussiste comunque anche in capo al valutando, che, ad esempio in sede di avanzamento, viene valutato con riferimento ad ogni periodo pregresso di valutazione.
Quando invece la valutazione è prodromica ad un successivo procedimento amministrativo sia d’ufficio (è il caso in cui la valutazione è fatta in vista di una procedura per avanzamento) che su impulso di parte (è il caso della domanda per partecipare a concorsi), allora occorre distinguere.
Nel caso di illecito commissivo, occorre per lo più attendere il provvedimento finale per accertare se vi è stato danno eziologicamente collegato alla valutazione illegittima od omessa. Ciò pone essenzialmente il problema di una tempestiva impugnativa dell’atto di valutazione, scaduto il termine della quale non sarebbe possibile, alla luce della tesi favorevole alla cd. pregiudizialità amministrativa, richiedere il ristoro del danno. Inoltre, se l’atto successivo è emesso oltre il termine decadenziale di impugnativa dell’atto valutativo prodromico, l’interessato non potrebbe chiedere il danno derivante da un illegittima valutazione, sicché si riproporrebbe la problematica del ristoro del danno sotto il differente profilo dell’omissione o del ritardo dell’atto successivo.
Nel caso, invece, di mancata emissione dell’atto di valutazione da parte della PA (illecito omissivo: per il ritardo si veda infra), non occorre attendere l’emanazione del provvedimento successivo[32]. In tal caso, l’assenza di provvedimento valutativo è sicuramente fonte di danno, nella misura in cui esso costituisca un presupposto legale o comunque necessario del successivo provvedimento. Ne segue allora che, in tale ultima ipotesi, il problema non sarebbe afferente al nesso eziologico tra lesione e danno, ma sarebbe limitato all’accertamento relativo alla forma ed al momento in cui si manifesti il danno patrimoniale diretto: ciò, in particolare, al fine di comprendere che tipo di danno andrebbe risarcito in quanto l’atto valutativo è vincolato nei casi di emanazione, mentre è discrezionale quanto al contenuto nonché per stabilire se è intervenuta o meno la prescrizione del diritto al risarcimento ovvero, nell’ipotesi più radicale, per accertare, alla luce della contrastata tesi della cd. pregiudiziale amministrativa, se è ammissibile il ricorso avverso l’atto valutativo non promosso nel termine decadenziale prescritto ex lege.
Al contrario, da un’analisi della casistica sopra indicata, la mera omissione, disgiunta dalla considerazione che essa è collegata ad un successivo atto, potrebbe determinare, al più, un danno patrimoniale diretto ed immediato sotto forma di perdita di chances.
Tale danno però sembra configurabile nella sola ipotesi di esclusione dalla possibilità di partecipare ad un concorso[33] (art. 4, comma 1, lett. g) andrebbe considerata come una perdita di chances, intesa non come un danno futuro. Essa è danno attuale e consiste in una “probabilità perduta”[34] secondo un giudizio sintetico e statistico, di cui alcune Corti fissano anche la percentuale (in genere il 50%). Il danno futuro invece è un danno che deve ancora realizzarsi e che è prevedibile si realizzerà dopo che l’interessato farà valere la propria pretesa[35]. Dal punto di vista dell’onere della prova, le corti giudiziarie propendono, in tema di sussistenza del danno da perdita di chances, per un ventaglio di mezzi piuttosto ampio, che passa dalle presunzioni ad un mero calcolo di probabilità[36].
Secondo una diversa prospettiva e per ragioni di completezza di analisi, si osserva che la problematica potrebbe essere sussunta nell’alveo di un nuovo modello di responsabilità che talune voci in dottrina ed in giurisprudenza hanno collegato alla violazione di obblighi di protezione posti a capo dell’Amministrazione: la cd. responsabilità da contatto amministrativo qualificato[37]. Il contatto tra PA e singolo mediante procedimento importerebbe già di per sé obblighi di protezione (obblighi cd. senza controprestazione) in capo alla PA, la cui violazione determinerebbe un regime di onere della prova circa l’elemento psicologico simile a quello ex art. 1218CC (il danneggiato non deve provare la colpa del danneggiante, che invece deve dimostrare che il danno non è ad esso imputabile) e determinerebbe l’applicabilità di un termine prescrizionale decennale anziché decadenziale per l’impugnativa. Si tratterebbe pertanto di una responsabilità di tipo contrattuale.
In base a tale prospettiva, qualunque ipotesi di cui all’art. 4 del DPR n. 213/02 cit. potrebbe essere, in linea generale, fonte di danno da contatto qualificato.
Tuttavia, a parte la considerazione che la tesi della responsabilità da contatto sembra essere minoritaria, c’è da dire che la problematica si riproporrebbe – quantomeno – in relazione al tipo di danno individuabile e quindi risarcibile.
Il problema è che il fondamento di tali obblighi di controprestazione dovrebbe essere, a detta della dottrina che se ne è occupata, il dovere di correttezza di cui all’art. 1175. Tali doveri però sono individuabili solo dove esista un rapporto giuridico patrimoniale obbligatorio tra singolo e PA, secondo i caratteri di cui agli artt. 1173 e 1174 CC. Né la fonte potrebbe essere il dovere di buona fede di cui all’art. 1375 CC, che parimenti postula una relazione giuridica patrimoniale preesistente.
La fonte degli obblighi di protezione non potrebbe essere nemmeno il dovere del neminem laedere di cui all’art. 2043 CC, perché la norma è applicabile in presenza di danno e quindi, se lo fosse, prevarrebbe la prospettiva della responsabilità extracontrattuale che andrebbe ad assorbire quella discendente dalla violazione dei doveri di protezione.
Appare altresì difficile configurare, in date ipotesi, quale sia il concreto contenuto degli obblighi di protezione a cui l’Amministrazione è soggetta. Bisogna rammentare infatti che l’impostazione giurisprudenziale prevalente nega la (quasi) totalità delle regole partecipative alle operazioni di valutazione disconoscendo che siamo in presenza di un vero e proprio procedimento amministrativo e talora quasi individuando il giudizio di valutazione come un atto ad efficacia istantanea, il quale produce i suoi effetti non appena comunicato. Di conseguenza, non sarebbero configurabili obblighi diretti di protezione in favore del valutando, mancando appunto il “contatto qualificato”, ossia il procedimento. Inoltre la tesi prevalente in dottrina ed in giurisprudenza postula la preminenza dell’interesse organizzativo della PA con riguardo alla valutazione del dipendente militare, con la conseguenza che tali supposti obblighi di protezione sembrano essere dettati talora per esigenze di tutela di soggetti diversi dal valutando, ossia dell’organizzazione nel suo insieme e degli altri partecipi alle operazioni di valutazione, come accade nel caso di cambi del rapporto di dipendenza (lett. b, comma 1, art. 4 DPR 213/02): in tal caso, infatti, non vi è la necessità primaria di valutare il soggetto passivo del giudizio, ma circoscrivere il periodo di valutazione riferibile ai soggetti valutatori/revisori, rispetto al quale essi stessi sono valutabili e rispetto a cui hanno esercitato il potere gerarchico di loro competenza, assumendo obblighi ed esercitando la debita gestione del personale.
Per non dire che il termine del servizio del valutando (lett. a, comma 1, art. 4 cit.), che si traduca in una cessazione permanente da esso, ad es., in quanto conseguente ad un’ipotesi di dimissioni volontarie, pone il valutando medesimo fuori della linea di protezione con riguardo al momento successivo alla valutazione del soggetto, determinando non la nascita bensì la cessazione dei supposti obblighi di protezione[38].
Lesioni patrimonialmente valutabili non sono ipotizzabili anche nel caso (lett. d, comma1, art. 4 cit.) di termine di un corso di istruzione[39] o di eventuali periodi di esperimento e nel caso (lett. f) di compimento del periodo massimo di 12 mesi di servizio non documentato. Anche qui, infatti, sembra essere in presenza di casi nei quali prevale l’interesse pubblico organizzativo proprio della PA., contro il quale l’interesse individuale non avrebbe la forza di imporsi.
Si noti infine che il regolamento in tema di documentazione caratteristica non disciplina tutti i casi in cui un’atto di valutazione può essere utile per un successivo atto od un successivo procedimento.
La PA ha il potere di prevedere altre ipotesi in cui la valutazione è necessaria a certi scopi (ad es. il conseguimento di una data qualifica finale di giudizio è condicio sine qua non per un trasferimento a domanda all’estero[40], ove il trattamento economico è particolarmente favorevole). In tale ipotesi sembra di poter richiamare le medesime considerazioni sopra illustrate rispetto alla configurabilità di un danno patrimoniale diretto ed immediato.
5. DANNO NON PATRIMONIALE: IL DANNO BIOLOGICO
La figura del danno non patrimoniale è stata ben analizzata nel campo del diritto privato. Si possono trasporre le osservazioni elaborate in dottrina ed in giurisprudenza nel campo amministrativo, ma occorre tener conto della particolare dimensione autoritativa in cui esse vengono ad essere applicate.
Chi scrive ritiene che il danno non patrimoniale possa trovare una sua debita collocazione anche rispetto alla valutazione del personale militare. A prima vista, sembrerebbe da escludersi la configurabilità del danno biologico[41] in relazione alla illegittima, alla ritardata od alla mancata valutazione del militare. Senza voler ripercorrere la storia e la casisistica del danno biologico, appare oggi prevalente l’orientamento secondo il quale il danno biologico trova una sua collocazione non nel danno patrimoniale quanto in quello non patrimoniale.
La lesione del bene ‘salute’ può ricomprendere varie sfaccettature, discendenti da uno stato patologico fisico da accertarsi con perizia medica. Il danno biologico trova infatti il suo fondamento nel diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost., che viene solitamente classificato dalle Corti ed in dottrina come bene costituzionale primario, mentre a livello di legislazione ordinaria la sua fonte normativa è costituita dall’art. 2059 CC anziché in quella generale costituita dall’art. 2043 CC.
