I poteri del Giudice del Lavoro nella “neo-giurisdizione” pubblica e il permanere della stessa per le selezioni nell’ambito della stessa figura professionale e/o area anche dopo la Sentenza della Cassazione SS.UU.CC. n. 15403 del 27.2.2003

Redazione 08/10/04
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di Giovanni Palladino
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1.# Natura degli atti di gestione del rapporto nel pubblico impiego “privatizzato” – Completezza e profondità dei poteri del Giudice del Lavoro.

Il complesso e graduale procedimento di formazione del sistema normativo iniziato con il D. L.vo n. 29/1993 ha prodotto, a distanza di undici anni, oramai, una regolamentazione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche certamente nuova, tendenzialmente protesa al maggior grado di uniformità con il lavoro privato e pur sempre qualificata dalla natura pubblica del datore di lavoro.
La concreta demarcazione della linea di confine tra la sfera dell’alta organizzazione (mantenuta alla giurisdizione amministrativa ex artt. 2, co. 1 e 5, co. 1, D. L.vo n. 165/2001 – T.U. sul lavoro pubblico) e quella della cd. “micro-organizzazione”, agganciata alla concreta gestione del rapporto di lavoro e trasferita al giudice ordinario (artt. 2, co. 2 e 5, co. 2, T.U. cit.), insieme alla determinazione in termini concreti dell’interferenza sul rapporto che l’essere pubblica amministrazione comporta, costituiscono i temi centrali della rivoluzione culturale e normativa voluta dalle leggi di “privatizzazione”[1] del pubblico impiego e il più difficile banco di prova del giudice del lavoro[2] che deve operare una razionalizzazione del dato normativo per poi farne applicazione.
Fondamentale è la ricognizione delle fonti.
Sono individuabili tre livelli di produzioni:
livello contrattuale collettivo;
livello generale della disciplina comune del rapporto di lavoro privato;
livello (residuale) pubblicistico.
Il momento ricognitivo e quello interpretativo si incontrano e si fondono e sugli stessi l’interprete esercita attività di studio delicatissima giacché su questo piano concreto si mette in gioco l’effettiva realizzazione del progetto di reale privatizzazione materiale voluto dal legislatore.
Quello, ad esempio, sulla natura “attizia” o contrattuale delle determinazioni del datore di lavoro pubblico è stato un argomento piuttosto dibattuto in dottrina e in giurisprudenza.
In particolare nel 1999 il Cons. St., ad. gen., 10 giugno 1999 n. 9 e la Cass., sez. lav., 7 aprile 1999 n. 3373, costituivano una emblematica espressione dei gravi riflessi applicativi derivanti dal diverso ed antitetico approccio del giudice ordinario e amministrativo alla c.d. “privatizzazione”[3] del rapporto di pubblico impiego ed ai problemi da questa originati. Per la prima volta gli organi apicali delle due magistrature assumono una chiara posizione dogmatica in ordine al cruciale problema della natura degli atti di gestione del rapporto di lavoro adottati dalle pubbliche amministrazioni in seguito al D. L.vo 3 febbraio 1993 n. 29: il giudice amministrativo qualifica tali determinazioni gestionali come atti amministrativi, facendone discendere la sindacabilità mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, mentre la Corte Suprema adotta la prevalente tesi, già incidentalmente avallata da C. Cost. 16 ottobre 1997 n. 309, della natura negoziale di tale attività, intendendo, ad es., la sanzione disciplinare comminata al lavoratore pubblico come esercizio del “diritto potestativo conferito all’amministrazione dalle regole del rapporto (come determinate dal contratto o dalla legge)”.
