Il consiglio di Stato (n. 32/2005) sancisce una svolta nel criterio della colpa (solo grave) della pa come apparato ( e quindi non solo del singolo dipendente a norma del dpr n. 3/1957 a seguito di attività materiale) nella responsabilità civile terzi pe

Lazzini Sonia 19/10/06
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Responsabilità civile extracontrattuale della pa per attività provvedimentale: inevitabile giudizio di colpevolezza nella violazione di un canone di condotta agevolmente percepibile nella sua portata vincolante ovvero esclusione per colpa lieve!
 
Accertamento della colpa della pa  per attività provvedimentale illegittima: non è imputabile al singolo ma solo all’apparato, non è oggettiva e puo’ essere paragonata a quella dei liberi professionisti a cui va applicato l’art. 2236 cc, quindi imputabilità solo per colpa grave e dolo, nel caso in cui l’accertamento dei presupposti di fatto dell’azione amministrativa implichi valutazioni scientifiche complesse o verifiche difficoltose della realtà fattuale!
 
I ruolo del giudice amministrativo è quello di definire gli indici identificativi della colpa, indicati nell’ascrizione all’amministrazione, intesa come apparato, e non al funzionario agente, della “violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che…si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
 
La decisione numero 32 del Consiglio di Stato pubblicata in data 10 gennaio 2005 merita di essere segnalata per tutta una serie di importanti insegnamenti in tema di risarcimento del danno imputabile alla pa a seguito di attività provvedimentale e quindi suscettibile di lesione di interessi legittimi
 
a)      la colpa deve essere ascrivibile alla pa come apparato e non al singolo funzionario agente (come da Cass. Sez. Unite n. 500/99)
b)      si puo’ restare  all’interno dei più sicuri (rispetto alla teoria della responsabilità contrattuale della pa) confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana
c)      le connesse esigenze di tutela, possono venir garantite dall’ utilizzo, per la verifica dell’elemento soggettivo, delle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c
d)      il privato danneggiato, ancorchè onerato della dimostrazione della “colpa” dell’amministrazione (contrariamente se la responsabilità fosse di natura contrattuale), risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari quali:
1.      la gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto,
2.      il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata,
3.      l’univocità della normativa di riferimento
4.      il proprio apporto partecipativo al procedimento
e)      all’amministrazione quindi, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi l’allegazione degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile
f)       compito del giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n. 500/99, sarà quello di apprezzare e valutare liberamente tali indici circa la  loro idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
g)      perché la situazione allegata integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la “colpa” dell’apparato amministrativo.
h)      gli estremi dell’errore scusabile li troviamo nella giurisprudenza europea (Corte Giustizia C.E., 5 marzo 1996, cause riunite nn.46 e 48 del 1993; 23 maggio 1996, causa C5 del 1994) che, pur assegnando valenza pressoché decisiva alla gravità della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere,
1.      il grado di chiarezza e precisione della norma violata;
2.      la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall’amministrazione,
3.      la novità di quest’ultima,(riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni).
 
i)        Inoltre risulta accettabile:
1.       il criterio della comprensibilità della portata precettiva della disposizione inosservata e della univocità e chiarezza della sua interpretazione,
2.      potendosi ammettere l’esenzione da colpa solo in presenza di un quadro normativo confuso e privo di chiarezza;
 
giova pero’ riportare questo passo dell’emarginata decisione per la portata estremamente rivoluzionaria in ambito di rischio della pa per risarcimento del danno a seguito di perdita patrimoniale :
 
< Così come appaiono condivisibili i riferimenti, da più parti suggeriti, al criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del professionista di cui all’art. 2236 c.c. che, riconnettendo il grado di colpevolezza richiesto per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei problemi tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, introduce un parametro di ascrizione del danno che tiene conto del grado di complessità delle questioni implicate dall’esecuzione della prestazione e che attenua la responsabilità del prestatore d’opera quando il livello di difficoltà risulti rilevante.
 
La medesima ratio sottesa alla richiamata disposizione civilistica può, infatti, ravvisarsi nelle fattispecie nelle quali la situazione di fatto esaminata dal funzionario comporta la risoluzione di problemi tecnici particolarmente rilevanti ed in cui, in definitiva, l’accertamento dei presupposti di fatto dell’azione amministrativa implica valutazioni scientifiche complesse o verifiche difficoltose della realtà fattuale.>
 
 
Ovvero:
 
<A fronte, infatti, di una situazione connotata da apprezzabili profili di complessità, può, in particolare, ritenersi giustificata, in analogia con la disciplina della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, un’attenuazione di quella dell’amministrazione che la circoscriva alle sole ipotesi di colpa grave>
 
Va da sé che stante questa interpretazione giurisprudenziale data dal Supremo Collegio Amministrativo, diminuisce il rischio delle polizze di responsabilità civile terzi a garanzia delle perdite patrimoniale subite dai cittadini (o dalle imprese in caso di appalti pubblici) e quindi, forse, convincerà anche le primarie Compagnie di Assicurazione, ad accettarne la sottoscrizione, facendo, finalmente, finire la (in mancanza di altro) sottoscrizione da parte dei singoli, di polizze il cui rischio è limitato agli unici casi di lesione di diritto soggettivo (quindi, dopo la sottoscrizione di un eventuale contratto) portati davanti al giudice ordinario.
 