Così impostato il problema, nulla vieta che l’illegittima valutazione (ossia un illecito commissivo) possa comportare una lesione del bene salute.
Attribuire un giudizio illegittimo potrebbe in qualche maniera minare la ‘salute’ del valutando (ad es. determinando forme di depressione che involgono una riduzione della capacità lavorativa generica, ossia dell’attitudine dell’uomo al lavoro in generale, ovvero una riduzione dell’efficienza psicofisica, ossia una ridotta possibilità di utilizzare il proprio corpo a seguito dell’emersione di una sindrome patologica). Si pensi, tra l’altro, che il rapporto valutativo è collocato nell’ambito di una organizzazione gerarchica dove un giudizio negativo del proprio superiore può avere un peso ben diverso da quello espresso nell’ambito del rapporto di impiego privatizzato ovvero in quello pubblico speciale non militare.
A rigore, tuttavia, tale tipo di danno non sarebbe individuabile laddove il valutatore abbia espresso un giudizio interno semplicemente barrando una casella, corrispondente alle possibili e tassative opzioni di valutazione poste da regolamento. In tal caso, infatti, mancherebbe qualsivoglia lesione, perché quelle opzioni sono state ritenute legittime a monte con apposito atto normativo, le cui scelte di merito risultano insindacabili. Laddove invece il valutatore esprima un proprio giudizio senza avvalersi di un testo già predisposto unilateralmente in sede normativa (ad es. nel giudizio finale), allora sembra vi siano i margini per configurare astrattamente il danno in questione.
Nel corso degli ultimi anni il danno biologico è stato accostato ad altre figure di danno sovente viste come esplicitazioni dello stesso (così, ad es. il danno alle attività sociali e ricreative[42]), come si argomenta anche dalla classica definizione giurisprudenziale già riportata. Alla luce della ricostruzione operata dalla giurisprudenza, tuttavia, il danno biologico non andrebbe confuso con il danno che colpisce altri interessi diversi dalla salute e tutelati a livello costituzionale.
La lesione non affonda nelle sabbie dell’irrisarcibilità a fronte di un atto autoritativo, stante il fondamento costituzionale del diritto leso che non degrada in interesse legittimo.
Il problema maggiore comunque è dato dalla tematica relativa all’onere della prova della sussistenza del danno, soprattutto con riguardo all’accertamento del rapporto di causalità. Davanti al giudice occorrerà articolare un percorso dimostrativo particolarmente efficace su come l’illegittima valutazione abbia violato il bene salute del ricorrente. A tal fine, saranno utili le certificazioni mediche, che, mediante il meccanismo delle presunzioni, potrebbero indurre il giudice a riconoscere il nesso eziologico e quindi a risarcire il danno. C’è da dire tuttavia che la giurisprudenza tende a considerare che l’accertamento della lesione del bene salute costituisca un indiretto riconoscimento del danno, perché ogni lesione della salute è di per sé già dannosa.
Una volta accertata la sussistenza del danno biologico, la sua liquidazione[43], ossia la determinazione della misura del risarcimento, può essere effettuata con ricorso al metodo equitativo (artt. 1226 e 2056 CC), tenendo conto delle circostanze del caso concreto e specificamente, quali elementi di riferimento della gravità delle lesioni, degli eventuali postumi permanenti, dell’età, dell’attività espletata, delle condizioni sociali e familiari del danneggiato.
Più improbabile invece la configurabilità del danno biologico in caso di illecito omissivo (compreso il ritardo nella valutazione), stante la mancanza di un atto in grado di incidere (come accade con la positiva formulazione di giudizi negativi) sull’integrità psicofisica del valutando. Qui, in altri termini, o si mette in dubbio la stessa esistenza della lesione ovvero, secondo un parametro più specifico e da accertare caso per caso, viene a mancare il rapporto di causalità. Sono questi, per lo più, i casi concernenti le ipotesi di “termine del servizio del valutando”, di cui all’art. 4, comma 1, lett. a, del DPR n. 213/02.
La tardività o l’omissione del provvedimento valutativo, invece, potrebbero avere una loro maggior rilevanza ai fini risarcitori nei casi in cui esso costituisca il presupposto necessario, tipizzato in sede normativa o in sede amministrativa (ad es., con un apposito decreto ministeriale), di successivi provvedimenti. Argomentando dal citato art. 4, comma 1, lett.b, sembrano questi taluni dei casi tipizzati (e non tutti), relativi alla “variazione del rapporto di dipendenza”, quali l’inclusione nelle aliquote di avanzamento e la partecipazione a concorsi.
In verità, la questione si pone in termini di prova. Ammettendo che siamo in presenza di valutazioni del tutto tecnico discrezionali della PA e che la controversia è sottoposta alle regole della giurisdizione esclusiva, sarebbe in linea generale possibile che il giudice sia confortato da una consulenza tecnica d’ufficio, che potrebbe fornire al giudice quelle certezze tecniche necessarie affinché lo stesso riconosca il danno anche in ipotesi di illecito omissivo.
Non constano precedenti giurisprudenziali specifici, benché se ne rinvengano in ambito di lavoro professionale non speciale, la cui ratio sembra identica con la situazione del militare. La dottrina che si è occupata della tematica della responsabilità della PA militare, dal canto suo non ha nemmeno ventilato l’ipotesi di un danno biologico da valutazione illegittima, omessa o ritardata, ed il suo silenzio, probabilmente, deve essere interpretato come una voluntas negativa della configurabilità di un danno così prodotto.
6. IL DANNO NON PATRIMONIALE SEGUE: IL DANNO MORALE SUBIETTIVO
Figura di danno ancora incerta, essa si differenzia dal danno prettamente fisico, eventualmente risarcibile per danno biologico, poiché la lesione fisica lascia sempre una traccia tangibile, mentre la lesione psichica può cagionare manifestazioni di carattere nervoso e psichico che non sempre si ripercuotono sul corpo del soggetto.
Occorrerà quindi una analisi di differente tipologia sul soggetto affetto da patologia di carattere psichico al fine di accertare se e in quale misura tali manifestazioni di comportamento costituiscano menomazione nel senso tecnico-giuridico del termine, ossia nella sua accezione medico legale, per poi risalire dalla menomazione alla lesione psichica ed al fatto illecito.Certamente dovrà essere preso in considerazione il fattore effetto, ovvero la ripercussione che tale danno sta avendo sulla vita del soggetto che si pretende aver subito la lesione.
La menomazione psichica si traduce nella riduzione, temporanea o permanente, di una o più funzioni psichiche della persona, la quale, incidendo sul valore uomo globalmente inteso, impedisce alla vittima di attendere in tutto o in parte alle sue ordinarie occupazioni di vita.
Arduo è individuare il nesso causale tra danno psichico e fatto lesivo.
La giurisprudenza civile si è occupata sporadicamente di questioni inerenti il danno psichico[44]. Nel caso del pubblico impiego non privatizzato non sembrano in verità nemmeno configurabili quelle ipotesi di dnp che invece trovano applicazionein altre sedi (cfr. ad es. il richiamo alla tutela della “personalità morale” del lavoratore nell’impresa: art. 2087CC). In verità la giurisprudenza civilistica ha cominciato ad intravedere ipotesi di dnp anche in caso di responsabilità contrattuale non derivante da reato, soprattutto con riferimento alle lesioni del bene della salute[45].
Il danno morale sta con fatica fuoriuscendo da una tralaticia relegazione nell’alveo delle conseguenze del fatto illecito penale ai sensi dell’art. 185 cp.
Sotto tale profilo, va considerata l’ipotesi in cui l’atto di valutazione sia ad un tempo illecito e illegittimo. Si è visto che l’atto valutativo illecito difficilmente produce un danno patrimoniale diretto, in specie nei casi in cui non vi sono ripercussioni su atti o procedimenti diversi, da cui l’atto valutativo risulti essere disgiunto.
Qui ora si valuta che da un atto valutativo illecito discenda un danno non patrimoniale. Anche in tal caso, però, il danno non discende dalla violazione di un interesse legittimo, ma da un’offesa a beni o a valori penalmente tutelati, i quali solitamente si atteggiano a diritti soggettivi (come il bene del decoro o dell’onore), anche se è difficile ritenere che non ricorrano, nel medesimo contesto, aspetti di illegittimità dell’atto. Inoltre, mentre tali valutazioni sono sostenibili in relazione all’illecito commissivo, l’illiceità penale difficilmente sembra poter coincidere con l’omissione dell’atto amministrativo, che il nostro codice penale riserva alle sole ipotesi di cui all’art. 328 cp., con la conseguenza che l’omissione dell’atto di valutazione non configura di per sé un reato, mentre potrebbe rilevare ad altri fini (ad es. a quelli disciplinari). La giurisprudenza amministrativa, tra l’altro, tende generalmente a considerare ordinatori i termini procedimentali, salvo quelli relativi ai procedimenti sanzionatori e d’urgenza oppure salvo un’apposita previsione di legge.
Si potrebbe allora separare l’ipotesi di un atto valutativo illecito (es. falso in atto pubblico, ingiuria), produttivo del danno morale, da quella in cui l’atto valutativo non sia penalmente rilevante ma, comunque, illegittimo. Se poi volessimo ammettere la tesi che nega valore alla cd. pregiudiziale amministrativa, dovremmo ammettere che ai fini del ristoro del danno morale non sarebbe necessario neanche fare annullare previamente l’atto valutativo.
Attualmente si registrano aperture verso il riconoscimento della possibilità per l’interessato, nell’ambito della violazione dei diritti soggettivi, di agire in responsabilità per danno morale, indipendentemente dal fatto che la violazione integri un fatto di reato e che vi sia una espressa volontà di legge che legittimi la reintegrazione. Tale possibilità, peraltro, è da taluni estesa non solo alle ipotesi di danni extracontrattuali, ma altresì ai casi di responsabilità ex contractu.