Tale dibattito dottrinale non rappresenta solo una diatriba accademica, poiché la qualificazione dell’atto di gestione adottato nell’ambito del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni spiega rilevanti riflessi di natura sostanziale e giustiziale, così schematizzabili[4]:
la negazione della natura amministrativa dell’atto gestionale comporta l’inapplicabilità delle regole fissate dalla l. 7 agosto 1990 n. 241, quali l’avviso di inizio del procedimento, il contraddittorio infraprocedimentale con il destinatario del provvedimento (e con gli altri soggetti che possano subirne pregiudizio), la comunicazione all’interessato dei termini e dell’autorità cui è possibile ricorrere, la motivazione. A tale ultimo proposito, tuttavia, non può tralasciarsi la possibile valenza generale dell’art. 3, l. n. 241 del 1990, che sancisce l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi, ivi compresi quelli “concernenti il personale”;
dalla natura negoziale dell’atto gestionale deriva che il sindacato dal giudice ordinario dovrebbe essere operato non alla stregua dei parametri di legittimità (violazione di legge, eccesso di potere, incompetenza), ma alla luce dei vizi propri della patologia negoziale (nullità, annullabilità, inesistenza, risolubilità) e derivanti dalla violazione datoriale delle norme di legge e delle clausole contrattuali che regolano l’azione privatistica della p.a. datrice di lavoro, ovvero alla luce della violazione del principio di correttezza, buona fede e di parità di trattamento nell’esecuzione del rapporto lavorativo, spesso richiamato dalla magistratura ordinaria del lavoro;
l’atto gestionale di natura negoziale, non essendo dotato d’imperatività, è inidoneo a degradare ad interessi legittimi i diritti del lavoratore derivanti dalla legge o dal contratto;
all’affermazione della natura negoziale dell’atto gestionale consegue la sua insindacabilità in sede amministrativa mediante ricorso gerarchico o straordinario al Presidente della Repubblica e la possibilità di chiedere al giudice ordinario il sindacato sul rapporto controverso non entro termini decadenziali, ma nel più lungo termine prescrizionale.
Deve peraltro rilevarsi come alcuni dei problemi sopra menzionati abbiano trovato soluzione legislativa o giurisprudenziale, in generale o per alcune specifiche determinazioni datoriali, prescindendo dal generale problema “ontologico” della loro natura, e mediante diretta applicazione della disciplina positiva o ad una sua interpretazione estensiva.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti dogmatici della sistematica ordinamentale, sempre argomento travolgente nella nostra cultura giuridica, che appassiona, anche oltre il dovuto, più di un addetto ai lavori della applicazione della legge.
Per cui oggi è possibile affermare che la legittimità, la discrezionalità, la convenienza, la correttezza, la buona fede sono tutti parametri che il Giudice del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione non può trascurare. Non occorre dimenticare che il comma 1 dell’art. 63 del T.U. così recita: “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni […] ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, li disapplica, se illegittimi. L’impugnazione davanti al giudice amministrativo dell’atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo.”.
“Questa devoluzione al giudice ordinario, dunque, è talmente ampia e onnicomprensiva che essa opera anche in presenza di atti amministrativi presupposti, con particolare riferimento agli atti (come nella specie la delibera di G.C. n. 47/2000 di accorpamento dei servizi [o di organizzazione degli uffici come nel nostro caso, N.d.R.]) che attengono al potere (tipicamente pubblicistico) di autorganizzazione, ma che possono avere riflessi più o meno intensi ed immediati su uno o più rapporti di lavoro.
Deve infatti considerarsi che la P.A., nella gestione dei rapporti di lavoro, ha perso la veste di «Pubblica Autorità» in posizione di supremazia speciale, assumendo quella di parte contrattuale, sia pure dotata della tipica autorità datoriale. Ciò comporta, come evidenziato dalla migliore dottrina e confermato autorevolmente dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni è oggi fondato su base paritetica, cosicché ad esso è estranea ogni connotazione discrezionale e quand’anche la lesione lamentata dal prestatore di lavoro derivasse dall’esercizio di poteri discrezionali della P.A. datrice di lavoro, la situazione soggettiva lesa dovrebbe qualificarsi come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, nell’ampia categoria dei «diritti» di cui all’art. 2907 c.c. (Cass. S.U. 24.2.2000, n. 41).
Ciò si riflette anche sui poteri esercitabili dall’Autorità giudiziaria ordinaria nei confronti della P.A. datrice di lavoro.
