Il c.d. diritto di uso esclusivo su parti comuni del condominio

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Sommario: 1. Premessa. La vicenda processuale. – 2. La disciplina oggetto di censura e le questioni sollevate. – 3. La decisione della Corte. – 4. Considerazioni conclusive.

§ 1. Premessa. La vicenda processuale

Le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, con sentenza n. 28972 del 17 dicembre 2020, hanno risolto una questione di massima di particolare importanza avente ad oggetto la creazione pattizia del c.d. diritto reale di “uso esclusivo” su una porzione di cortile condominiale.

Giova operare un breve excursus della vicenda processuale, al fine di inquadrare correttamente le questioni giuridiche oggetto della pronuncia.

A seguito dello scioglimento della comunione avente ad oggetto un edificio composto da più unità immobiliari, uno degli originari comproprietari acquistava la proprietà esclusiva di un appartamento sito al primo piano del fabbricato e di un negozio sito al piano terra, in aggiunta al diritto di “uso esclusivo della porzione di cortile antistante”; in epoca successiva, gli immobili de quibus venivano alienati agli odierni controricorrenti che, in forza del titolo, acquistavano il diritto di “uso esclusivo” sulla porzione di cortile antistante l’edificio.

Gli odierni ricorrenti, proprietari delle unità immobiliari site al primo piano del condominio, proponevano domanda giudiziale e contestavano l’appropriazione dell’area del cortile antistante il negozio, che asserivano ricomprese tra le parti comuni dell’edificio ex art. 1117 c.c. I convenuti si costituivano e chiedevano il rigetto della domanda, eccependo di avere diritto all’uso esclusivo della suddetta area in forza del titolo di acquisto ovvero, in subordine, per usucapione della relativa servitù o, ancora, in forza dell’art. 1021 c.c.

A seguito del rigetto delle domande principali da parte dell’adito Tribunale, gli attori impugnavano la sentenza di prime cure ed i convenuti resistevano proponendo appello incidentale.

La Corte territoriale, in accoglimento dell’appello incidentale, evidenziava che, all’atto di costituzione del condominio (prodottasi a seguito dello scioglimento della comunione) gli originari condividenti avevano indicato il terreno sottostante e circostante l’edificio come incluso nelle parti comuni, facendo tuttavia salvi gli “usi esclusivi” delle porzioni di cortile antistanti i negozi a favore dei relativi proprietari. L’uso esclusivo, menzionato tanto nell’atto di divisione quanto nel successivo atto di compravendita con il quale gli appellati avevano acquistato la proprietà del negozio, andava ricondotto agli artt. 1102 e 1122 c.c. ed era perciò perfettamente legittimo, essendo stato autorizzato, all’atto di costituzione del condominio, da tutti i condomini.

Gli appellanti proponevano ricorso per la cassazione della sentenza sulla base di sei motivi, cui gli intimati resistevano con controricorso.

Con ordinanza interlocutoria del 2 dicembre 2019, n. 31420, la Seconda Sezione civile trasmetteva gli atti per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, disposta dal Primo Presidente con fissazione dell’udienza in data 21 aprile 2020.

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§ 2. La disciplina oggetto di censura e le questioni sollevate

La questione della natura del c.d. “uso esclusivo” in ambito condominiale è stata oggetto, negli anni, di un acceso contrasto giurisprudenziale, del quale dà conto l’ordinanza interlocutoria del 2 dicembre 2019, n. 31420.

In primis, l’ordinanza de qua tratteggia i caratteri del c.d. “uso esclusivo”, che assumerebbe il rango di un diritto perpetuo e a contenuto non strettamente personale, essendo collegato al diritto di proprietà su una porzione del condominio e, come tale, trasferibile ai successivi aventi causa dell’unità immobiliare cui esso accede (Cass. civ., Sez. 2, 16/10/2017, n. 24301). Le peculiarità del diritto in questione ne precluderebbero, perciò, la riconducibilità al diritto di uso previsto dall’art. 1021 c.c. (Cass. civ., Sez. 2, 16/10/2017, n. 24301 e, in senso conforme, Cass. civ., Sez. 2, 10/10/2018, n. 24958; Cass. civ., Sez. 2, 31/05/2019, n. 15021; Cass. civ., Sez. 2, 04/07/2019, n. 18024; Cass. civ., Sez. 6 – 2, 03/09/2019, n. 22059), che ha natura strettamente personale e per il quale il codice prevede stringenti limiti di durata e di trasferibilità, oltre a peculiari modalità di estinzione[1].

Si pone, dunque, il tema della natura giuridica del c.d. “uso esclusivo” e, in particolare, sorge il problema della sua compatibilità con i principi di tipicità e del numerus clausus dei diritti reali.