Partendo dalla tesi dottrinaria che sembra trovare maggior credito, secondo cui il diritto soggettivo e l’interesse legittimo si differenziano solo per aspetti quantitativi e di tipologia di tutele apprestate, potrebbe ritenersi che sia configurabile un danno morale sia in relazione alla violazione di un diritto soggettivo che di un interesse legittimo. Tale impostazione sembra coerente anche con una lettura comunitariamente orientata, ai sensi dell’art. 117 comma 1 della Cost., considerando che la Corte di Giustizia ammette forme di risarcimento delle lesioni alle situazioni giuridiche soggettive tutelate, a prescindere dalla forma di diritto soggettivo o di interesse legittimo eventualmente rivestita.
Più in particolare il danno morale sembra – in via generale – eziologicamente collegato ad un illecito commissivo, data la maggior incisività di un giudizio negativo espresso secondo l’id quod plerumque accidit, piuttosto che ad un illecito omissivo ovvero ad un danno da ritardo. Tuttavia, con riguardo a quest’ultima tipologia di reato, si potrebbe profilare un danno da ritardo laddove una eccessiva durata del tempo di mancata emanazione possa in qualche modo incidere sulla psiche del valutando, a condizione di non cadere nelle maglie della duplicazione dei danni, quantunque mascherati da nomina iuris diversi, come il danno esistenziale o, più realisticamente, come il danno biologico.
Si tratterebbe pertanto di impostare un corretto onus probandi al fine di far accertare l’esistenza del danno morale derivante da atto valutativo illegittimo e non penalmente rilevante. A tal riguardo si potrebbe aggiungere che sia più agevole l’uso delle presunzioni rispetto all’illecito commissivo, mentre nell’ipotesi di illecito omissivo la prova dovrebbe essere corroborata da una maggiore attendibilità.
7. IL DANNO NON PATRIMONIALE SEGUE: IL DANNO ESISTENZIALE
Il danno esistenziale consiste in una lesione diversa sia dal danno morale che dal danno biologico[46]. Più esattamente la giurisprudenza civilistica tende a considerarlo un ampia categoria ricompresa nell’ambito del danno non patrimoniale e costituita da numerose ipotesi di danno aredittuale. Ciò che lo caratterizza, infatti, è il suo riferimento ad interessi della persona privi di un valore economico di scambio, quali l’interesse alla vita sociale e di relazione, l’interesse al mantenimento del nucleo familiare e del rapporto parentale, inteso come reciproco sostegno ed appoggio morale ed affettivo, l’interesse allo svolgimento di attività ricreative, sportive, culturali, artistiche, l’interesse ad esplicarsi e a realizzarsi nel mondo del lavoro, l’interesse ad un processo rapido e giusto, ecc.
Insomma, si tratta dell’elaborazione di una forma di insofferenza, come sostiene la dottrina, verso una patrimonializzazione derivante da un mutato orientamento sociale e culturale maggiormente interessato agli sviluppi personali della vita di relazione.
Se fino a qualche anno fa sembrava impossibile condannare la PA al risarcimento del danno esistenziale da attività amministrativa illegittima, oggi non lo è più, soprattutto alla luce della nota sentenza della Corte Cost. n. 204/04, secondo cui la tutela del singolo non sarebbe piena ed effettiva – come impone l’art. 24 Cost. – se il GA non fosse munito di adeguati poteri per risarcire il danno.
Dato per assunta ed acquisita la figura di danno e. anche nel panorama della giurisprudenza amministrativa e civile, il problema è capire se esso è configurabile (e sotto quale specifica forma) in quanto derivante da illegittima, ritardata od omessa valutazione del militare.
Una dottrina specifica[47] ha insistito sugli aspetti esistenziali di talune espressioni della vita del singolo privato chiamato alle armi, sostenendo che l’illegittima chiamata alle armi, la cui illegittimità derivi da erronee e prodromiche valutazioni tecnico-discrezionali di tipo medico relative alla formazione del procedimento di arruolamento di leva, comporta un danno di tipo esistenziale, in quanto violativa del cd. diritto al tempo di vita dell’arruolando. Tale situazione giuridica è tutelata – continua la detta dottrina – “a livello generale” dagli artt. 2 e 3 Cost.
Si tratterebbe di una situazione giuridica prodromica e indipendente da ulteriori, eventuali lesioni ad interessi patrimoniali biologici dell’arruolato: la lesione del diritto al tempo di vita costituisce infatti il prius di ogni altro danno. In particolare, la citata dottrina, richiamando anche Corte Cost. n. 41/90, sostiene che l’assolvimento degli obblighi di leva, attuato in base ad un arruolamento illegittimo, produca effetti negativi sull’esistenza del singolo, incidenti sulla “ricerca del lavoro, nella prosecuzione di studi postuniversitari, nell’avvio di attività professionali od autonome, nei rapporti familiari”[48].
Tale impostazione non sembra distinguere tra omissività e commissività dell’azione lesiva, quantunque il riferimento ad erronee valutazioni paia giustificare il maggior rilievo attributo alla commissività dell’illecito. Inoltre sembra avallare l’impostazione che ritiene non necessaria una espressa previsione di legge che imponga il risarcimento del dnp., essendo sufficiente il riconoscimento della Costituzione circa il carattere fondamentale del diritto leso.
Si registra anche un filone giurisprudenziale interpretativo, soprattutto nelle aule dei giudici di pace, che consente di dare ingresso al risarcimento dei cd. danni microesistenziali o danni esistenziali bagatellari[49], derivanti in particolare da stati di ansia, perdita di serenità della persona, chances lavorative perdute, soffocamento e affaticamento, tachicardia, cardiopalma, stato di disagio, ecc., cagionati – fuori delle ipotesi di forza maggiore o stato di necessità o del fatto di terzi (es. la responsabilità dei vettori), che ne impedirebbero il risarcimento – da ritardi dei mezzi pubblici di trasporto o dalla illegittima condotta dei gestori telefonici.
Seguendo le indicazioni generali e specifiche sopra riportate non appare facile individuare un danno esistenziale di cui la PA militare sia responsabile nell’esercizio del potere di valutazione. La difficoltà deriva dalla individuazione della specifica lesione di un aspetto della vita del singolo valutando nell’ambito delle sue normali occupazioni. La stessa dottrina specifica già citata non esemplifica affatto in materia di valutazione del militare né tantomeno, per quanto consti, la giurisprudenza ha avuto modo di pronunciarsi espressamente sull’argomento.
Un’ipotesi di danno esistenziale potrebbe essere quella derivante da una sorta di stress psicologico causato da un illecito commissivo (illegittima valutazione), che sia in grado di incidere sulla serenità dei rapporti del singolo valutando in seno alla propria famiglia ed alle relazioni socio-affettive ovvero che incida sui rapporti dello stesso nell’ambito lavorativo.
Con riguardo a tale ipotesi, il ritardo o l’omessa valutazione sembrano, al contrario, non avere la stessa forza lesiva dell’illegittima valutazione. Come per altri tipo di danno, assente o quantomeno oggetto di una difficile prova sembra essere il rapporto di causalità tra lesione e danno, che avrebbe una portata così indiretta e remota da far dubitare – almeno – sulla autonomia della forza lesiva dell’azione tardiva od omessa da parte della PA militare.
Non pare che la condizione di militare possa essere, di per sé, ostativa al risarcimento dei danni causati agli aspetti esistenziali della vita del militare : l’art. 3 della legge 382/78 (recante “norme di principio sulla disciplina militare”), infatti, consente, per il militare, la deminutio dei diritti costituzionalmente tutelati, solo se ciò è necessario per assolvere i compiti istituzionali.
Così impostato, però, il danno esistenziale si configura come danno-conseguenza e non come danno-evento, nel senso che, in primo luogo, non sarebbe derivante direttamente da una violazione specifica di un diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione (con una ricostruzione semantica analoga a quella del danno biologico), bensì da ogni comportamento illegittimo che abbia la capacità di incidere sulla piena realizzazione della sfera individuale. Quindi sarebbe un danno-conseguenza derivante dalla lesione dell’integrità fisico-psicologica(danno biologico). D’altro canto si ammette, in generale, la dimensione plurioffensiva dell’illecito amministrativo.
Una giurisprudenza civile[50] ha negato l’esistenza del danno esistenziale, sulla base di quattro argomenti confutati dalla dottrina. In particolare la detta giurisprudenza ha affermato che se è un danno evento esso è imprevedibile e quindi non è attribuibile all’offensore a titolo di colpa; se invece è un danno conseguenza deve presupporre un danno evento incidente sulla salute, sul patrimonio o sul morale e, quindi, essere regolato dalle regole risarcitorie poste dalla legge o elaborate dalla giurisprudenza per tali tre tipi di danno.
Nel primo caso (danno evento) il fondamento costituzionale sarebbe quello indicato dagli artt. 2 e 3 Cost., cui si accompagnerebbe la coeva violazione dell’art. 2043 cc; nel secondo caso (danno conseguenza) il fondamento giuridico sarebbe solo l’art. 2043 cc nella prospettiva di una responsabilità di tipo extracontrattuale a carico della PA militare ovvero l’art. 1218, se si aderisce alla tesi della responsabilità contrattuale della PA.
In secondo luogo, altre differenze si registrerebbero, in particolare, sul piano probatorio. In generale, data l’immaterialità dei beni o valori colpiti, sembra impiegabile lo strumento della prova per presunzioni sulla scorta di valutazioni prognostiche anche basate su fatti notori e massime di esperienza (cd. prove logiche, ampiamente ammesse in giurisprudenza[51]). Tale strumento serve a provare l’esistenza del danno, una volta provato il quale occorre calcolarne la misura. Ciò può avvenire solo in via equitativa.
8. DANNO PATRIMONIALE DA RITARDO NELLA VALUTAZIONE DEL MILITARE
La citata legge quadro del 1962 ha deferito al potere regolamentare dell’organo competente la determinazione concernente “gli elementi in base ai quali compilarli, i periodi di tempo e gli altri casi in cui vanno compilati” (art. 5).