Il Giudice del Lavoro, infatti, potrà verificare in via preventiva la legittimità dell’atto amministrativo presupposto, ovviamente ricorrendo alle categorie stratificate nella dottrina e giurisprudenza processual-amministrativistica, della violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere [grassetto aggiunto, N.d.R.].” (Tribunale S. Angelo dei Lombardi, Sez. Lavoro, Ord. 4.7.2000, in www.giust.it n. 7/2000).
Seppur con un diverso approccio concettuale, così conclude anche il Tribunale di Catania: “È noto che con la cosiddetta privatizzazione (o contrattualizzazione) del pubblico impiego (e del personale dirigente) la regolamentazione del rapporto di lavoro non è più affidata ad atti (amministrativi) emessi, come in precedenza, nell’ambito del potere pubblicistico d’imperio, bensì ad atti (negoziali e paritetici) emessi dal datore di lavoro pubblico con i poteri del datore privato (cfr. art. 4 Dec, Leg.vo n. 29/93 [ora, art. 5 T.U.], ove viene espressamente stabilito che «le misure inerenti la gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro»).
Al pubblico dipendente, però, a differenza del lavoratore del settore privato, viene concessa dall’Ordinamento una tutela sostanziale e processuale peculiare, frutto della soggezione del datore di lavoro pubblico ai principi di cui all’art. 97 della Costituzione, e cioè ai principi della legalità, della buona amministrazione e della imparzialità.
Ciò comporta che di fronte ad un provvedimento giurisdizionale (a differenza del privato che è libero di scegliere anche l’opzione risarcitoria, prescindendosi, quindi, dal problema della infungibilità o della concreta eseguibilità in forma specifica dell’ordine del giudice, così come in tema di licenziamento), la pubblica amministrazione deve applicare la legge (sia il precetto normativo che quello specifico dettato dal giudice) rispettando così sia i principi di buona amministrazione (come individuati nel provvedimento giurisdizionale) che i canoni della imparzialità (in relazione anche ai dipendenti) [grassetto aggiunto, N.d.R.].” (Tribunale Catania, Sez. Lavoro, Ord. del 18.4.2001, in www.giust.it n. 5/2001).
Dello stesso avviso, con altro taglio interpretativo, molto originale ed efficace, il Tribunale di Benevento: “Il giudice del lavoro per le controversie in materia di pubblico impiego ben può emanare anche per espressa previsione legislativa sentenze costitutive, senza dare alcun rilievo al fatto che tali provvedimenti si inseriscono nelle scelte della Pa dato che si tratterebbe di un intervento su di un rapporto privatistico rispetto a un atto di un datore di lavoro che solo soggettivamente è pubblico ma sostanzialmente e oggettivamente ha gli stessi poteri e funzioni di un datore di lavoro privato.
Il pubblico dipendente che si ritenga leso da un atto amministrativo può sindacare innanzi al giudice del lavoro l’atto stesso sia per i vizi tipici dell’atto amministrativo sia per la violazione dei principi privatistici di correttezza e buona fede. L’unica differenza con le controversie proposte dai dipendenti privati nei confronti di atti che intervengono sul rapporto di lavoro è data dal fatto che nel caso dell’impiego pubblico gli atti sono soggettivamente amministrativi ma sostanzialmente privati con la conseguenza di attribuire al dipendente pubblico una tutela rafforzata. Di conseguenza le dispute circa i poteri del giudice ordinario si devono spostare dal sindacato sull’atto a quello sul rapporto [grassetto aggiunto, N.d.R.].” (Tribunale Benevento, Sez. Lavoro, Ord. del 28.8.2000, in www.ilsole24ore.it).