Ancora un’osservazione.
 
Qualora un tecnico faccia parte di un Ente pubblico economico oppure di un S.p.a.   a capitale pubblico, si sa che non ricevere dalle Leggi(1) l’esenzione di responsabilità per l’elemento soggettivo della colpa lieve , ma, tenuto conto dell’emarginata sentenza, anche queste persone potranno invocare quanto disposto dall’art 2236 cc (come peraltro già applicato  per i medici dipendenti di un ente ospedaliero (2))
 
 
Di *************
 
 
(1)
D.p.r. n. 3 del 1957 combinato con
Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267  Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
Art. 93 – Responsabilità patrimoniale
E con
Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 – Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Articolo 1 definizione di amministrazione pubblica – Articolo 55 Sanzioni disciplinari e responsabilità
 
(2)
per completezza di esposizione si riporta quanto deciso in Cass. civ., sez. III, 1 marzo 1988 n. 2144 :
 
<Deve essere ordinata la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale. Preliminarmente deve essere rilevata la inammissibilita’ del ricorso incidentale proposto dal Comune di Roma perche’ tardivo. Dedotta la responsabilita’ dell’ente ospedaliero Istituto ****, al quale e’ subentrato quale successore ex lege il Comune di Roma (come ritenuto dalla Corte di Roma nella sentenza impugnata), per il danno cagionato dal ****, medico dipendente di detto Istituto, nell’eseguire l’intervento operatorio su *************, configurandosi una obbligazione solidale dell’uno e dell’altro verso quest’ultimo, si tratta di litisconsorzio facoltativo e, in sede di impugnazione e, in sede di impugnazione, di cause scindibili. Pertanto il ricorso del Comune di Roma, incidentale perche’ notificato dopo quello del ****, e’ autonomo rispetto a quest’ultimo, riguardando una delle cause scindibili, diversa quella da cui attiene il ricorso principale, ed essendo inoltre proposto nei confronti di una parte diversa da quella che ha proposto il ricorso principale; con la conseguenza che doveva essere notificato nel termine di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza al comune. Invece, avvenuta tale notificazione il 4 dicembre 1984, il ricorso e’ stato notificato l’11 ed il 20 febbraio 1985, quando il termine ex art. 325 c.p.c. era gia’ decorso. Con il primo motivo del ricorso principale il ****, denunciando violazione e falsa applicazione degli art. 1176, 2236 e 2043 c.c. e degli art. 18 e segg. del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 nonche’ omessa ed erronea motivazione su un punto decisivo della controversia, lamenta che la Corte di Roma abbia errato nel ritenere una responsabilita’ contrattuale ed extracontrattuale a carico di esso ricorrente nei confronti dello ****, il quale, al fine di ricevere l’assistenza sanitaria cui aveva diritto, si reco’ presso una struttura ospedaliera pubblica ove operano sanitari, pubblici dipendenti. Sostiene che il suo operato doveva essere valutato non secondo le regole che disciplinano la prestazione d’opera professionale ovvero secondo i criteri stabiliti dall’art. 2043 c.c., ma secondo le disposizioni degli art. 18 e segg. del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), con le quali, in attuazione dell’art. 28 cost., e’ stata regolamentata la responsabilita’ dei funzionari pubblici per atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini; disposizioni, queste, che limitano la responsabilita’ dell’impiegato verso i terzi – in concorso o meno con la pubblica amministrazione – alle violazioni dei diritti dei terzi commesse con dolo o colpa grave. Il motivo e’ destituito di fondamento. E’ amministrazione pubblica l’attivita’ concreta svolta dallo Stato o da altro ente pubblico per la realizzazione di interessi generali. Nell’ambito di tale attivita’, indirizzata al conseguimento di quei fini, lo Stato o altro ente pubblico esercita poteri pubblicistici, che possono incidere, direttamente o indirettamente, su diritti soggettivi di privati. Diversa e’ la natura dell’attivita’ svolta dallo Stato o da altro ente pubblico nello svolgimento di un esercizio pubblico. I servizi pubblici, assunti ed organizzati dallo Stato o da altro ente pubblico, che li gestisce, sono predisposti a vantaggio e nell’interesse dei privati, che, fattane richiesta, ne usufruiscono. Non esiste, in tal caso, una posizione di potere dello Stato o dell’ente pubblico che gestisce il servizio; a differenza dell’attivita’ amministrativa svolta per la realizzazione di interessi generali. Il privato, fattane richiesta, ha un diritto soggettivo alla prestazione del servizio pubblico in suo favore; e al diritto soggettivo del privato corrisponde, ed e’ correlato, il dovere di prestazione dello