La legge non fissa un termine per l’emanazione dell’atto valutativo, ma i periodi di tempo a cui la valutazione va riferita. Tale caso esula dalla tematica del ritardo, che attiene più esattamente alla conclusione del procedimento amministrativo, e, quindi, all’emanazione ed alla comunicazione dell’atto valutativo. Il riferimento normativo primario, pertanto, è il regolamento DMD n. 690 del 8 agosto 1996[52], il cui art. 8 recita che “il termine iniziale[del procedimento] decorre dalla data in cui il competente organo o ufficio dell’Amministrazione…, per gli atti vincolati quanto all’emanazione, abbia conoscenza del fatto o della situazione da cui sorge l’obbligo di provvedere o abbia accertato la sussistenza dei presupposti ai quali la legge subordina la loro emanazione”. Ma ulteriore riferimento normativo necessario è l’art. 4 del DPR 213/02, da cui si desume la necessità di rispettare termini che si diversificano in relazione alla casistica ivi riportata.
Per quanto interessa in tale sede, si deve osservare la relativa novità della figura del danno da ritardo nel procedimento amministrativo. Il concetto di ritardo peraltro non va identificato con quello di omissione. Mentre il primo presuppone infatti che il potere della PA non si sia ancora consumato, il secondo invece prelude ad una impossibilità, da parte della PA, di emanare il provvedimento definitivo. I due concetti si sovrappongono solo per un iniziale segmento temporale, diversificandosi poi nel momento finale.
Il ritardo può essere tanto iniziale, con riferimento cioè all’inizio del procedimento, quanto finale, con riferimento alla conclusione del procedimento. Secondo chi scrive, non basta, però, accertare se il termine è dilatorio o perentorio per stabilire se vi è stato ritardo. L’interprete deve piuttosto appurare se il termine abbia natura essenziale o meno e se, una volta violato, leda un interesse patrimoniale ovvero non patrimoniale del militare. La mera violazione di un termine, infatti, non comporta necessariamente un danno risarcibile[53].
La tematica del danno da ritardo sta affascinando le aule giudiziarie del nostro Paese. Il Consiglio di Stato[54] ha di recente sottoposto all’attenzione della Adunanza plenaria la problematica, sostenendo che, a seguito della nota sentenza 2004/2004 della Corte Costituzionale, la questione vada posta in termini diversi da come in passato è stata affrontata.
Il CdS parte dall’impostazione che l’omesso esercizio del potere pubblico, anche nella forma (iniziale) del ritardo, non può essere considerato un mero comportamento, perché, ai sensi della succitata sentenza, essendo svincolato dal potere autoritativo, non ricadrebbe nella cognizione del giudice amministrativo. Al GA spetta la cognizione anche del mero ritardo, se correlato ad interessi strumentali o procedimentali che dir si voglia.
Affermata la giurisdizione del G.A., il CdS passa ad analizzare se “l’interesse procedimentale al rispetto dei tempi del procedimento possa ricevere”, oltreché tutela processuale (ad es. con il rito del silenzio o in sede cautelare), “una tutela risarcitoria per equivalente”. A tale scopo ipotizza quattro casi di danno:
· il mero ritardo della PA ad emanare l’atto (“il bene della vita”) a cui il ricorrente ha titolo;
· il ritardo, che, dopo l’annullamento dell’atto per motivi formali, si impiega fino al successivo rilascio dell’atto a cui il ricorrente ha titolo;
· l’omessa emanazione del provvedimento;
· l’emanazione ritardata di un provvedimento di diniego.
Nei primi due casi, dice il CdS, non occorre la previa diffida. L’inerzia che si protrae oltre i termini fissati già per legge o per regolamento rendono già illegittima l’inerzia. Non occorrerebbe, pertanto, in tali due ipotesi, far dichiarare dal giudice l’illegittimità del silenzio per conseguire il risarcimento del danno per equivalente[55].
Quanto alle due restanti ipotesi, la giurisprudenza, prosegue il CdS nella sua disamina, si divide: è risarcibile il danno indipendentemente dalla spettanza del bene della vita?
Secondo un orientamento[56], il nuovo modello di azione amministrativa, quale risulta dalla legge 241/90, rende rilevanti ed autonome le posizioni soggettive di natura strumentale rispetto alla spettanza del bene della vita. L’instaurazione di un procedimento amministrativo va fatta in un’ottica di correttezza da parte della PA, correttezza che è idonea a generare un affidamento del privato (cd. responsabilità da contatto qualificato). Questi ha titolo ad una risposta certa e tempestiva, a prescindere dai contenuti della medesima.
Esisterebbero, in altre parole, degli interessi procedimentali, che non si identificano con gli interessi pretensivi ma che sono operanti accanto ad essi. La lesione di tali interessi genererebbe responsabilità amministrativa, anche se il provvedimento amministrativo non è emanato.
Come già detto, tale impostazione implica una condotta da parte della PA violativa dei doveri di correttezza sanciti dal codice civile (art. 1175 CC), sicché dovrebbe richiedere una relazione giuridica patrimoniale preesistente. Nel caso di danno da ritardo, però, è dubbio che sussista una obbligazione giuridica di base. Semmai il debito potrebbe nascere da una sentenza che, accertata l’illegittimità dell’inerzia, ordini alla PA di provvedere su istanza del privato. Contro tale tesi milita però la considerazione che non sono rintracciabili nel supposto debito i tratti caratteristici prescritti dagli artt. 1173 e 1174 CC.
Così la tesi prevalente. Si potrebbe obiettare, tuttavia, che tali argomentazioni hanno valore con riferimento all’ipotesi in cui il singolo sia un privato cittadino, che in effetti non ha alcun tipo di relazione con la PA. Nel caso di specie, invece, il militare è in organico alla stessa PA che lo giudica e dunque esiste un rapporto giuridico tra i due, rappresentato dal rapporto di pubblico impiego.
Secondo un altro orientamento[57], il danno da ritardo è risarcibile solo se il privato abbia titolo all’emanazione del provvedimento favorevole. E per alcuni, occorre che tale ritardo sia accertato con il procedimento del silenzio; per altri, il GA adito dovrebbe emettere un giudizio prognostico, in termini probabilistici, sulla spettanza del bene della vita ai soli fini del risarcimento.
Il CdS critica quella impostazione che richiede di azionare il rito del silenzio per farne accertare l’illegittimità e chiedere, contestualmente, il risarcimento del danno, poiché, afferma, tale rito ha uno scopo differente: serve ad ottenere il provvedimento finale e non a fini risarcitori.
L’Adunanza plenaria ha risposto al quesito formulato dal CdS[58], confermando che il ritardo non costituisce comportamento sottratto, per ciò solo, alla cognizione del giudice amministrativo ed affermando che il danno da ritardo sussiste solo se spetta il bene della vita, solamente cioè se si ha titolo all’emanazione dell’atto[59].
A giudizio di chi scrive, nella materia della valutazione del militare potrebbero configurarsi le prime tre ipotesi. L’ultima ipotesi sembrerebbe da escludersi.
Il problema della spettanza del bene della vita, infatti, nel caso della valutazione del militare, non dovrebbe porsi poiché esiste un regolamento che impone alla PA di provvedere in presenza di determinate di situazioni di fatto tassativamente indicate: detto altrimenti, il bene della vita spetta. Tuttavia la singolarità, in tema di valutazione del militare, sta nel fatto che il giudizio del valutatore/revisore è vincolato quanto ai casi di emanazione, ma è tecnico-discrezionale nel contenuto e quindi, se spetta il bene della vita, non è detto che esso spetti secondo il petitum dell’interessato.
Accogliendo le suddette risultanze giurisprudenziali, pertanto, l’interesse legittimo procedimentale del valutando potrebbe trovare ristoro se si accoglie la tesi del mero ritardo, ma verosimilmente sottoforma interesse negativo, perché, con riguardo all’interesse positivo, sarebbe ardua la configurabilità e la quantificazione del danno. Inoltre, occorrerà comunque dimostrare gli altri elementi del danno, eventualmente anche a mezzo di presunzioni.
L’interesse legittimo sostanziale, invece, potrebbe essere leso da una omissione non definitiva legata ai casi in cui l’atto di valutazione costituisca il necessario presupposto di un successivo procedimento o atto[60], mentre nessun risarcimento – salvo le ventilate eccezioni già supra illustrate – dovrebbe spettare laddove l’atto di valutazione non abbia alcun valore prodromico o strumentale né influisca negativamente sulla sfera giuridica dell’interessato secondo un rapporto di causalità normale ed adeguato.
Quindi sarebbe forse più corretto impostare la questione secondo i canoni del rapporto di causalità adeguato tra danno e lesione: in difetto del nesso, è inammissibile la domanda di ristoro dei danni lamentati.
Peraltro, la giurisprudenza amministrativa[61] è del parere che in tema di documentazione caratteristica manchi, allo stato, una norma che fissi termini perentori per l’emanazione del relativo giudizio. Di conseguenza, l’atto di valutazione emanato e notificato oltre i periodi cui il giudizio si riferisce, non configura neanche un caso di nullità: il che porta a semplificare ulteriormente la problematica del ritardo.
9. LA REINTEGRAZIONE IN FORMA SPECIFICA NELLA VALUTAZIONE DEL MILITARE
L’art. 35, comma 1, del dlvo n. 80/98 e s.m.i. prevede che il GA, nell’ambito della propria giurisdizione, dispone anche attraverso la reintegrazione in forma specifica il risarcimento del danno ingiusto. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 7, comma 3, legge n. 1034/71, come sostituito dall’art. 35, comma 4, del dlvo n. 80/98 alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 7 della legge n. 205/00. Le norme attestano come il rimedio in questione sia utilizzabile nelle tre tipologie di giurisdizione amministrativa conosciute (di merito, di legittimità e, per quello che interessa in tale sede, esclusiva).