Come si vede tutti e tre i calendati provvedimenti, pur partendo da differenti posizioni (che rappresentavano, come detto, in dottrina tesi, non sempre a ragione, ferocemente contrapposte) giungevano alla medesima conclusione dell’obbligo della P.A., datore di lavoro, ancorché usi strumenti del privato datore di lavoro, di rispettare le leggi, l’imparzialità e la buona amministrazione, nonché, al logico corollario della possibilità del giudice di verificare sia il rispetto di tali principi, sia la correttezza e la buona fede nell’esecuzione del contratto da parte dei due contraenti. La tutela del lavoratore pubblico risulterebbe, in definitiva, rafforzata, non affievolita (semmai tali venivano considerati dinanzi al G.A. i suoi diritti), con il passaggio alla giurisdizione del G.O..
Ciò è anche quello che ha insegnato, molto di recente, nel 2001 e nel 2002, la Corte Costituzionale, mettendo definitivamente fine alla diatriba, conferendo, alla tutela approntata con la riforma al lavoratore, un’ampiezza tale da far superare ogni utilità dei distinguo dottrinari e giurisprudenziali descritti e sinora imperanti.
“Occorre, anzitutto, precisare che il principio della disapplicazione, desunto dal giudice a quo dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, sul contenzioso amministrativo, ed il relativo limite ai poteri del giudice ordinario di fronte ad un atto amministrativo illegittimo non costituiscono una regola di valore costituzionale, che il legislatore ordinario sarebbe tenuto ad osservare in ogni caso.
Infatti, resta rimesso alla scelta discrezionale del legislatore ordinario – suscettibile di modificazioni in relazione ad una valutazione delle esigenze della giustizia e ad un diverso assetto dei rapporti sostanziali – il conferimento ad un giudice, sia ordinario, sia amministrativo, del potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti sottostanti, secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste (argomentando dall’art. 113, terzo comma, della Costituzione: ordinanze n. 140 e n. 165 del 2001).
La scelta del legislatore si inquadra nella tendenza a rafforzare la effettività della tutela giurisdizionale, in modo da renderla immediatamente più efficace, anche attraverso una migliore distribuzione delle competenze e delle attribuzioni giurisdizionali, a seconda delle materie prese in considerazione (v. ordinanza citata n. 140 del 2001).
In realtà, quale sia la configurazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ed in particolare quello dei dirigenti (per i quali può riscontrarsi un elemento concorrente di preposizione ad un ufficio pubblico), certamente il legislatore delegante e quello delegato, in attuazione della delega, hanno voluto modellare e fondare tutti i rapporti dei dipendenti della amministrazione pubblica (compresi i dirigenti) secondo «il regime di diritto privato del rapporto di lavoro», traendone le conseguenze anche sul piano del riparto della giurisdizione, a tutela degli stessi dipendenti, in base ad una esigenza di unitarietà della materia. Ciò è previsto, con le esclusioni tassativamente circoscritte, dal comma 4 dell’art. 68 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, nel testo risultante dalle successive modifiche introdotte dall’art. 33 del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 sul pubblico impiego), dall’art. 29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 ed infine dall’art. 18 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387.
D’altro canto il legislatore ha voluto che, sia pure tenendo conto della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali, le posizioni soggettive degli anzidetti dipendenti delle pubbliche amministrazioni, compresi i dirigenti di qualsiasi livello, fossero riportate, quanto alla tutela giudiziaria, nell’ampia categoria dei diritti di cui all’art. 2907 cod. civ. come intesa dalla più recente giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sezioni unite, n. 41 del 2000).
Tale tutela è piena, in quanto il giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, è abilitato ad adottare, «nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati», con capacità di produrre anche effetti costitutivi o estintivi del rapporto di lavoro (art. 68 n. 29 del d.lgs. 1993, nel testo vigente dopo le modifiche introdotte dall’art. 18 del d.lgs. 29 ottobre 1998, n. 387). La cognizione del giudice del lavoro comprende tutti i vizi di legittimità, senza che sia possibile operare distinzioni tra norme sostanziali e procedurali, di modo che allo stesso giudice ordinario resta affidata la pienezza della tutela, estesa a tutte le garanzie procedimentali del rapporto previste dalla legge e dai contratti e quindi comprendente anche i vizi formali.