Stato o del diverso ente pubblico in favore del privato richiedente. A seguito e per effetto della richiesta, si costituisce, quindi, un rapporto giuridico, di natura pubblicistica, tra il privato e lo Stato o il diverso ente pubblico, strutturato dal diritto soggettivo del primo alla prestazione del servizio pubblico e dal dovere del secondo di eseguire la prestazione. Appunto perche’ si costituisce un rapporto giuridico tra i due soggetti, strutturato da un diritto soggettivo e da un correlato dovere di prestazione, la responsabilita’ dell’ente pubblico verso il privato, per il danno a questi causato dalla non diligente esecuzione della prestazione, non e’ extracontrattuale, essendo configurabile questo tipo di responsabilita’ quando non preesista tra danneggiante e danneggiato un rapporto giuridico nel cui ambito venga svolta dal primo l’attivita’ causale del danno. Sicche’, per esclusione, la responsabilita’ dell’ente pubblico, gestore del servizio pubblico, va qualificata contrattuale, intesa, in tal senso, come responsabilita’ insorta nel compimento di una attivita’ dovuta nell’ambito di un preesistente rapporto giuridico, privato o pubblico, tra i due soggetti. Nel servizio pubblico sanitario, l’attivita’ svolta dall’ente pubblico gestore del servizio a mezzo dei suoi dipendenti, nell’adempimento del dovere verso il privato richiedente (titolare del corrispondente diritto soggettivo), e’ di tipo professionale medico; similare all’attivita’ svolta, nell’esecuzione dell’obbligazione (privatistica) di prestazione, dal medico che abbia concluso con il paziente un contratto d’opera professionale. Ed appunto per questa similarita’, perche’ quella svolta dall’ente pubblico a mezzo dei medici suoi dipendenti e’ attivita’ professionale medica, la responsabilita’ e’ analoga a quella del professionista medico privato. Con la conseguenza che vanno applicate, analogicamente, le norme che regolano le responsabilita’ in tema di prestazione professionale medica in esecuzione d’un contratto d’opera professionale; in particolare quella di cui all’art. 2236 c.c., il quale dispone che, "se la prestazione implica la soluzione del problemi tecnici di speciale difficolta’, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave". La responsabilita’ dell’ente pubblico gestore del servizio sanitario e’ diretta, essendo riferibile all’ente, per il principio della immedesimazione organica, l’operato del medico suo dipendente, inserito nell’organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, ha causato danno al privato che ha richiesto ed usufruito del servizio pubblico. E, per l’art. 28 cost., accanto alla responsabilita’ dell’ente esiste la responsabilita’ del medico dipendente. Responsabilita’ che hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilita’ del medico dipendente e’, come quella dell’ente pubblico, di tipo professionale; e vanno applicate anche ad essa, analogicamente, le norme che regolano la responsabilita’ in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d’opera professionale. Ne discende che la responsabilita’ del medico dipendente verso il privato danneggiato non ricade nella normativa di cui agli art. 22 e 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3; la quale normativa riguarda, in applicazione dell’art. 28 cost., le ipotesi di danni arrecati a terzi (privati) dagli impiegati civili dello Stato per i comportamenti – attivi od omissivi – da essi tenuti nell’ambito dell’esercizio dei poteri pubblicistici che strutturano l’amministrazione pubblica quale attivita’ concreta svolta dallo Stato o da altro ente pubblico per la realizzazione di interessi generali. Nella specie, la Corte di Roma ha appunto ravvisato una responsabilita’ contrattuale, di tipo professionale, a carico del ****, medico dipendente dell’ente ospedaliero (poi soppresso) Istituto Superiore di Odontoiatria ****, da intendersi, e precisarsi, nel senso di cui alle considerazioni svolte sopra; non rilevando, ai fini della decisione, la responsabilita’ extracontrattuale pure ravvisata dalla Corte di Roma. Responsabilita’ (contrattuale, di tipo professionale) che, come risulta dall’ampio svolgimento della motivazione della sentenza impugnata, la Corte di Roma ha ritenuto caratterizzata da colpa grave. Dalle considerazioni svolte risulta la non rilevanza della questione di legittimita’ costituzionale, sollevata dal **** nella memoria, degli art. 18, 19 e 22 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 e dell’art. 52 del r.d. 12 luglio 1934 n. 1214 per preteso contrasto con gli art. 2, 3, 4, 28, 36 e 38 cost., dovendosi applicare, analogicamente, – come si e’ visto – le norme che regolano la responsabilita’ in tema di prestazione professionale medica di un contratto d’opera professionale>
 