Il r. in f.s. consiste nella rimozione delle conseguenze derivanti dalla lesione mediante la produzione di una situazione materiale corrispondente (ma non eguale) a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno. Tale misura non ripristina la situazione precedente al fatto lesivo, ma quella che si sarebbe avuta in assenza dell’illecito. Mancando specificazioni di legge, il richiamo è alle regole civilistiche (art. 2058 cc) anche nel campo del diritto amministrativo.
La scelta di avvalersene o meno spetta al creditore, cioè al ricorrente.
In dottrina[62], alcuni ritengono che essa sia un azione di adempimento, cioè di condanna ad un facere anche consistente nell’emanazione di atti amministrativi, purché – aggiungono taluni – si tratti di atti vincolati e non discrezionali. La tesi si ritiene essere corroborata anche dall’art. 14 del dlvo n. 190 del 20 agosto 2002, relativo alla realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici e di interesse nazionale. Quando il GA sospenda o annulli l’atto di aggiudicazione di gare pertinenti alla materia ed il relativo contratto sia stato già stipulato, la detta norma impedisce la risoluzione del successivo contratto già stipulato ed ammette solo il risarcimento per equivalente escludendo la reintegra in f.s.. Quindi, secondo tale tesi, il legislatore ha qui costruito la reintegrazione come adempimento, facendone un effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione: perciò il legislatore la esclude.
Una tesi cd. civilistica critica tali due impostazioni, perché mentre l’azione di adempimento mira a far adempiere al debitore quella stessa obbligazione oggetto di inadempimento (non hai costruito il muro, perciò devi costruirlo), il r. in f.s. impone una prestazione diversa in sostituzione di quella originaria (devi abbattere il muro che hai indebitamente costruito o mi devi dare i soldi necessari per sostenere le spese di abbattimento: danno emergente). Del resto, dove il Legislatore voleva, ha espressamente previsto i casi di condanna della PA ad uno specifico facere (es. art. 25 l. 241/90: “il giudice ordina l’esibizione dei documenti richiesti…”).
La r. in f. s. quindi non va confusa con l’azione di adempimento, che è diretta ad ottenere la condanna del debitore ad adempiere l’obbligazione dovuta e non va confusa nemmeno con l’esecuzione in forma specifica, che attua coercitivamente un diritto e non serve a rimuovere il pregiudizio verificatosi. Per restare all’esempio addotto dalla dottrina abbattere un muro che non si aveva il diritto di elevare è oggetto di richiesta di r. in f.s., mentre è esecuzione in forma specifica, soggetta alle relative regole, l’azione esecutiva diretta a far costruire il muro che il debitore aveva l’obbligo giuridico di costruire.
Né decisivo[63] è l’argomento in favore dell’azione di adempimento, tratto dal citato art. 14 del dlvo n. 190/02: qui la reintegrazione è intesa erroneamente, per improprietà legislativa, un effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, poiché – per sua natura e per come è ricostruita dall’art. 2058 CC – essa non consente di ottenere la medesima prestazione inadempiuta, ma una differente prestazione a titolo di riparazione.
In dottrina vi è anche chi[64] preferisce separare un indirizzo pubblicistico, secondo cui la r. sarebbe implicita in ogni richiesta di annullamento dell’atto mediante il rinnovo legittimo dell’atto annullato, ed un indirizzo civilistico (distinguendo ulteriormente tra istituto di carattere processuale – con conseguente valutazione dell’eccessiva onerosità non con riferimento alla persona del debitore ma al pubblico interesse ed alla collettività -, ed istituto sostanziale civilistico riparatorio, come ricostruito dal citato art. 2058cc).
La tesi civilistica, inoltre, annota che l’obbligo della PA di provvedere in un dato modo è già un effetto del giudicato amministrativo e precisamente del cd. effetto conformativo. Se la PA non adempie al disposto del giudice o non lo osservi in toto, il rimedio consiste nel giudizio di ottemperanza. Insomma, se la PA non adempie, l’attuazione del suo obbligo non avviene con il r. in f.s., ma con mezzi di adempimento e di esecuzione.
Si aggiunga che la r. in f.s. richiede, ai fini della sua applicazione, una verifica di non eccessiva onerosità, la quale invece non è richiesta per l’adempimento o l’esecuzione. Il privato avrebbe una tutela diminuita se si accogliessero le due tesi in tema di adempimento: il cd effetto conformativo della res iudicata per la PA (il cui unico limite è l’impossibilità sopravvenuta) sarebbe condizionato senza ragione alla verifica di non eccessiva onerosità di cui all’art. 2058 cc, oltreché all’accertamento della colpa della PA.
La tutela del privato, inoltre, diventa effettiva solo se possieda il requisito della eseguibilità. Non basta guardare al dispositivo della sentenza per stabilire se la tutela è effettivamente conseguibile ma occorre che la sentenza possa essere concretamente portata a completa esecuzione. Ciò può avvenire solo con il giudizio di ottemperanza, poiché, nel caso della r. in f.s., questa può trovare applicazione solo per gli interessi di tipo oppositivo, ove all’attività giuridica segua un’attività materiale.
Nel caso di interessi pretensivi non è configurabile la r. in f.s., poiché il silenzio, il ritardo, o l’illegittimo diniego incidono sempre su una situazione che resta insoddisfatta, ragion per cui nulla può essere reintegrato. Semmai, rispetto agli interessi pretensivi, si può applicare – parlando in generale – l’esecuzione in forma specifica, ma solo per i casi di attività vincolata e non per quelli da attività discrezionale. La r. in f.s. con riguardo agli interessi pretensivi risulta ammissibile solo aderendo alla tesi dell’azione di adempimento che ammette che, anche attraverso tale strumento, possa essere impartito un ordine alla PA.
In passato il CdS si era orientato per ritenere la r. in f.s. una forma di tutela parallela all’annullamento[65], sostenendo che la domanda di annullamento contiene in sé l’implicita domanda di risarcimento in f.s. che induce la PA ad emanare un atto favorevole al ricorrente. La giurisprudenza amministrativa propende ora, in maggioranza, per la tesi civilistica[66], ritenendo cioè che la r. in f.s. sia una alternativa risarcitoria. Anzi il CdS ha precisato[67] che lo scopo della r. in f.s. non è quello di sostituire la tutela demolitoria o conformativa discendente dal giudicato di annullamento, ma di integrare tale tutela in modo che la r. in f.s. svolge un ruolo identico a quello del giudizio di ottemperanza in caso di interesse oppositivo.
Facendo applicazione di tali criteri alla materia in esame, si può sostenere che lo spazio applicativo per la r. in f.s. alla valutazione illegittima, ritardata od omessa del militare è assai improbabile. Qui se ne discute in quanto la tesi prevalente[68] ammette la r. in f.s. solo con riferimento agli interessi di tipo oppositivo, che sono agitabili in merito alla valutazione del militare, mentre la esclude o la limita alquanto per gli interessi di tipo pretensivo.
Se si accede alla tesi che fa della r. in f.s. un’azione di adempimento, essa non può essere applicata alle illegittime valutazioni (illecito commissivo), che, avendo carattere discrezionale, non consentono – per i noti limiti di legge – al giudice di sostituirsi alla PA imponendole un dato contenuto.
Se invece la PA militare omette o ritarda (illecito omissivo) nell’emanare la documentazione caratteristica nei casi previsti dal regolamento e dalla legge, potrebbe affermarsi che è possibile l’ordine di emanazione, quantunque nessun controllo potrebbe essere fatto dal giudice con riguardo al contenuto discrezionale dell’atto valutativo. Questa sembrerebbe essere una possibilità avanzata – su un piano più generale – da una autorevole dottrina[69], che per le attività vincolate è di parere favorevole, affermando anzi che il giudice potrebbe anche spingersi a delineare il contenuto dell’atto da adottare, mentre, per le attività discrezionali, opina che l’ordine potrebbe essere emanato ma solamente con carattere procedimentale, ossia che il giudice potrebbe costringere (=condannare) la PA a riprendere il procedimento senza però avere il potere di influenzarne l’esito contenutistico.
Tuttavia, tale ricostruzione presuppone innanzitutto una norma di legge che, allo stato, non è dato di rinvenire nei testi pertinenti (e segnatamente nella l. 205/00) e presuppone altresì un rapporto di tipo obbligatorio privatistico tra PA e singolo nell’ambito del procedimento amministrativo, che invece non si riscontra tra PA e militare. In secondo luogo l’adozione in f.s. di quello stesso atto di valutazione che la PA avrebbe dovuto emanare non sarebbe più una misura risarcitoria, quale è la r. in f.s. appunto, ma semmai esecuzione della sentenza.
Come visto, resta il fatto che la tesi prevalente non aderisce alla ricostruzione della r. in f.s. come azione di adempimento e pertanto il singolo interessato potrebbe solo agire con il diverso istituto dell’esecuzione in forma specifica ovvero, più realisticamente, con la procedura del silenzio, impregiudicata la circostanza che la PA militare potrebbe essere condannata ad emanare l’atto, ma non un atto conforme alle richieste del ricorrente.
Se si accede alla tesi prevalente, che vuole la r. in f.s. un’azione alternativa al risarcimento del danno per equivalente e accompagnata alla domanda di annullamento, il ricorrente può ottenere solamente una prestazione diversa da quella di cui lamenta il mancato adempimento.
Quindi, se la PA ha valutato illegittimamente (ad es. ha dato un giudizio manifestamente erroneo) (cd. illecito commissivo), il ricorrente può ottenere solo l’annullamento dell’atto e non, mediante la r. in f.s., un giudizio conforme alle sue richieste, perché dal giudicato di annullamento discende già un effetto conformativo cui la PA deve aderire e nessuna diversa prestazione specifica sembra ravvisabile. Laddove la PA non si conforma, il ricorrente può solo agire in ottemperanza dell’annullamento già ottenuto.