Né l’esistenza di un atto amministrativo presupposto, nelle controversie relative ai rapporti di impiego dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, può costituire limitazione alla competenza del giudice ordinario, quale giudice del lavoro, potendo questi conoscerlo in via incidentale, ai fini della disapplicazione (art. 68 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo citato, in relazione alla delega contenuta nell’art. 11, comma 4, lettere a) e g) della legge 15 marzo 1997, n. 59, risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 1 della legge 16 giugno 1998, n. 191 recante «Modifiche ed integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n. 59 e 15 maggio 1997, n. 127, nonché norme in materia di formazione del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica»), anche quando, nei casi previsti, questo atto presupposto rientri nella sfera assegnata alla giurisdizione amministrativa. Tuttavia è, comunque, escluso che possa sorgere una pregiudizialità amministrativa o una esigenza di sospensione del processo civile per il fatto della pendenza di impugnazione dell’atto avanti al giudice amministrativo [grassetto e sottolineature aggiunte, N.d.R.].” (Corte Cost., Sent. n. 275 del 2001).
Più incisivamente nel 2002 la Consulta ribadisce: “il principio della disapplicazione e i relativi limiti ai poteri del giudice ordinario, nei confronti di un atto amministrativo, desunti dal giudice a quo dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248. all. E, sul contenzioso amministrativo, non costituiscono una regola di valore costituzionale, che il legislatore sarebbe tenuto ad osservare in ogni caso (sentenza n. 275 del 2001); resta rimesso alla scelta discrezionale del legislatore ordinario […] il conferimento ad un giudice, sia ordinario sia amministrativo, del potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica amministrazione o di incidere sui rapporti sottostanti, secondo le diverse tipologie di intervento giurisdizionale previste (argomentando dall’art. 113, terzo comma, della Costituzione; sentenza n. 275 del 200; ordinanze n. 140 del 2001 e 165 del 2001); deve escludersi che la sussistenza di un atto amministrativo presupposto, nelle controversie relative ai rapporti di impiego dei dipendenti di pubbliche amministrazioni, possa costituire limitazione alla competenza del giudice ordinario, quale giudice del lavoro, potendo questi conoscerlo in via incidentale ai fini della disapplicazione (art. 68 del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, come risultante a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 33 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, dall’art. 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, e dall’art. 18 del d.lgs. 19 ottobre 1998, n. 387), anche quando, nei casi previsti, questo atto presupposto rientri nella residua sfera assegnata alla giurisdizione amministrativa, dovendosi, altresì, escludere che possa sorgere una pregiudizialità amministrativa (sentenza n. 275 del 2001).” (Ord. n. 525 del 2002).
In una parola, i poteri ed il sindacato del Giudice del Lavoro sono ampi e profondi e si attuano sia con strumenti propri del diritto processual-amministrativistico, sia con quelli più consueti, ma non meno efficaci, elaborati nel ramo gius-lavoristico.

2.# Giurisdizione per le selezioni meramente orizzontali (nell’ambito della stessa figura professionale ed area).

A questo quadro, già di per sé instabile, si è aggiunto il mutamento d’indirizzo della Corte di Cassazione sul riparto di giurisdizione sui concorsi pubblici.
Ad una prima, frettolosa, magari non integrale lettura della Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 15403 del 27.2.2003, depositata il 15.10.2003, sembrerebbe che tutte le procedure del pubblico impiego, comunque denominate (selezioni o concorsi), dirette all’acquisizione di una posizione economica superiore restino assoggettate alla Giurisdizione del Giudice Amministrativo e non a quella del Giudice Ordinario, come sino ad ora unanimemente ritenuto anche dalle stesse SS.UU., in quanto in ogni caso comportanti un mutamento di mansioni e pertanto (e per ciò solo) indicanti l’assunzione di una nuova funzione alle dipendenze della Amministrazione pubblica, la cui materia è stata com’è noto residualmente mantenuta dall’art. 63, co. 4, D. L.vo n. 165/2001 alla suddetta vecchia Giurisdizione.