La giurisprudenza maggioritaria, anzitutto, è concorde nel negare che il diritto di “uso esclusivo” possa essere assimilato ad un diritto di servitù, «il cui contenuto non può consistere in un generico, ed anzi addirittura esclusivo, godimento del fondo servente, né in una generale esclusione di ingerenza altrui, sicché coessenziale all’individuazione di una servitù prediale è la specificazione di date facoltà positive di uso o di date astensioni» e, ancora, le limitazioni alla facoltà di godimento imposte al fondo servente non possono mai risolversi «nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente[2]».

Una soluzione accolta da parte della giurisprudenza (Cass. civ., Sez. 2, 16/10/2017, n. 24301) argomenta che l’ “uso esclusivo” sia estrinsecazione del potere di autonomia negoziale riconosciuto alle parti le quali, derogando convenzionalmente al disposto dell’art. 1102 c.c., si limiterebbero a conformare secondo i loro desiderata il contenuto e l’ampiezza delle facoltà di godimento di ciascun comproprietario-condomino sulla cosa comune, senza tuttavia incidere sulla titolarità, che permane in capo alla collettività (condominio).

In particolare, questa giurisprudenza ha fatto leva sulla nozione di “uso esclusivo” di cui all’art. 1126 c.c. e su quella di “uso individuale” contenuta nell’art. 1122 c.c. in relazione alle parti comuni dell’edificio, desumendo che il diritto reale dell’usuario possa legittimamente coesistere con le facoltà riconosciute agli altri comproprietari, pur se esercitate secondo modalità non pienamente paritarie. Siffatta interpretazione, dopo aver ricondotto il diritto di “uso esclusivo” in ambito condominiale ad una legittima espressione dell’autonomia negoziale, ne ha poi enucleato gli elementi strutturali, individuandoli nella perpetuità e trasferibilità. Tale ricostruzione del diritto di “uso esclusivo” quale diritto «“quasi” uti dominus» deve tuttavia confrontarsi con i dubbi sollevati da una parte della dottrina, la quale rileva come la modifica del contenuto dei diritti reali e, nella specie, del diritto di comproprietà – del quale la facoltà di godimento rappresenta certamente componente minima ed essenziale – è preclusa all’autonomia delle parti, le quali finirebbero con il violare il principio di tipicità in materia di iura in re aliena.

Il numerus clausus e la tipicità dei diritti reali sarebbero altresì di ostacolo alla qualificazione del c.d. “uso esclusivo” come obbligazione propter rem[3] “atipica”, ovverosia una regolamentazione pattizia volta a disciplinare, in deroga a quanto previsto dalla legge, il contenuto di un diritto reale e le relative modalità di esercizio. In siffatta ipotesi, peraltro, sembrerebbe non potersi prescindere da un controllo di meritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c., in relazione all’interesse perseguito dai paciscenti.

La Seconda Sezione rileva, da ultimo, che le ricostruzioni prospettate dalla dottrina e dalla giurisprudenza lasciano aperta la questione della trascrivibilità e, conseguentemente, dell’opponibilità ai terzi, di siffatto diritto, attesa la tassatività dell’elencazione degli atti trascrivibili ex art. 2643 c.c. Ed infatti, «Di modificazioni del diritto di proprietà, di comunione o di condominio non si parla in alcuno dei primi tredici numeri dell’art. 2643 c.c., né nell’art. 2645 c.c., che prevede la trascrizione di “ogni altro atto o provvedimento che produce… taluni degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643”».

§ 3. La decisione della Corte

Le Sezioni Unite puntualizzano, in via preliminare, come l’origine del c.d. diritto reale di “uso esclusivo” debba essere rintracciata non già nella giurisprudenza, bensì nella prassi negoziale – in particolare notarile –; rilevano, poi, che l’indagine sulla natura giuridica ed il contenuto del diritto in questione è stata affrontata per la prima volta nel 2017 da una pronuncia “capostipite”[4], richiamata dalla stessa ordinanza interlocutoria.

Il Collegio ripercorre l’iter logico-argomentativo della sentenza de qua, la quale esclude l’incompatibilità del diritto in esame con il principio del numerus clausus: poiché l’art. 1117 c.c. consente ai condomini, in forza di un valido titolo, di escludere parti dell’edificio dalla presunzione di comunione, a fortiori è certamente legittima l’attribuzione del diritto di “uso esclusivo” a favore di uno dei comproprietari. Tale diritto, peraltro, non inciderebbe sulla qualificazione della parte in questione come “comune”, ma si tradurrebbe in una semplice deroga negoziale all’art. 1102 c.c., mediante la quale le modalità di fruizione e di godimento del bene comune non sarebbero paritarie (beneficiando l’usuario di maggiori utilità su di esso). Da siffatte considerazioni discenderebbe, quale corollario, che il c.d. “uso esclusivo” non ha carattere personale, ma si trasmette anche ai successivi aventi causa, al pari degli altri poteri dominicali sulle parti comuni.