Se la PA ha valutato con ritardo o ha omesso di valutare (cd. illecito omissivo), allora la r. in f.s. non è applicabile per la ragione che la diversa prestazione non potrebbe che consistere nell’emanazione dell’atto richiesto e finirebbe per essere un’azione di adempimento, dalla cui configurazione la tesi in parola appunto si distacca. Il ricorrente, in tal caso, potrà esperire la procedura sul silenzio.
Sempre a maggior chiarimento, si può aggiungere che, essendo la r. in f.s. una misura riparatoria/risarcitoria, essa presuppone la configurabilità di un danno cagionato e provato secondo i dettami e gli elementi di cui all’art. 2043 CC ovvero, per chi aderisce alla tesi della responsabilità contrattuale della PA, secondo il disposto di cui all’art. 1218 CC. Non solo: c’è anche da considerare che l’orientamento prevalente postula il previo annullamento dell’atto per ottenere il risarcimento del danno (pregiudiziale amministrativa).
Pertanto, il ricorrente dovrà agire in giudizio domandando l’annullamento dell’atto di valutazione ed il risarcimento in f.s. “qualora sia in tutto o in parte possibile” (art. 2058 CC). Poiché per le ragioni esposte tale possibilità non ricorre, egli potrà chiedere in primo grado solo il risarcimento per equivalente, purché adempia all’onere della prova.
Dottrina ed giurisprudenza[70] ammettono peraltro che la proposizione della domanda di r. in f.s. senza congiungerla alla subordinata domanda di risarcimento per equivalente, non precluda quest’ultimo. Con un chiaro favore per il ricorrente e con il giusto rispetto della lettera di un testo di legge (art. 2058CC), si ritiene che la r. in f.s. contenga in sé la domanda di risarcimento per equivalente e che il giudice che ammetta quest’ultimo non giunge a violare il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ai sensi dell’art. 112 cpc, anch’esso applicabile al processo amministrativo.
Non è invece ammesso il contrario, verificandosi in tal caso la detta violazione.
Sul piano processuale, infine, l’orientamento prevalente ritiene che la domanda di r. in f.s., essendo una domanda di risarcimento, non possa essere riproposta per la prima volta in appello e nemmeno in sede di giudizio di ottemperanza[71]. Si discute invece se, proposta in primo grado la domanda di r. in f.s., il giudice possa ritenerla in appello o in ottemperanza come domanda di risarcimento per equivalente.
Accogliendo la sovraesposta tesi, relativa alla continenza delle domande di risarcimento, la risposta dovrebbe essere affermativa. Accogliendo la tesi che la domanda di r. in f.s. non trova cittadinanza con riguardo alle valutazioni discrezionali e che pertanto va rigettata già in primo grado, occorrerebbe che la domanda di risarcimento per equivalente fosse già proposta insieme e subordinatamente alla prima.
Roma, 17/03/2007
[1] SCIRMAN L., “Il diritto nella valutazione del militare”, in LPA, Giuffré, nn 3-4, 2005, pp. 699ss e a SCIRMAN L. “Il metodo nella valutazione del militare. Raffronto con la disciplina del pubblico impiego privatizzato”, in www.giustamm.it, III, n. 7, luglio 2006. SCIRMAN L., “Contributo allo studio del nuovo modello di Difesa e delle FF.AA.”, in www.giustamm.it, II, n. 5, giugno 2006; IOVINO P. e RITACCO A., “L’autonomia dei giudizi in sede di documentazione caratteristica: orientamenti giurisprudenziali”, in Riv. Guardia di Fin., n. 5/2005, pp. 1585ss; AA.VV., “L’ordinamento militare”, (POLI V. e TENORE V., a cura di), Giuffré, 2006; TENORE V., “L’incidenza della nuova legge n. 241 del 1990 sulle pubbliche ammnistrazioni (e su quella militare in particolare)”, Cedam, Padova, 2006; POLI V. e TENORE V., AA.VV., “I procedimenti amministrativi tipici e il diritto di accesso nelle Forze Armate”, Giuffré, Milano, 2002; TAR Calabria, Sez. staccata RC, Sent. 9/1/2004, n. 3, con nota di BASSETTA F., “La valutazione caratteristica del personale militare”, in Il lavoro nelle PA, 2004, nr 1, pp. 282ss; Id., “Lo stato giuridico del personale militare”, in serie Quaderni nr 6, suppl. al n. 3/2003 della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri (in partic. parte V, cap. XIII, rubricato “La valutazione del personale militare”), pubblicato altresì in www.carabinieri.it/editoria/rassegna/. MEREGAZZI R., “Rassegna di giurisprudenza sulle leggi di stato giuridico e di avanzamento degli appartenenti alle Forze armate”,Giuffrè, Milano, 1965; SCHWARZENBERG C., “L’importanza in Italia e all’estero della documentazione caratteristica degli Ufficiali, con particolare riguardo ai problemi dell’avanzamento”, in Rass. Arma CC, n. 1, gen.-marzo 1993. MESSA G., “L’impugnabilità dei documenti caratteristici nella nuova normativa”, in Rivista della Guardia di Finanza, n. 2, aprile 1975 S. MARCOLINI S. “Il controllo del giudice amministrativo sulla documentazione caratteristica degli appartenenti alle forze armate tre principio di legalità e merito insindacabile delle scelte della p.a. militare”, in F.A. – TAR, 2002, 2854; LABELLA B.- CARDUCCI G.(2003), “La nuova documentazione caratteristica del personale militare delle Forze armate”, in Informazioni Difesa, 2003, nr. 3, pp. 45ss; ALESIO M., "Le ‘note caratteristiche’ degli appartenenti alle Forze armate nell’evoluzione normativa", in Diritto e Giustizia, V, n. 6, 2004, 93-95.
[2] Cons. Stato, Sez. IV, 25 novembre 1960, n. 987, in Rass. “Il Cons. St.”, 1960, I, 2041. Più esattamente i giudizi del compilatore e del revisore sono ritenuti giudizi autonomi l’uno rispetto all’altro (Cons. Stato, IV Sez., 2 luglio 1943, n. 221 in FA, 1943, 1, I, 1943; Cons. Stato, IV Sez., 13 febbraio 1963, n. 72 in Rass. “Il Cons. St.”, 1963, I, 153). Il Consiglio di Stato precisa che i vari giudizi, interni e finali, che compongono la scheda sono “giudizi di valore” di natura relativa e non assoluta, cfr. Cons. St., IV Sez., 25 maggio 1979, n. 393, in Consiglio di Stato, 1979, I, 1737. Cfr pure la giurisprudenza richiamata da BASSETTA F., “Il pubblico…”, cit., par.1, nota 5. Il giudizio valutativo non si esaurisce in un atto di accertamento tecnico, di cui quindi non è possibile applicare tout court la relativa disciplina, essendo annoverabile tra le valutazioni tecniche: D’ANGELO G., “Giudice amministrativo e valutazioni tecniche dopo la l. 21 luglio 2000 n. 205”, in Dir. Amm., n. 3/2005, pp. 659ss; TESSARO T., “Valutazioni tecniche e attività consultiva nella recente legislazione di principi”, in L’Ammin. It., n. 10/93, pp. 1494ss.
[3] Sui dubbi di legittimità del regolamento DPR 213/02 proprio a causa della mancanza di una chiara base legislativa per l’Arma dei CC, sia lecito rinviare a: SCIRMAN, “Il diritto…”, cit., p. 717ss.
[4] Cfr. POLI V.-TENORE V., “Codice di diritto amministrativo militare”, Giuffré, Mi, 2006; POLI, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. II, p. 379ss.
[5] A. SANDULLI, “Manuale di diritto amministrativo”, 1978, Jovene, p. 420; QUARTULLI A., “Atti autoritativi e atti paritetici: validità di una distinzione”, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, Roma, 1981, vol. III.; M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, p. 712-713, Giuffrè, 1988; MATTARELLA B. E. G. FUOCO, “L’art. 1, comma 1bis, della legge 241/90. Alla ricerca delle proprietà alchemiche del diritto privato”, in www.lexitalia.it, n. 6/2005. L’atto autoritativo, però, non coincide con l’atto iussivo (in particolare, l’ordine gerarchico), che è un atto ablativo personale incidente su una situazione giuridica soggettiva del destinario in modo da imporre, senza possibilità di scelta, una data prestazione, positiva o negativa. I due atti sembrano essere in un rapporto di genere a specie.
[6]POZZI A., “La giurisdizione esclusiva del pubblico impiego non privatizzato”, in CdS, novembre 2003, II, 2209ss.
[7] Arduo riportare una bibliografia completa relativa al danno. Si rimanda alle fondamentali osservazioni del DE CUPIS A., “Danno (dir. vig.)”, in EdD, Giuffré, 1962, p.627, che individua il dp nella lesione ad un interesse patrimoniale, ossia ad una utilità economica che un soggetto può trarre da un bene. Cfr. poi CIAN G. e TRABUCCHI A., “Commentario breve al CC”, Cedam, 2004, sub art. 1223.
[8] Da ultimo, per particolare completezza, si segnala la sent. n. 210/05 del 22/2/2005 del Trib. di Reggio Emilia, Sez. I civ., in www.altalex.it.
[9] Cass. Civ., Sez. III, n. 8827 del 31/5/2003.
[10] MARUOTTI L., “La struttura dell’illecito amministrativo lesivo dell’interesse legittimo e la distinzione tra l’illecito commissivo e quello omissivo”, 2005, in www.giurisprudenza.it.