 
REPUBBLICA ITALIANA                          N. 32/05 REG.DEC.
               IN NOME DEL POPOLO ITALIANO                          N. 9470 REG.RIC.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta          ANNO 2003 
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
Sul ricorso n. 9470/2003 R.G. proposto da Azienda Ospedaliera Sant’******, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli **********************ò e ***************ò *******, ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Via Po n. 25/B;
CONTRO
– **** s.p.a., ora Fallimento “**** s.p.a.”, in persona del curatore del fallimento, rappresentata e difesa dagli ****************** e ***********, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, Via Confalonieri n. 5, appellante incidentale;
e nei confronti di
– Industrie Guido **** s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
nonché
Nuova **** s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita;
PER LA RIFORMA
Della sentenza resa dal T.A.R. per il Lazio, sezione III, n. 7058/03, pubblicata in data 12 agosto 2003.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della **** S.p.a., ora Fallimento **** s.p.a., che ha pure proposto appello incidentale;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Nominato relatore il Consigliere *****************;
Uditi alla pubblica udienza del 4.5.2004 i difensori delle parti *******, per delega dell’avvocato *********ò e ********, per sé e per delega dell’avvocato ********, come da verbale d’udienza;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
F A T T O
Con sentenza n. 7058 del 12 agosto 2003, il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione III, accolse il ricorso con il quale la **** s.p.a. aveva chiesto l’annullamento degli atti di gara della procedura per l’affidamento di una fornitura di mobili ed arredi ospedalieri indetta dall’Azienda Ospedaliera Sant’******, che aveva provveduto all’aggiudicazione nei confronti della Nuova **** s.p.a., e la conseguente condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno.
Avverso la predetta decisione ha proposto rituale appello l’Azienda Ospedaliera Sant’******, deducendo l’erroneità della sentenza.
Si è costituita la **** s.p.a. per resistere all’appello.
Non si sono costituite la Industrie Guido **** s.p.a e la Nuova **** s.p.a.
Con memorie depositate in vista dell’udienza le parti hanno insistito nelle proprie conclusioni.
Alla pubblica udienza del 4.5.2004 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione, come da verbale.
D I R I T T O
1. L’appello è infondato.
Con la prima doglianza l’Amministrazione appellante lamenta l’erroneità della sentenza appellata sotto un duplice profilo. Da un lato l’Azienda Ospedaliera Sant’****** sostiene che la documentazione, che la ditta Nuova **** s.p.a. ha omesso di presentare, e che ha indotto il T.A.R. a statuire in ordine all’illegittimità della mancata esclusione di quest’ultima, poteva in qualche modo essere supplita dalla dichiarazione resa in data 26/8/2002 dal Presidente della stessa società. Per altro verso l’appellante ritiene che, in ogni caso, l’Amministrazione avrebbe avuto la facoltà di invitare l’impresa a sanare l’irregolarità nella presentazione del certificato mancante, per cui il giudice di primo grado, previa verifica istruttoria circa il possesso sostanziale dei requisiti richiesti dal bando di gara, avrebbe comunque errato nel ritenere doverosa l’esclusione dalla procedura della ditta poi risultata aggiudicataria.
Il motivo non merita accoglimento.
Va osservato, anzitutto, che la dichiarazione resa in data 26/8/2002 dal Presidente di Nuova **** s.p.a. non può in alcun modo ritenersi sostitutiva di quella che avrebbero dovuto rendere i singoli amministratori della società in ordine alla propria posizione personale. Infatti, la lettera di invito alla gara era chiarissima nel richiedere, tra la documentazione amministrativa da presentare, nel caso di società per azioni, che l’ autocertificazione con cui occorreva attestare di non aver riportato condanna penali per reati che incidono sull’affidabilità morale e professionale, di non avere pendenti procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione indicate dall’art. 3 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 e di non avere violato il divieto d’intestazione fiduciaria posto all’art. 17 della l. 10 marzo 1990 n. 55, doveva essere resa, oltre che dal titolare o legale rappresentante, anche dagli amministratori. E non è contestato che tale dichiarazione non sia stata resa dal sig. ************, amministratore delegato della società.