Le Sezioni Unite rilevano, anzitutto, l’assoluta difformità tra il c.d. diritto di “uso esclusivo” sulle parti comuni ed il diritto di uso disciplinato dall’art. 1021 c.c., da un lato, e le servitù prediali, dall’altro, non potendosi ammettere una facoltà di godimento generale del fondo servente da parte del proprietario del fondo dominante.

Dopo aver tracciato le coordinate di indagine, il Collegio focalizza la propria attenzione sulla nozione di “uso”, contenuta sia all’art. 1102 c.c. (rubricato «uso della cosa comune») sia all’art. 1117 c.c. (rubricato «parti comuni dell’edificio»). In particolare, i giudici rilevano come il termine “uso” descriva un insieme di facoltà e poteri che spettano a ciascuno dei comproprietari, i quali «forma[no] parte intrinseca e caratterizzante, nucleo essenziale» del contenuto del diritto di comproprietà; essenzialità che emerge, peraltro, dal disposto dell’art. 1102 c.c., che vieta al singolo partecipante di ostacolare ovvero impedire agli altri comunisti «di farne parimenti uso [della cosa comune] secondo il loro diritto». È ben possibile, rileva il Collegio, che tale uso sia più intenso da parte di uno o alcuni dei comproprietari, così come è possibile che assuma «caratteri differenziati rispetto alla regola della indistinta paritarietà»; ciò che non è consentito all’autonomia privata è, invece, l’elisione tra un certo diritto ed il suo contenuto tipico. Nel caso di specie, la configurazione di un diritto reale di “uso esclusivo” («“quasi” uti dominus») in capo ad uno solo dei comproprietari finisce inevitabilmente per svuotare il diritto di proprietà del suo nucleo fondamentale, determinandone lo snaturamento strutturale.

L’attribuzione del c.d. diritto reale di “uso esclusivo” ad uno solo dei comproprietari non trova conforto, a parere del Collegio, neppure nella previsione di cui all’art. 1126 c.c. che, nell’autorizzare il trasferimento del diritto di proprietà dei lastrici solari ad un solo condomino, introduce una regola assolutamente peculiare, come tale insuscettibile di essere estesa a fattispecie differenti: «[i lastrici solari] pur svolgendo una funzione necessaria di copertura dell’edificio, e costituendo come tali parti comuni, possono però essere oggetto di calpestio, per la loro conformazione ed ubicazione, soltanto da uno o alcuni condomini, sicché l’uso esclusivo […] non priva gli altri condomini di alcunché».

Del pari, sono inidonee a costituire la base normativa del c.d. diritto reale di “uso esclusivo” le previsioni contenute agli artt. 1120, comma 2, n. 2 e 1122 bis c.c., essendo norme di carattere eccezionale che, in ogni caso, non determinano modificazioni strutturali alla comproprietà delle parti comuni.

Da ultimo, le Sezioni Unite escludono che il c.d. diritto di “uso esclusivo” possa essere il prodotto dell’autonomia negoziale, a ciò ostando i principi della tipicità e del numerus clausus dei diritti reali. La Corte rileva, invero, come parte (minoritaria) della dottrina si mostri favorevole alla configurabilità, in capo ai privati, di un potere di “creazione” di diritti reali atipici, che incontrerebbe i soli limiti, comuni a tutte le tipologie contrattuali, della contrarietà all’ordine pubblico, della illiceità del negozio e della meritevolezza dell’interesse perseguito.

La fallacia di siffatto orientamento interpretativo risiede, a parere del Collegio, non soltanto nella circostanza che i principi de quibus rappresentano un pilastro fondamentale dell’intero impianto codicistico ma, a fortiori, nella considerazione che i diritti reali, in quanto idonei ad incidere la sfera giuridica di soggetti terzi, devono essere presidiati da una serie di cautele normative. Osservano i giudici che «creare diritti reali atipici per contratto vorrebbe dire perciò incidere non solo sulle parti, ma, al di fuori dei casi in cui la legge lo consente, anche sugli acquirenti della cosa: ed in definitiva, paradossalmente, vincolare terzi estranei, in nome dell’autonomia contrattuale, ad un regolamento eteronimo»: risulta assolutamente evidente, alla luce di siffatte considerazioni, l’insanabile contrasto, da un lato, con il principio della relatività degli effetti del contratto sancita dall’art. 1372 c.c. e, dall’altro, con l’art. 42 Cost. (che pone una esplicita riserva di legge in materia di modi di acquisto e di godimento della proprietà privata).