[12] Per CAIANELLO V., “Manuale di diritto processuale amministrativo”, Utet, To, 1997, p. 851, l’Amministrazione ha l’obbligo di eseguire il giudicato amministrativo ed il successivo giudizio di ottemperanza risulta essere una sorta di esecuzione forzata. Può verificarsi che, pur a seguito del giudicato amministrativo, la PA 1) rimanga inerte; 2) rifiuti di ottemperare; 3) reiteri il provvedimento annullato; 4) emani un provvedimento elusivo 5) adempia parzialmente. Mentre è ammesso pacificamente in giurisprudenza il giudizio di ottemperanza per il caso di inerzia e per i casi di macroscopica elusione, qualche dubbio nasce in caso di parziale o incompleta esecuzione e nelle rimanenti ipotesi. Interesse pretensivo sembra sussistere anche nel caso in cui l’Amministrazione non abbia ottemperato alle misure cautelari disposte dal giudice amministrativo: art. 21bis legge TAR, come modificata dalla legge 205/2000.
[13] Cfr. DEODATO C., in “Codice della Giustizia Amministrativa”, a cura di MORBIDELLI G., Giuffré, Milano, 2005, pp. 357-358. Poiché l’A. non critica tale impostazione, indirettamente sembra avallarla. Applicando il criterio dettato dalla richiamata giurisprudenza alla tematica in questione, non è assurdo ipotizzare che una data osservazione (ad es. relativa ad un illegittima valutazione dello stato di salute del valutato) debba essere corretta in modo da essere ricondotta alla legittima condizione fisica dell’interessato.
[14] Ancora non è stata ben chiarita la portata dell’ innovazione di cui all’art. 2, comma 5, della legge 241/90, secondo cui il giudice, in tema di silenzio rifiuto/inadempimento, può conoscere della fondatezza della domanda. In giurisprudenza vi è persino chi ne fa un nuovo caso di giurisdizione sul merito: CGA, IV, n. 726 del 4/11/05 e TAR Liguria, I, n. 102 del 8/2/06, in Urb. e app., 2006, p. 975.
[15] TAR Lazio, Roma, IIbis, n. 6786 del 9/9/05 e TAR Campania, II, n. 850 del 16/6/06, TAR Campania, Na, II, n. 112, del 9/1/06; TAR Campania, Na, VI, n. 3099 del 17/3/06, in www.giustizia_amministrativa.it. Una giurisprudenza ha negato il cumulo delle azioni sul silenzio e sul risarcimento del danno anche per le ragioni che non solo le domande devono fondarsi su identici presupposti di fatto e di diritto ed essere riconducibili al medesimo rapporto o al medesimo procedimento, ma anche perché non possono essere trattate con lo stesso rito: TAR Puglia, Le, n. 1415 del 14/12/2001, in MONTEDORO, in AA.VV., “Codice della giustizia…”, cit., p. 276. In dottrina, di recente, GIOVAGNOLI R., “I silenzi della Pubblica Amministrazione dopo la legge n. 80/2005”, Mi, 2005 e STICCHI DAMIANI E., “L’accertamento della fondatezza dell’istanza nel giudizio sul silenzio”, in FA-TAR, 2005, 3365; PARISIO V., “Il silenzio della Pubblica Amministrazione tra prospettive attinie e fattuali alla luce delle novità introdotte dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15 e dalla l. 14 maggio 2005, n. 80”, in FA-TAR, nn. 7-8, 2006, pp. 2798ss.
[16] TAR Sicilia, Ct, III, n. 1983 del 3/11/05, in www.giustizia-amministrativa.it. .
[17] CdS, V, n. 4968 del 24/8/06 in Corr. Giur. N. 11/06, p. 1222.
[18] Cass. SS.UU. n. 9556/2002.
[20] LAMBERTI C. e BALDANZA A., in AA.VV., “I procedimenti amministrativi tipici…”, cit., in specie pp. 193-197; POLI, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. II, pp. 421-423.
[21] La giurisprudenza, infatti, non propende per l’automatica influenza della documentazione caratteristica annullata in via giurisdizionale o di autotutela sulla successiva procedura di avanzamento: CdS, Sez. IV, 14/2/05, n. 407 in www.giustizia-amministrativa.it.
[22] Arg. ex CdS, IV, 5/4/77, n. 321, in CdS, 1977, I, 477. Altro è, dice POLI in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. II, p. 290 citando una pronuncia del CdS, il rapporto tra due differenti procedure di avanzamento, che, essendo autonome, non possono interferire reciprocamente.
[23] POLI, “L’ordinamento militare…”, cit., vol. II, p. 393 ed ivi la giur. citata.
[24] Loc. ult. Cit., pp. 422-423.
[25] La casistica offre però anche esempi di annullamento del giudizio di avanzamento per documentazione caratteristica “irregolare per effetto di cancellazioni e variazioni” del libretto personale trascritte su fogli incollati, privi di firma e senza indicare il provvedimento in base a cui le correzioni sono state fatte: CdS, IV, 7/3/78, n. 183, in CdS, 1978, I, 359. Contra CdS IV n. 6668 del 9/12/02 in Cons. St., 2002, I, 2679.
[26] Il rapporto di presupposizione è individuato ove un atto/provvedimento costituiscano la ragione unica ed essenziale delle successive determinazioni e vi sia necessaria consequenzialità di effetti giuridici. Per ciò riguarda anche atti di procedimenti differenti: con riguardo ad incarichi dirigenziali, cfr. CdS, V, n. 2148 del 4/5/2005, in www.giustizia-amministrativa.it, raccolta sentenze. Quindi, non vi è nemmeno presupposizione tra due diversi atti di valutazione e l’illegittimità dell’uno non influisce sull’altro: POLI, “L’ordinamento…”, cit., vol. II, p. 387.
[27] CdS, IV, 10/12/1974, n. 970, in CdS, 1974, I, 1597.
[28] Ad es., TAR Emila Romagna, Pr, n. 81 del 9/2/99, in Giur. di merito, n. 4-5/2000, con nota di ANCORA F., pp. 942ss.; TAR Lombardia, I, Mi, n. 1732 del 8/10/97, in www.giustizia-amministrativa.it, sezione sentenze TAR.
[29] TENORE, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., pp. 822ss. Sintetica ed efficace pure VIPIANA P.M., “Introduzione ai vizi di legittimità dell’atto amministrativo”, Cedam, 1997, pp. 192-197; GAROFOLI, RACCA, DI PALMA, “Responsabilità della PA e risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo”, Giuffrè, Mi, 2003, in particolare pp. 99ss. Di recente, VACCARO R., “La disapplicazione del provvedimento amministrativo in sede penale”, in www.neldiritto.it, n. 10/febbraio 2007; DAUNO TREBASTONI F., “Il sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa, nell’abuso d’ufficio”, febbraio 2007, in www.giustizia-amministrativa.it, sez. contributi.
[30] Così si argomenta in giurisprudenza, ad es.: CdS, VI, n. 4100 del 27/6/06, in FA-CdS, n. 6/06, 1790, secondo cui l’interesse pubblico sotteso alla valutazione alberga “nel monitoraggio continuo della qualità del servizio prestato”.
[31] BASSETTA F., “Lo stato giuridico…”, cit., pp. 209-210; SCIRMAN L., “Il metodo…”, cit., par. 1.
[32] Nel caso sub art. 4, comma 1, lett. e (qui la sospensione dall’impiego del giudicando è il presupposto in base a cui emanare il successivo atto di valutazione), paradossalmente l’omissione di provvedimento potrebbe, almeno non alla lunga, produrre un beneficio per il giudicando, non essendo rivelata ai futuri valutatori/revisori la condizione di sospensione, soprattutto ove questa sia l’effetto di una situazione negativa a carico dello stesso giudicando (ad es., la commissione di un reato). Pertanto, in tale ipotesi, l’interessato, pur avendo interesse azionabile all’emanazione dell’atto, non avrebbe titolo per postulare forme di ristoro del danno.
[33] La norma sembra riferirsi, sul piano letterale e un po’ meno su quello logico e di ratio, anche ai concorsi banditi anche da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza del militare.
[34] Da ultimo, TREMANTE L., “La perdita di chance. Risarcimento del danno da attività amministrativa illegittima”, Halley Editrice, 2006 e CHINDEMI D., “Il danno da perdita di chance”, Giuffré, 2007.
[35] Cfr. ex plurimis: CdS Sez. VI del 7/2/2002 n. 686, su www.lexfor.com, dalla quale sono tratte le definizioni, e Cass. Civ. nr. 6506/85, che configura l’esclusione dal concorso come danno da perdita di chance. Sulla stessa linea: T.A.R. Emilia Romagna – Bologna, 17 aprile 2002, n.592; Tribunale di Milano, 30 novembre 2001, Lanzani c/ Azienda Ospedaliera ; T.A.R. Campania – Napoli, 21 novembre 2001, n.4917; Cass. 21 luglio 2003, n.11322 e Cass. 11 dicembre 2003, n.18945.
[36] Da ultimo Cass Civ., Sez. Lav., n. 238 del 11/1/07.
[37] CASETTA E., “Manuale di diritto amministrativo”, Giuffré, Mi, 2004, p.589; MOLASCHI V., “Responsabilità extracontrattuale, responsabilità precontrattuale e responsabilità da contatto”, in FI, 2002, col. 8 ss..
[38] Si potrebbe ipotizzare un caso di danno indiretto laddove la lodevole prestazione di un servizio pubblico, ai sensi dell’art. 5, punto 5, lett. b, del DPR 487/94 (cd. regolamento sui concorsi) e s.m.i. sia scriminante come titolo preferenziale in un pubblico concorso in cui il valutando sia risultato idoneo, ma vincitore a parità di merito con un altro concorrente e non sia possibile l’assunzione di entrambi gli idonei. Ma, onestamente, sembra essere un caso limite.
[39] Tra l’altro, la giurisprudenza ritiene che i giudizi valutativi emessi in occasione di corsi di istruzione e di Accademia siano pressoché vicini al merito, tanto da poter essere sindacati soltanto “entro i ristretti limiti della manifesta abnormità, discriminatorietà o travisamento dei presupposti di fatto”: CdS, IV, n. 2129 del 14/4/2006, in FA-CdS, n.4/2006, p.1143. Quindi, essendo difficilmente dichiarabili illegittimi, altrettanto difficilmente ne deriverà un danno.
