Il consenso dell’avente diritto nell’arduo discernere tra bene integrità fisica e bene vita

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1.     Il consenso dell’avente diritto: definizione e portata.
 
Il consenso dell’avente diritto, di cui all’art. 50 c.p., fa parte delle cause di giustificazione, ossia delle cause che elidono l’antigiuridicità della condotta.
Secondo la dottrina prevalente, la sua ratio si rinviene nell’ interesse mancante: L’ordinamento giuridico non trova alcuna utilità nell’incriminare la condotta lesiva, in quanto lo stesso titolare del bene leso non è interessato alla sua salvaguardia.
Problematica è la definizione della sua portata: Conclusione scontata è che il diritto in questione debba essere disponibile, ossia suscettibile della disposizione del suo titolare.
Tuttavia non altrettanto immediata è la delineazione dei diritti appartenenti a questo genus.
Comunemente sono considerati beni disponibili i beni dotati di immediata utilità sociale e che lo Stato riconosce esclusivamente per garantirne al singolo il libero godimento.[1]
Tra questi si annoverano i diritti patrimoniali e gli attributi della personalità, quali ad esempio onore e libertà morale.
Va puntualizzato però che il consenso scrimina una lesione circoscritta degli stessi, che non ne determini l’annichilimento assoluto. E’ necessario inoltre che la condotta non integri, ex art.5 c.c., atti di disposizione contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume.
Quindi anche quando si tratti dell’esercizio del legittimo potere di disporre di beni afferenti alla propria personalità, si pone un limen oltre il quale il soggetto non può porsi, rinvenibile nella volontà dello Stato di tutelare interessi di primaria importanza, che trascendono la dimensione e la disponibilità individuale per accedere a quella superindividuale.
 
 
2.     L’articolo 50 c.p. negli atti di disposizione del proprio corpo
 
Con riferimento al bene integrità fisica, la disciplina si individua nel combinato disposto dell’art. 50 c.p. e dell’art. 5 c.c.[2]
Laddove quindi la condotta dispositiva inerisca lo stato di salute del soggetto, la scriminante subisce un limite ulteriore, quello della diminuzione permanente dell’integrità fisica.
Latu sensu tuttavia sono considerati leciti tutti quei trattamenti che pur intervenendo in via “negativa”, determinano comunque un benefico miglioramento dello stato psico-fisico del paziente.
La definizione puntuale della portata della scriminante non è di poco conto, viste le importanti implicazioni in materia di responsabilità del medico nel trattamento medico-chirurgico.
Si ravvisa infatti nel consenso informato il fondamento giuridico della liceità della condotta dell’operatore sanitario.
Il trattamento chirurgico, infatti, anche se eseguito lege artis e pur nell’ipotesi in cui abbia dato luogo ad un esito fausto, sembrerebbe integrare, almeno apparentemente, le fattispecie dei delitti di lesioni personali e financo di omicidio[3], nonostante si tratti di esercizio di facoltà legittima, e, nella specie, esplicazione di attività giuridicamente autorizzata dallo Stato.
Due sono le principali correnti in materia:
La prima sostiene che siano comunque integrate le fattispecie delittuose ex art. 582 c.p. e 575 c.p., ricorrendo tuttavia alle scriminanti del consenso dell’avente diritto o, in mancanza, dello stato di necessità, per depenalizzare la condotta;
La seconda esclude l’ illiceità della condotta già sul piano della tipicità.
Ci si deve forse interrogare sulla effettiva funzione del consenso del paziente, chiedendosi se quest’ultimo, riferito comunemente ai beni vita ed integrità fisica, non vada piuttosto ricondotto alla libertà di autodeterminazione del paziente.[4]
Infatti indipendentemente dall’esito, che può essere anche fausto, l’intervento dovrebbe essere comunque considerato arbitrario, se compiuto senza o contro il consenso dell’ammalato.
Conseguentemente per scriminare la condotta del medico si fa ricorso all’articolo 51 c.p., “esercizio di diritto”, laddove l’attività medico-chirurgica è svolta previo rilascio di apposita autorizzazione statale, e costituisce l’esplicazione del diritto/dovere (professionale) di curare.[5]
 