In realtà, occorre tenere ben presente che nel mutato assetto professionale del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione la classificazione del personale è più complessa ed articolata rispetto al passato e non sempre e comunque ad ogni mutamento di qualifica (ora posizioni economiche) corrisponde una puntuale variazione delle mansioni e funzioni cui è tenuto il dipendente.
Occorre anche considerare che la norma in oggetto è di carattere eccezionale rispetto alla generale devoluzione di tutta la materia del lavoro pubblico al G.O. e quindi di stretta interpretazione e pertanto la Giurisdizione, residuale, Amministrativa si deve ritenere sicura solo in caso del verificarsi di ipotesi di assunzione (di nuove funzioni) e di concorso (per l’accesso ad esse) in maniera congiunta (“Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni…”, art. 63, co. 4, cit.) [5].
A questo punto, ai fini di una effettiva comprensione della reale portata di vecchi e nuovi principi nel vigente Ordinamento Professionale è indispensabile ripercorrere, brevemente, le varie tappe che hanno condotto all’attuale modello, secondo alcuni dinamico, flessibile, efficiente e moderno, secondo altri statico e perfettamente sovrapponibile al vecchio schema organizzativo.
Siffatto sistema di classificazione del personale, esaminato alla luce degli orientamenti della giurisprudenza costituzionale e della cassazione, ha costituito oggetto di commenti contrastanti[6]. Esso non è, nemmeno, andato immune da severe critiche, essendo apparso ad alcuni una modalità in grado di aggirare il principio del concorso pubblico[7].
Nell’ordinamento antecedente alla L. n. 312 dell’11 luglio 1980[8], che prevedeva la suddivisione del personale in carriere (per gli impiegati civili dello Stato erano quattro: direttiva, di concetto, esecutiva e ausiliaria) e l’articolazione delle carriere in numerose qualifiche, la progressione da una qualifica all’altra avveniva con il sistema delle promozioni, attuate con diversi metodi: per titoli (scrutinio per merito comparativo, scrutinio per merito assoluto) e per esami (merito distinto). La regola del concorso era per la verità un’eccezione.
Con la legge n. 312/1980 vennero abolite le carriere ed il relativo sistema delle promozioni, sostituito con il pubblico concorso (art. 7). A un dipendente pubblico che dunque avesse voluto migliorare la propria posizione non rimaneva che partecipare al concorso per la qualifica superiore; concorso che, peraltro, doveva essere aperto a tutti (come ribadito dall’art. 1, co. 1, D.P.R. n. 487 del 9.5.1994).
A tale regola vennero tuttavia apportate, ancora una volta, numerose eccezioni, sia con disposizioni contrattuali, previste dagli Accordi Nazionali, recepiti con D.P.R., sia con norme di legge, specifiche per alcuni settori della P.A., che consentivano l’accesso a qualifica superiore mediante concorsi interni.
Così, l’art. 6, co. 12, L. n. 127 del 15.5.1997 per gli Enti Locali, l’art. 2, 17° comma, della L. 16.6.1998, n. 191 per le Aziende Unità Sanitarie Locali, infine, con l’art. 3, commi 205, 206 e 207 della L. 28.12.1995, n. 549, come modificato dall’art. 6, co. 6 bis, del D.L. 31.12.1996, n. 669, convertito con L. 28.2.1997, n. 30, veniva prevista la copertura dei posti disponibili nelle dotazioni organiche dell’amministrazione finanziaria, per i livelli dal quinto al nono, attraverso procedimenti di riqualificazione riservata al personale appartenente alle qualifiche funzionali inferiori e consistenti in una prova scritta, in un corso e in una prova tecnico-pratica finale.
Ed è stata proprio tale ultima norma ad originare, su ordinanza di remissione del Consiglio di Stato, la sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 4 gennaio 1999 (capofila delle successive decisioni della Consulta nn. 194, 218 del 2002 e 34 del 2004 e delle SS.UU. della Cassazione n. 15403 del 2003, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: ed è su tale sentenza che occorrerà fermare l’attenzione al fine di esaminare se e come i principi ivi enunciati si attaglino al nuovo sistema di progressione verticale (anche perché, quest’ultima sembra aver inciso in maniera preponderante nel convincimento dei Giudicanti successivi, sia di Costituzionalità, sia di Legittimità, sia Amministrativi).