Tale documentazione, per espressa previsione della lettera di invito, veniva richiesta a pena di esclusione e/o non ammissione alla gara. Ne consegue che l’Amministrazione non avrebbe potuto considerare tale omissione come mera irregolarità formale, con conseguente invito, semmai, all’impresa a completare la documentazione di gara, giacchè, nella specie, si tratta della mancata produzione di un documento richiesto a pena di esclusione. In tal senso, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, la portata vincolante delle prescrizioni contenute nel regolamento di gara esige che alle stesse sia data puntuale esecuzione nel corso della procedura, senza che in capo all’organo amministrativo cui compete l’attuazione delle regole stabilite nel bando residui alcun margine di discrezionalità in ordine al rispetto della disciplina del procedimento. Da tale principio discende che, qualora il bando o la lettera di invito comminino espressamente l’esclusione obbligatoria in conseguenza di determinate violazioni, anche soltanto formali, l’Amministrazione è tenuta a dare precisa ed incondizionata esecuzione a tali previsioni, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale circa la rilevanza dell’inadempimento, l’incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva e la congruità della sanzione contemplata nella lex specialis, alla cui osservanza la stessa Amministrazione si è autovincolata al momento dell’adozione del bando (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 25 gennaio 2003, n. 357). Il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure per l’aggiudicazione dei contratti della pubblica amministrazione risponde, infatti, da un lato ad esigenze pratiche di certezza e celerità, dall’altro, e soprattutto, alla necessità di garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti. Soltanto nel varco aperto da un’equivoca formulazione della lettera di invito o del bando di gara, che nella fattispecie è da escludere in virtù del chiarissimo e perentorio disposto della lettera di invito, può esservi spazio per un’interpretazione che consenta la più ampia ammissione degli aspiranti (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17 dicembre 2001, n. 6250).
Né può essere invocata, nella fattispecie, in applicazione degli artt. 15, comma 1, del d.lgs. 358/92, e 16 del d.lgs. 157/95, la facoltà dell’Amministrazione appaltante di invitare le imprese a completare o a chiarire certificati, documenti o dichiarazioni presentate.
Infatti, al di là della circostanza che la possibilità in questione viene prevista dall’art. 15 del d.lgs. 358/92 solo nei limiti della documentazione prevista dai precedenti artt. 11, 12, 13 e 14, inerenti, almeno in parte, a fattispecie diverse da quella in esame, in ogni caso dal tenore di detta disposizione si evince che essa pùò valere a far completare il contenuto di certificazioni comunque presentate, e non certo a consentire ex post la presentazione di una dichiarazione mancante, come quella, sopra richiamata, riguardante il sig. ****.
Con il secondo motivo di appello l’Azienda Ospedaliera Sant’****** censura la sentenza impugnata anche nel capo in cui ha accolto la richiesta, da parte della **** s.p.a., di risarcimento dei danni, riconosciuti per equivalente atteso che la procedura di appalto si era già conclusa, non consentendo, quindi, un risarcimento in forma specifica. Sostiene la ricorrente da un lato che la riedizione virtuale della procedura concorsuale porterebbe comunque all’aggiudicazione a favore della Nuova **** s.p.a., che ha presentato l’offerta migliore, in quanto, secondo un corretto espletamento della gara, quest’ultima impresa sarebbe stata in ogni caso titolare di un diritto all’integrazione dei documenti incompleti. Per altro verso, l’appellante ritiene che la mancata aggiudicazione dell’appalto in capo alla **** s.p.a. non sarebbe imputabile a colpa dell’Amministrazione, per cui non sussisterebbe un requisito necessario per la condanna dell’Azienda Ospedaliera Sant’****** al risarcimento del danno.
La censura è priva di pregio.
Con riguardo al primo profilo, si è già argomentato in ordine alla correttezza della pronuncia di primo grado che ha rilevato l’illegittimità del comportamento della Commissione di gara, che non ha escluso la Nuova **** s.p.a., poi risultata aggiudicataria (come pure, per motivi analoghi, la seconda ****ssificata, Industrie Guido **** s.p.a.). Ne consegue che il T.A.R. ha giustamente riconosciuto alla **** s.p.a., terza graduata, il risarcimento del danno per equivalente per la lesione dell’interesse legittimo al conseguimento dell’aggiudicazione della fornitura in questione, che era già stata interamente eseguita.
Sulla pretesa mancanza di colpa dell’Amministrazione nella violazione delle regole che sovrintendono allo svolgimento dell’appalto, giova premettere alcune considerazioni di sistema in merito all’accertamento del requisito dell’elemento soggettivo nella fattispecie di responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima, dando conto, in particolare, del tormentato percorso evolutivo seguìto dalla giurisprudenza nell’individuazione dei caratteri della colpa dell’apparato pubblico. Il Collegio, rifacendosi ad una recente ricostruzione in materia operata da questo Consiglio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 6 luglio 2004, n. 5012), rileva che, com’è noto, l’impostazione giurisprudenziale tradizionale (cfr. ex multis Cass. Civ., sez. III, 9 giugno 1995, n.6542) formatasi prima della sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 22 luglio 1999 risolveva la questione ritenendo la colpa dell’amministrazione insita nell’esecuzione di un provvedimento amministrativo illegittimo.Secondo tale ricostruzione, quindi, l’illegittimità dell’atto amministrativo portato ad esecuzione integrava, di per sé, gli estremi della colpevolezza postulata dall’art. 2043 c.c. per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria.