 
3.     Il consenso dell’avente diritto e il bene vita
 
La scriminante in questione non opera però ove il consenso del soggetto riguardi la condotta lesiva del bene vita, al quale bene non può non essere riconosciuta natura indisponibile.
Il consenso dell’avente diritto, pur non operando come scriminante, funge da attenuante.
Nella fattispecie ex art. 579 c.p.[6], “omicidio del consenziente”, si evidenzia infatti una riduzione consistente della pena( da sei a quindici di reclusione contro il minimo di ventuno anni dell’omicidio ex art.575 c.p.).
Perché venga applicata la disposizione più favorevole è necessario che il consenso, non inficiato da errore, violenza e dolo[7], sia espresso da un soggetto maggiorenne e capace di intendere e di volere[8].
Tale fattispecie viene inserita tra i quattro modelli fondamentali di esplicazione dell’atto eutanatistico (suicidio, aiuto al suicidio, omicidio del consenziente, omicidio comune) in virtù del fatto che l’autentico elemento che caratterizza questo particolare atto non si rinviene tanto nel consenso del sofferente quanto nel motivo di pietà del soggetto agente.[9]
L’ordinamento nella successiva disposizione ex art. 580 c.p. “istigazione o aiuto al suicidio” incrimina altresì qualsiasi forma e grado di partecipazione all’altrui suicidio.
Tuttavia non tutte le legislazioni hanno apprestato una disciplina in materia, ciò forse dipendendo dal fatto che la mancanza di uno specifico intervento, data la “liceità” del suicidio, determina la depenalizzazione di tutte le condotte a questo accessorie.
L’orientamento della giurisprudenza tedesca, ad esempio, propende per la non punibilità solo quando il soggetto non ha un obbligo giuridico rilevante in tal senso nei confronti del suicida.[10]
 
 
4.     Eutanasia: Quale confine tra aiuto “a” morire e aiuto “nel” morire
 
Le fattispecie di cui sopra, come anticipato, fanno capo alla delicata e dibattuta tematica dell’eutanasia.
Si tratta di procedimenti curativi compiuti attraverso l’impiego di prodotti analgesici ed anestetici, diretti ad alleviare le sofferenze di soggetti in stato terminale. Sin quando la terapia si pone in questi termini, nessuna ombra ottenebra la natura lecita della condotta. Laddove invece la terapia consista anche di sostanze analgesiche con proprietà abbrevianti della vita, volte cioè non solo a lenire i dolori ma anche ad “agevolarne la cessazione definitiva”, la liceità della condotta non è più così palese.
Diventa pertanto labile il confine tra aiuto “a” morire (lecito) e aiuto “nel” morire (illecito).
Il criterio che potrebbe essere impiegato per tale giudizio è quello della conformità alle regole deontologiche.
Il medico, nell’assolvere il suo dovere di cura del paziente, deve somministrare farmaci il cui effetto primario dovrebbe essere quello, se non di guarire, almeno di attenuarne i patimenti, anche quando ciò possa portare alla morte anticipata del paziente?
Si tratta di ipotesi in cui non è semplice stilare in modo freddo e razionale il confine tra lecito ed illecito, e che sono devolute all’analisi attenta dell’operatore del diritto.
 
 
4.1 Forme di manifestazione dell’eutanasia.
 
Va infine compiuta una breve disamina della eutanasia terapeutica vagliando le sue possibili forme di manifestazione.
Si pone in primo luogo una summa divisio tra eutanasia terapeutica attiva e passiva, derivando la prima dalla condotta attiva del medico e la seconda dall’omissione di interventi terapeutici determinanti il mantenimento in vita del paziente.
E’ necessario quindi distinguere l’ipotesi di eutanasia terapeutica attiva posta in presenza del consenso del soggetto, nel qual caso opera l’art.579 c.p., da quella tenuta in mancanza di esso, determinando l’applicazione della più gravosa disciplina dell’articolo 575 c.p.
L’eutanasia passiva si collega invece all’articolo 40 c.p. secondo comma, in cui si afferma che non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
E’ opportuno anche qui differenziare l’ipotesi illecita di eutanasia passiva non consensuale da quella depenalizzata dal consenso del paziente.
In forza dell’articolo 32 cost. secondo comma nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, asserendo inoltre che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Si riconosce quindi all’individuo il diritto al rifiuto delle cure, anche quando a questo consegua la morte, diritto costituzionalmente garantito che consiste nel divieto di trattamenti sanitari obbligatori e quindi nell’accanimento terapeutico: Si attribuisce cioè un diritto a lasciarsi morire e non un diritto a morire.
La morte deve essere conseguenza, sebbene non immediata, della rinuncia del paziente alle cure.
Ciò esclude quindi tutte le ipotesi in cui essa deriva invece da fattori esogeni.
In tutte le sue esplicazioni è possibile rinvenire un nucleo di requisiti essenziali e caratterizzanti l’atto eutanatistico: soggettivi (la condotta del soggetto deve essere mossa da pìetas), oggettivi (irreversibilità dello stato del paziente, vicinanza del trapasso, inguaribilità del male).
 