[40] Qualche dubbio se il trasferimento fosse d’autorità: in tal caso infatti resterebbe un margine di discrezionalità alla PA militare, nonostante il possesso della richiesta qualifica.
[41] Classicamente definito in giurisprudenza come: "menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica" (Cass. 90/7101; Cass. Sez. Lav. 88/5033; Cass. Civ. n.2883 del 1988). Dell’individuazione del contenuto del danno biologico e della sua differenza dal danno morale o patrimoniale ha avuto occasione di esprimersi con dovizia di particolari la Corte Costituzionale con la sentenza n.184 del 14 luglio 1986 in Giust. Civ., 1986, I, 2324.
[42] Cass. Civ., Sez. III, 5/11/1994 n. 9170 in Giust. Civ. 1994, fasc. nr. 11.
[43] Cass. Civ., Sez. III, n. 20323 del 20/10/2005 in www.altalex.it. Si ricorre sovente anche alle tabelle preordinate dalla Corte di Appello di Milano o di Ancona.
[44]Inquinamento acustico in Cass Civ. n.2396 del 1983; Cass. Civ. n.3367del 1988, Trib. Biella 22/4/89; esaurimento nervoso per fatto illecito altrui in Pret. Aquila 10/5/91; stress; morte di animale domestico; morte di un congiunto in Trib. Milano 1/2/93 e 2/9/93.
[45] V.si – di recente – la già cit. sent. Cass Civ., sez. Lav. n. 238/07.
[46] LIMA F., “Il danno esistenziale”, 7/2/2007, che analizza e riporta la giurisprudenza recente formatasi in materia, in www.altalex.com; CdS, VI, 16/3/2005, n. 1096; Trib. Roma – 30/6/05 in Giurisprudenza di merito n. 3/2006, 579ss, con nota di L. STELLA, “L’equazione di Liberati sul risarcimento del danno esistenziale”, 582ss ed ivi bibliografia; Trib. Napoli – 1° Marzo 2005 in Giurisprudenza di Merito, n. 3/06, 591ss; CENDON P. e ZIVIZ P., “Vincitori e vinti dopo la sentenza n. 233/2003 della Corte Costituzionale”, in www.altalex.com. Cfr. pure TENORE, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. I, pp. 1379ss; VIOLA L., “Nuove prospettive della responsabilità civile della PA: l’applicazione della nuova categoria del danno esistenziale ai provvedimenti in materia di servizio di leva”, in Diritto Militare, n. 2-3, anno II, 2002, pp. 7ss; Eid., “Il danno non patrimoniale da illegittima prestazione del servizio militare di leva”, nota a TAR Campania, Sez. II, Na, Sent. 4/3/04 in www.giustamm.it.
[47] VIOLA L., “Nuove prospettive…”, cit., p. 27.
[48] Cfr. pure E. BETTINELLI, “Tempo di vita e servizio militare”, in FI, 1990, I, 1459ss.
[49] Proprio per arginare una eccessiva frammentazione del danno ed evitare duplicazioni di danno Cass. Civ., III, n. 23918 del 9/11/2006, in Corr. Giur., n. 1/07, pp. 20-21, ha negato, in un’ipotesi di colpa medica, il risarcimento del danno esistenziale oltre al già riconosciuto danno biologico e morale soggettivo, in quanto il danno alla salute (o danno biologico) comprende ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito che la lesione del bene salute abbia provocato alla vittima e non si differenzia dal danno estetico o dal danno alla vita di relazione, qui considerati come “componenti” del danno biologico.
[50] Citata e discussa da CASSANO G., “Fondamenti giuridici del danno esistenziale: novità giurisprudenziali e questioni in tema di prova”, in www.altalex.com.
[51] Cass. Civ. n. 2767 del 21/12/1998; Cass. Civ. n. 12124 del 19/8/2003.
[52] “Regolamento recante disposizioni di attuazione degli articoli 2 e 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nell’ambito degli enti , dei distaccamenti, dei Reparti dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica”, in POLI-TENORE, Op. cit., appendice normativa, pp. 556ss.
[53] MONTEDORO G., in “Codice della Giustizia Amministrativa”, Giuffré, Milano, 2005, p. 252: per giurisprudenza “assolutamente costante”, il termine procedimentale è sempre ordinatorio, salvo che nei casi di procedimenti sanzionatori e d’urgenza nonché ove esso sia configurato come perentorio dalla legge. Cfr. pure TAR PUGLIA, Ba, Sez. II, 13/1/05, n. 56, in Giurisprudenza di merito, n. 2/06, 428ss, con nota di G. MICARI, “Il cd. danno da ritardo ed i corollari tratti da una sentenza-trattato del TAR Puglia”, 435ss. Per un esempio in materia di valutazione, CdS, VI, n. 4100 del 27/6/2006, in FA-CdS, n.6/2006, p. 1790: “il termine di redazione del rapporto informativo, previsto dall’art. 62, comma 2, DPR 24/4/82, n. 335, ha carattere ordinatorio e non perentorio, la cui violazione non si risolve in vizio di legittimità dell’atto a contenuto valutativo”. Sulla tematica dell’inerzia nell’ambito dei procedimenti amministrativi militari, cfr. TENORE, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. I, pp. 272ss e pp. 1354ss.
[54] CdS, sez. IV, ord. n. 875 del 7 marzo 2005, su www.lexfor.it. Il caso attiene ad una controversia tra una società privata ed il Comune di Perugia circa la realizzazione di un complesso turistico su un vasto agro perugino, su cui è stato apposto un vincolo paesaggistico, con conseguente diniego di rilascio di titoli edilizi, applicazione di misure sanzionatorie e pretese risarcitorie avanzate a vario titolo. Per la ricorrente, il mero ritardo del rilascio del titolo edilizio sarebbe fonte di responsabilità contrattuale da contatto qualificato, a prescindere dalla spettanza o meno del “bene della vita”, cioè delle concessioni richieste. Il TAR ha negato la tutela ritenendo che non ricorressero gli estremi della responsabilità del Comune e che la ditta ha omesso di azionare i rimedi volti a formalizzare il silenzio della PA.
[55] Il CdS annota però (punto 4.2 dell’ordinanza) che il comportamento del privato che non si è avvalso dei riti acceleratori a sua disposizione potrebbe essere valutato per ridurre il danno a carico della Pa, secondo un meccanismo (così si argomenta anche se il CdS non lo dice espressamente) di concorso di colpa del danneggiato.
[56] Cass. Civ., 10 gennaio 2003, n. 157; Cons. Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2003, n. 204 e 15 aprile 2003, n. 1945.
[57] Es. TAR PUGLIA, Ba, II, n. 56 del 13/1/05, in Giur. di merito, n. 2/06, pp. 97ss, con nota di MICARI G. In tal senso pure TENORE, in AA.VV., “L’ordinamento…”, cit., vol. I, p. 1357.
[59] L’Ad. Plen. in verità prosegue dicendo che la ricostruzione qui illustrata non si applica al caso trattato, perché non è stata esperita apposita diffida prevista fino all’emanazione della legge n. 80/05, che non risulta invocabile ratione temporis.
[60] Già in passato, la giurisprudenza di regola richiedeva un “necessario rapporto di strumentalità” perché la formazione della scheda valutativa incida su un successivo procedimento e soprattutto perché avvenga “con il vincolo delle scadenze e dei tempi propri di tale procedimento”, in CdS, IV, 26/10/76, n. 955, in CdS, 1976, I, 1011. Concorde, sebbene senza l’impostazione prospettata nel testo, sembra essere anche TENORE, op. cit., p. 1359.
[61] Ad es., TAR Basilicata, 7/2/2004, n. 58, in www.armadeicarabinieri.it. CdS, VI, n. 529 del 10/2/2006 e n. 5807/2005, in www.giustizia-amministrativa.it.
[62] Al riguardo si veda la ricostruzione operata da CHIEPPA R., in AA.VV.,(a cura di MORBIDELLI) “Codice della giustizia amministrativa”, Giuffré, Mi, 2005, p. 313ss; CLARICH M., “Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo”, marzo 2005, in www.giustizia-amministrativa.it.
[63] TRAVI, “La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo fra azione di adempimento e azione risarcitoria”, in Dir. Proc. Amm., 2003, p. 222ss.
[64] VOLPE C., “La reintegrazione in forma specifica”, in www.giustizia-amministrativa.it L’A. critica tuttavia l’indirizzo pubblicistico, promosso da TAR Campania, NA, I, 29/5/2002, n. 3177, in www.giust.it, n. 6/02 e citata dallo stesso, perché la r. in f.s. non è una sorta di anticipazione dell’attività di conformazione della PA. Tale indirizzo è in realtà già inaugurato da CdS, VI, 18/12/2001 n. 1681, in FA, 2001, 3210, secondo cui, appunto, la domanda di annullamento conterrebbe già in sé la richiesta di risarcimento in f.s.
[65] CdS, VI, 18/12/2001, n. 6281.
[66] CdS, VI, n. 3308/02, Id., n. 1716/03 e Id., IV, n. 45/05.
[67] CdS, IV, n. 3169/2001.
[68] LOPILATO V., “Il Consiglio di Stato chiarisce la natura ed i limiti del risarcimento del danno in forma specifica”, in Diritto&Formazione, 2002, p. 1175ss.
[69] CARINGELLA F. “La tutela risarcitoria dopo la sentenza 500/99 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione”, in CARINGELLA F., DE NICTOLIS R., LIPARI M., MATASSA N., “Il processo in materia di opere pubbliche”, MI, p. 366ss.
[70] VOLPE, op. cit., p. 9, il quale riporta Cass. Civ. , II, 18/1/2002, n. 552, in Giust. Civ., Mass., 2002, 94. Cfr. altresì CHIEPPA, op. cit., p. 316 e la giur. di cassazione ivi riportata.
[71] CHIEPPA R., op. cit., p. 323.
[72] DIRIGENTE REGIONE CAMPANIA.
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