La nozione di culpa in re ipsa si fondava, in particolare, sul rilievo che la semplice adozione ed esecuzione di un provvedimento illegittimo da parte di un soggetto dotato di capacità istituzionale e di competenza funzionale ad operare nel settore di riferimento concretasse quella consapevole violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non scritte nella quale si risolve la colpa, secondo la definizione del suo contenuto essenziale fornita dall’art. 43 c.p.
La categoria concettuale della presunzione assoluta di colpa, concepita dalla giurisprudenza anche per semplificare l’accertamento dell’illecito e per favorire la tutela risarcitoria del privato danneggiato (altrimenti onerato di una prova complessa e priva di parametri certi), è parsa, comunque, incompatibile con i principi generali della natura personale della responsabilità civile e del carattere eccezionale di quella oggettiva, risolvendosi nell’ingiusta assegnazione all’amministrazione di un trattamento deteriore rispetto a quello degli altri soggetti di diritto. Tali dubbi di coerenza sistematica della presunzione assoluta di colpa sono stati risolti dalla Suprema Corte, con la nota sentenza a Sezioni Unite n. 500/99, mediante il superamento della teoria della culpa in re ipsa e la contestuale definizione di indici identificativi della colpa, indicati nell’ascrizione all’amministrazione, intesa come apparato, e non al funzionario agente, della “violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che…si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
Va, tuttavia, rilevato che la scarna descrizione degli elementi essenziali della colpa rinvenibile nel passaggio della motivazione della sentenza n. 500/99 dedicato alla questione si rivela carente ed inidonea a fornire agli operatori paradigmi valutativi certi ed al sistema una catalogazione concettuale definita.
La Suprema Corte chiarisce, innanzitutto, che l’indagine riservata al giudice deve riferirsi alla pubblica amministrazione come apparato impersonale e non al funzionario che ha adottato l’atto illegittimo. Tale prima indicazione, se vale a svincolare l’accertamento giudiziale dai canoni d’indagine utilizzati ordinariamente per la verifica della sussistenza della colpevolezza in capo alle persone fisiche, non serve, tuttavia, in positivo, ad orientare l’indagine verso un centro d’imputazione della responsabilità agevolmente individuabile e, soprattutto, non offre sicuri criteri di giudizio nel compimento della disamina contestualmente suggerita.
Le ragioni di tali difficoltà si risolvono, a ben vedere, sull’improprio riferimento dello stato psicologico di colpevolezza all’organizzazione dell’ente, anziché alla persona fisica legittimata ad esprimerne la volontà o ad esso legata da un vincolo di subordinazione come accade per le ipotesi di responsabilità, diretta e indiretta, degli enti privati. La colpa d’apparato sembra, quindi, coincidere con la verifica di una disfunzione della funzione amministrativa, determinata dalla disorganizzazione nella gestione del personale, dei mezzi e delle risorse degli uffici cui è imputabile l’adozione o l’esecuzione dell’atto illegittimo.
Sennonchè, se tale è il carattere essenziale della colpa d’apparato la stessa si rivela impropriamente introdotta nella struttura dell’illecito, sia perché l’eventuale disorganizzazione amministrativa e gestionale non è necessariamente causa dell’illegittimità dell’atto, sia perché la stessa risulta essenzialmente estranea al profilo psicologico dell’azione amministrativa immediatamente produttiva del danno e, quindi, al campo d’indagine riservato al giudice chiamato a pronunciarsi sulla pretesa risarcitoria. Non solo, ma la descrizione appena riferita dei requisiti della colpa omette qualsiasi considerazione e valorizzazione di circostanze esimenti, con ciò precludendo, di fatto, proprio quella penetrante indagine della riferibilità soggettiva del danno alla colpevole azione amministrativa che si raccomanda contestualmente al giudice del risarcimento.
Le ricostruzioni più recenti si sono, invece, basate, in antitesi all’indirizzo della Suprema Corte, sul rilievo critico che il criterio della “…violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi…”, indicato nella sentenza n. 500/99, si risolve, se non attenuato da uno spazio di non colpevolezza, tuttavia non evidenziato dalla Cassazione, nella tautologica affermazione della coincidenza della colpa con l’illegittimità del provvedimento, con surrettizia reintroduzione della tesi che si è dichiarato di voler abbandonare.
In una delle prime e più importanti pronunce che si sono occupate della questione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169) è stata condivisa la concezione oggettiva della colpa suggerita dalla Cassazione, che si basa cioè sull’apprezzamento dei vizi che inficiano il provvedimento, ma sono stati mutuati dalla giurisprudenza comunitaria diversi indici valutativi quali “…la gravità della violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento”.