Infatti, quasi contemporaneamente a tale sentenza, i nuovi contratti collettivi di lavoro per il periodo 1998-2001, dopo aver abolito il sistema delle qualifiche sostituendolo con quello delle “categorie” o “figure professionali” all’interno delle quali sono state individuate diverse “posizioni economiche”, hanno previsto il “passaggio interno” non solo nell’ambito della stessa categoria o figura professionale con mutamento della “posizione economica” (cd. progressione verticale di categoria, ad esempio nella figura professionale del Cancelliere da C1 a C2), anche nella medesima “posizione economica” (cd. progressione orizzontale di posizione, ad esempio nella figura professionale del Cancelliere da C1 a C1 Super) ed ovviamente da una categoria o figura professionale ad un’altra (cd. progressione verticale di categoria: art. 15 C.C.N.L. ministeri; art. 4 C.C.N.L. regioni ed enti locali; art. 15 C.C.N.L. parastato; art. 32 C.C.N.L. scuola).
Nel contratto del comparto ministeri sono previste, pertanto, tre “Aree” (A, B e C) e quattro diverse posizioni economiche (1, 2, 3 e Super), nonché, diverse figure professionali (ogni figura professionale prevede mansioni simili ed intrinsecamente sovrapponibili ed interscambiabili) a cavallo fra le posizioni economiche e, spesso, ricomprendenti due aree confinanti (ad esempio, A3-Bl, B3-C1).
Il dipendente pubblico, in base a tale ordinamento, può muoversi orizzontalmente liberamente, previa selezione, ovviamente, tra le varie posizioni economiche all’interno della stessa categoria (ad es.: passare da C1 a C1 Super da C1 a C2, da C2 a C3), senza mai mutare funzioni o mansioni e, quindi, realizzando, una mera progressione economica.
Può, ovviamente, effettuare una progressione giuridica (verticale) cambiando categoria assumendo nuove competenze e funzioni, cioè passando da una figura professionale ad un’altra (ad es.: dalla figura di “Operatore Giudiziario” a quella di “Cancelliere” o da quest’ultima a quella di “Direttore di Cancelleria”); solo in quest’ultimo caso, dunque, il dipendente ottiene un trattamento economico migliore, e va ad occupare una figura professionale diversa da quella precedentemente posseduta. Nel primo, invece, ottiene solo un miglioramento economico.
La sentenza della Corte Costituzionale del 1999 (nonché le successive, che ne ricalcano le orme), dunque, non poteva certo riferirsi alle ipotesi di mera progressione orizzontale (all’interno della stessa figura professionale, modello introdotto successivamente dai contratti collettivi), ma aveva presente unicamente il vecchio sistema delle qualifiche funzionali per nulla equivalente all’attuale sistema, in quanto, come detto, ad ogni cambio di qualifica (funzionale, appunto), nel previgente impianto, corrispondeva un nuovo accesso a più importanti funzioni alle dipendenze dello Stato. Per questo motivo i Giudici delle Leggi hanno sostenuto e sostengono che il passaggio ad una qualifica superiore importa una forma di reclutamento soggetta alla regola (rigida) del pubblico concorso.
Una lettura degli artt. 35 e 52, D. L.vo n. 165 del 2001 (oltre che dell’art. 91, comma 3, D. L.vo n. 267 del 2000), alla luce di un’esegesi particolarmente rigorosa degli indirizzi del Giudice delle Leggi potrebbe preludere all’eventualità di un approfondimento della valutazione di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale di dette norme (D. L.vo n. 165/2001) in riferimento agli artt. 3 e 97, Cost.[9].