 
 
5.     Conclusioni
 
Tematiche come il diritto di disporre della propria esistenza, il diritto alla non vita e la libertà di autodeterminazione investono problematiche di natura non esclusivamente giuridica, ma anche morale, etica e filosofica.
E’ soltanto grazie ad una osservazione poliedrica, che tenga conto della complessità degli interessi “in gioco” e delle dinamiche sociali, giuridiche ed anche religiose coinvolte, che si potrà giungere ad una opportuna soluzione, ad un connubio tra l’impulso depenalizzante derivante dal pathos e dalla pìetas di cui è intriso l’atto di eutanasia ed il forte disvalore della condotta lesiva o potenzialmente lesiva del bene vita.
 
 
 
Passalacqua Caterina
 
 
 
Bibliografia
 
 
(A cura di )M. Abate, Il Codice Penale commentato con la giurisprudenza, Casa Editrice La Tribuna, Piacenza, 1990.
G.Fiandaca- E.Musco, Diritto Penale Parte Generale, 5^ ed., Bologna, 2007
A. Manna, v. Trattamento medico chirurgico, in Enc. dir., XLIV, p.1280 e ss., Giuffrè Editore, Varese, 1992
M. Porzio, v. Eutanasia, in Enc. dir., XVI, p.103 e ss., Giuffrè Editore, Varese, 1967.
 


[1] G.Fiandaca- E.Musco, Diritto Penale Parte Generale, 5^ ed., Bologna, 2007
[2] L’articolo 5 c.c. recita: Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.
[3] Adelmo Manna, v. Trattamento medico chirurgico, in Enc. dir., XLIV, p.1280 e ss., Giuffrè Editore, Varese, 1992.
[4] Adelmo Manna, v. Trattamento medico chirurgico, cit.
[5] Vanno tra l’altro distinte le ipotesi di esito fausto ed infausto dell’operazione chirurgica, in quanto nel primo caso appare oltremodo difficile sostenere che il medico abbia cagionato “una malattia nel corpo o nella mente” del paziente.
[6] L’articolo in questione recita: Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61.
Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso:
1. contro una persona minore degli anni diciotto;
2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
3. contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.
[7] “Per la sussistenza della figura attenuata di omicidio prevista dall’art.579 c.p. il consenso dell’offeso deve essere valido e senza riserve, mentre sono indifferenti la forma e il modo in cui questo consenso si esprime” Cass. Pen., 24 aprile 1953, Cimino, Il Codice Penale commentato con la giurisprudenza, a cura di Mario Abate Casa Editrice La Tribuna, Piacenza, 1990.
[8] “Non può essere ritenuto valido il consenso alla propria uccisione, scritto in un biglietto, quando sia dato in stato di deficienza psichica a causa di una grave lesione alla testa, sì che, in seguito, evitata la morte, la vittima non ricordava neppure di aver sottoscritto il biglietto” Cass. Pen., 23 febbraio 1953, Amori, , Il Codice Penale commentato con la giurisprudenza, a cura di Mario Abate, Casa Editrice La Tribuna, Piacenza, 1990.
[9] Mario Porzio, v. Eutanasia, in Enc. dir., XVI, p.103 e ss., Giuffrè Editore, Varese, 1967.
[10] Mario Porzio, v. Eutanasia, cit.

Passalacqua Caterina

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