In applicazione di tali canoni di valutazione, il giudice deve, quindi, formulare il giudizio sulla “colpevolezza” dell’amministrazione, affermandola quando la violazione risulta grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato e, viceversa, negandola quando l’indagine presupposta conduce al riconoscimento di un errore scusabile (per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto).
In una successiva pronuncia (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2001, n. 4239), sono stati ulteriormente chiariti i caratteri della responsabilità della pubblica amministrazione da attività provvedimentale e, accedendo ad una ricostruzione dogmatica della stessa in termini di responsabilità da contatto sociale qualificato, si è precisato che, in analogia alle forme di accertamento giudiziale dell’illecito contrattuale o precontrattuale e, in particolare, del criterio di imputazione del danno definito dall’art. 1218 c.c., la responsabilità dell’amministrazione per l’adozione di un atto illegittimo può presumersi, sotto il profilo dell’ascrivibilità del pregiudizio, ad una condotta colposa dell’apparato.
In esito alla presupposta catalogazione concettuale della natura della responsabilità dell’amministrazione, svincolata dalla struttura e dalla disciplina dell’illecito aquiliano, è stato, quindi, ammesso il privato alla mera allegazione del danno patito e della sua riconducibilità eziologia all’adozione od all’esecuzione di un provvedimento viziato, ed imposto all’amministrazione l’onere di dimostrare la propria incolpevolezza per mezzo della deduzione di elementi di fatto e di diritto idonei a documentare la ricorrenza di un errore scusabile e, quindi, a dimostrare l’assenza di colpa nel proprio operato.
Tale semplificazione probatoria viene, in particolare, giustificata e legittimata non tanto con il ricorso a presunzioni semplici, pure limitatamente invocabili nell’accertamento dell’elemento soggettivo, ma con una distribuzione dell’onere della prova che, sotto un profilo sostanziale, appare rispondere ad esigenze di garanzia e di favore per la posizione processuale del privato e, sotto un profilo di coerenza logico-sistematica dell’ordinamento processuale, si fonda su una lettura dell’illecito dell’amministrazione in termini analoghi a quelli propri dell’inadempimento di un’obbligazione contrattuale o dei doveri di correttezza ravvisabili nella fase delle trattative e, quindi, tipici della responsabilità precontrattuale.
In tale ottica, viene superata l’equivalenza, precedentemente riconosciuta dalla stessa giurisprudenza amministrativa, colpa-violazione grave, ritenendosi, di contro, che quella enunciazione teorica si risolva in un’inammissibile limitazione della responsabilità dell’amministrazione ai soli casi di colpa grave, ma in difetto di una previsione positiva in tal senso, e che, quindi, anche la sussistenza di un vizio non macroscopico possa implicare responsabilità dell’amministrazione nella colpevole inosservanza dei pertinenti canoni d’azione.
Siffatta ricostruzione teorica è stata, poi, confermata sia dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 gennaio 2003, n. 204), sia da quella ordinaria (Cass. Civ., sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157) che, in conformità alla riferita elaborazione concettuale, hanno condiviso l’assimilazione della responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale, segnatamente per lesione degli interessi c.d. pretensivi, a quella contrattuale per violazione di diritti relativi, con le implicazioni già evidenziate in tema di accertamento della colpa.
Il Collegio dissente, tuttavia, dalla ricostruzione che ha fatto applicazione dei principi che presiedono alla responsabilità contrattuale per inadempimento al fine di giustificare l’affermazione della presunzione relativa di colpa e l’ascrizione all’amministrazione dell’onere di dimostrare la propria incolpevolezza e reputa, di contro, che le condivisibili esigenze di semplificazione probatoria sottese all’impostazione criticata possono essere parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, ma utilizzando, per la verifica dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c.
In tale ottica, il privato danneggiato, ancorchè onerato della dimostrazione della “colpa” dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari – acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette – quali la gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto, il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento.
Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n. 500/99, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
La rilevata semplificazione dell’onere probatorio, a carico e a discarico, appena descritta impone, quindi, di definire i caratteri che devono possedere gli elementi addotti a propria discolpa dalla pubblica amministrazione, a fronte della produzione degli indizi a suo carico, perché la situazione allegata integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la “colpa” dell’apparato amministrativo.
Appare utile, al riguardo, riferirsi alla giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia C.E., 5 marzo 1996, cause riunite nn.46 e 48 del 1993; 23 maggio 1996, causa C5 del 1994) che, pur assegnando valenza pressoché decisiva alla gravità della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado di chiarezza e precisione della norma violata e la presenza di una giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita dall’amministrazione, nonché la novità di quest’ultima, riconoscendo così portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni.