Una ulteriore conferma del divieto di creare diritti reali atipici è data dall’analisi di numerose disposizioni codicistiche tra le quali, ex multis, la Corte richiama l’art. 1322 c.c. – il quale sancisce il principio dell’autonomia privata in ambito contrattuale –, l’art. 1379 c.c. – dal quale si desume un generale disfavore dell’ordinamento verso limitazioni particolarmente incisive del diritto di proprietà – e l’art. 2643 c.c. in tema di trascrivibilità dei diritti reali.

Da ultimo, il Collegio esamina il tema della sorte del titolo negoziale che attribuisca ad uno dei condomini il c.d. diritto di “uso esclusivo” su una parte comune.

In particolare, una prima verifica concerne l’effettiva volontà dei paciscenti, al fine di determinare se questi abbiano effettivamente voluto costituire un diritto di “uso esclusivo” sulla parte comune ovvero trasferire il relativo diritto di proprietà, derogando alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c. L’indagine interpretativa non si risolve, ex art. 1362 c.c., nel solo esame del «senso letterale delle parole», ma si coniuga con l’analisi della «comune intenzione delle parti», che può emergere da elementi testuali ed extratestuali.

È ben possibile, inoltre, che il diritto di “uso esclusivo” possa essere ricondotto al diritto di uso ex art. 1021 c.c. qualora ne sussistano i presupposti normativi o, ancora, che operi la conversione del negozio nullo (qual è, appunto, quello che costituisce siffatto diritto reale atipico) in un contratto avente ad oggetto la concessione di un uso esclusivo e perpetuo di natura obbligatoria.

§ 4. Considerazioni conclusive

La soluzione interpretativa seguita dalle Sezioni Unite è certamente coerente con l’impianto codicistico in materia di iura in re aliena: la Corte si preoccupa di ribadire con fermezza la centralità dei principi di tassatività e numerus clausus dei diritti reali, i quali non possono ritenersi superati né limitati in nome dell’ampliamento dell’autonomia privata e di una maggiore libertà negoziale. La proprietà, come emerge dalla stessa Carta Costituzionale, ha una funzione economico sociale, che l’ordinamento è chiamato a tutelare: le modalità di acquisto, il contenuto ed i limiti dei diritti reali sono perciò presidiati da molteplici cautele, che il sistema codicistico appronta in un’ottica di protezione tanto del titolare, quanto dei soggetti terzi cui il diritto è opponibile.

Una giurisprudenza risalente rileva, in tal senso, come «la proprietà non deve essere asservita per ragioni privatistiche in modo tale da rendersi quasi illusoria e priva di contenuto, inetta quindi a realizzare i propri fini essenziali, convergenti da un lato alla integrazione e allo sviluppo della personalità individuale e dall’altro al benessere e al progresso della comunità […][5]». Ed infatti, la previsione di un diritto di “uso esclusivo” su una parte comune dell’edificio in favore di uno solo dei condomini si tradurrebbe, inevitabilmente, nello svuotamento di contenuto del diritto degli altri comproprietari, costituendo l’uso ed il godimento della res facoltà intrinsecamente connesse alla titolarità del diritto di proprietà.

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Note

[1] Il diritto di uso attribuisce al suo titolare la facoltà di «servirsi di essa [res] e, se è fruttifera, può raccogliere i frutti per quanto occorre ai bisogni suoi e della sua famiglia. I bisogni si devono valutare secondo la condizione sociale del titolare del diritto». Ex art. 1024 c.c., il diritto di uso non può essere ceduto né concesso in locazione, stante il carattere strettamente personale. Al diritto di uso si applicano, in quanto compatibili, le norme dettate in tema di usufrutto: in particolare, il diritto di uso non può eccedere la durata della vita del suo titolare (Cass. civ., 12 ottobre 2012, n. 17491) e, di conseguenza, non può formare oggetto di disposizioni testamentarie.

[2] Cass. civ., ord. 2 dicembre 2019, n. 31420, la quale cita considerazioni già svolte da Cass. Sez. 2, 25 ottobre 2012, n. 18349 e Cass., Sez. 2, 22 aprile 1966, n. 1037.

[3] «L’obligatio propter rem è un legame indissolubile tra l’obbligazione e la cosa, e la sua funzione causale giustifica l’individuazione del soggetto obbligato nel titolare del diritto reale sulla res.» (Cass. civ., 5 settembre 2000, n. 11684)

[4] Cass. Sez. 2, 16 ottobre 2017, n. 24301.

[5] Cass. civ., 31 maggio 1950, n. 1343.

Sentenza collegata

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Valentina Siciliano

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