Esclusa la correttezza di ogni riferimento, pure in astratto invocabile, al livello culturale ed alle condizioni psicologiche soggettive del funzionario che ha adottato l’atto, risulta, in proposito, accettabile il criterio della comprensibilità della portata precettiva della disposizione inosservata e della univocità e chiarezza della sua interpretazione, potendosi ammettere l’esenzione da colpa solo in presenza di un quadro normativo confuso e privo di chiarezza; restando, altrimenti, l’amministrazione soggetta all’inevitabile giudizio di colpevolezza nella violazione di un canone di condotta agevolmente percepibile nella sua portata vincolante.
Così come appaiono condivisibili i riferimenti, da più parti suggeriti, al criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del professionista di cui all’art. 2236 c.c. che, riconnettendo il grado di colpevolezza richiesto per la costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei problemi tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, introduce un parametro di ascrizione del danno che tiene conto del grado di complessità delle questioni implicate dall’esecuzione della prestazione e che attenua la responsabilità del prestatore d’opera quando il livello di difficoltà risulti rilevante.
La medesima ratio sottesa alla richiamata disposizione civilistica può, infatti, ravvisarsi nelle fattispecie nelle quali la situazione di fatto esaminata dal funzionario comporta la risoluzione di problemi tecnici particolarmente rilevanti ed in cui, in definitiva, l’accertamento dei presupposti di fatto dell’azione amministrativa implica valutazioni scientifiche complesse o verifiche difficoltose della realtà fattuale.
A fronte, infatti, di una situazione connotata da apprezzabili profili di complessità, può, in particolare, ritenersi giustificata, in analogia con la disciplina della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, un’attenuazione di quella dell’amministrazione che la circoscriva alle sole ipotesi di colpa grave.
La ricostruzione appena esposta soddisfa, in particolare, al contempo, le esigenze di superare l’inaccettabile equazione illegittimità dell’atto-“colpa” dell’apparato pubblico, surrettiziamente reintrodotta con la sentenza n. 500/99, di valorizzare gli aspetti obiettivi della condotta antigiuridica dell’amministrazione, di restituire coerenza sistematica alla regola di riparto dell’onere della prova da applicarsi nello schema di responsabilità in questione e, in definitiva, di agevolare le parti nell’adempimento del dovere di dimostrare la colpa, in prima battuta, o la sua mancanza, negli estremi dell’esimente dell’errore scusabile.
Così definiti i caratteri costitutivi della colpa della pubblica amministrazione, risulta agevole rilevare, in ordine alla fattispecie in esame, che sussiste la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera appellante, in quanto l’evento dannoso in capo alla **** s.p.a., e cioè la mancata aggiudicazione dell’appalto, può dirsi imputabile al comportamento “negligente”, e, pertanto, “colposo” della stessa Amministrazione appaltante, poiché quest’ultima ha agito in violazione delle regole di imparzialità e correttezza che essa stessa si era data in sede di gara nella lex specialis a pena di esclusione.
A fronte della violazione del dovere di garantire la par condicio, non risulta, di contro, apprezzabile alcun elemento, allegato dall’amministrazione, riconducibile ad una delle situazioni sopra descritte che autorizzano la configurabilità dell’errore scusabile. Va, quindi, confermata la correttezza della statuizione appellata, là dove ha riconosciuto gli estremi dell’elemento psicologico della condotta lesiva esaminata.
La reiezione dell’appello principale esime il Collegio dall’esame di quello incidentale, proposto dalla **** s.p.a. condizionatamente all’eventuale accoglimento delle censure avanzate dall’Azienda Ospedaliera Sant’******.
2. Alla luce delle suesposte considerazioni, ed assorbito quant’altro, il ricorso in appello va rigettato.
3. Sussistono, comunque, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del secondo grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione V) rigetta l’appello in epigrafe.
Compensa le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 4.5.2004 con l’intervento dei sigg.ri
*****************                                           Presidente,
******************                                         Consigliere,
Chiarenza Millemaggi Cogliani           Consigliere,
*************                                    Consigliere,
*****************                                         Consigliere estensore.
 
L’ESTENSORE                                            IL PRESIDENTE
f.to *****************                                       f.to *****************
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10 gennaio 2005
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
 
IL DIRIGENTE
f.to **************

Lazzini Sonia

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