In alternativa, privilegiando l’interpretazione adeguatrice della quale è onerato il Giudice[10], in quanto questa configura una “alternativa all’incidente di costituzionalità”, al punto che l’impossibilità di percorrerla costituisce “condizione di ammissibilità” di questo incidente[11], potrebbe sorgere la necessità di valutare la legittimità delle procedure selettive e dei concorsi interni, quante volte siano previste dai C.C.N.L., eventualmente differenziando tra i casi dell’accesso ad un’area e della transizione interna a ciascuna area.
La conclusione è l’ammissibilità della previsione da parte dei C.C.N.L. di meccanismi di progressione nelle qualifiche mediante procedure selettive, ferma restando l’imprescindibilità della verifica della loro legittimità in applicazione dei parametri elaborati dalla Corte Costituzionale. Ciò significa che il giudice deve accertare che le procedure garantiscano sotto il profilo soggettivo (specie per la com­posizione degli organi) e, sotto quello oggettivo (in riferimento alla congruità dei meccanismi di verifica attitudinali ed alla logicità e coerenza della previsione della pregressa esperienza professionale quale requisito attitudinale) il principio di im­parzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97, Cost.), mediante pro­gressioni “giuste ed eque”, non condizionate da valutazioni extra-professionali, oppure ispirate da logiche di lobbies o burocratiche[12].
Questa interpretazione permetterebbe di realizzare appieno il valore costitu­zionale dell’efficienza dell’Amministrazione, poiché, una volta esclusi scivolamenti automatici verso l’alto, da un canto, i dipendenti risulterebbero incentivati al miglioramento ed all’accrescimento della propria professionalità, dall’altro, il datore di lavoro pubblico potrebbe “occupare posti nevralgici dell’organizzazione lavora­tiva con personale già sperimentato e ben inserito” e realizzare obiettivi di produt­tività[13]. Inoltre, questo assetto sarebbe coerente con la responsabilità attribuita ai dirigenti, in quanto il conseguimento degli obiettivi programmati richiede anche la possibilità di strumenti che permettano loro di incentivare i dipendenti, anche me­diante valutazioni che consentano una progressione, se e quando meritevoli, costi­tuendo la disciplina della responsabilità un rimedio in grado di evitare i rischi insiti invece in un assetto di tipo burocratico.
Sotto questo profilo, sarebbe apprezzabile un ulteriore aspetto della attuale pa­rificazione tra datore pubblico e datore di lavoro privato e le norme avrebbero, inoltre, in tal modo compensato il dipendente dell’inapplicabilità dell’art. 2113, cod. civ., dandogli la consapevolezza che “non si procede per mansioni di fatto, ma comunque … si procede”[14]. Questa ricostruzione sarebbe pienamente coerente con la ratio di fondo insita nella cd. privatizzazione, dato che la scelta di derogare il regime pubblicistico, è stata dettata – scriveva Massimo D’Antona – dalla circo-stanza che esso “non consente – per i principi che lo reggono e per la natura dei controlli che implica – la flessibilità normativa e organizzativa che sono necessarie ad una pubblica amministrazione che sta superando il monismo organizzativo im­posto dal dominio dello Stato, come regolatore e come finanziatore, e dei suoi giu­dici centrali, e che cerca un rapporto nuovo con la società”[15].
Secondo questa configurazione, le sentenze della Corte Costituzionale calendate andrebbero quindi valutate alla luce della specificità delle fattispecie esaminate, nelle quali il legislatore aveva previsto un meccanismo appa­rentemente selettivo che, invece, realizzava una sorta di promozione automatica al di fuori di congrue verifiche attitudinali. La conformazione sopra accennata data agli inquadramenti dagli accordi collettivi non potrebbe dunque essere giudicata in sé contrastante con norme inderogabili, fermo restando il potere-dovere del giudice di verificare se i meccanismi di progressione, come in concreto regolamentati, siano conformi ai canoni di imparzialità, buon andamento ed efficienza dell’azione amministrativa.
A tutto ciò, come detto, come non bastasse, si è aggiunta la questione del mutamento d’indirizzo della Cassazione sulla Giurisdizione.
Sino alla commentata sentenza delle SS.UU. depositata il 15.10.2003, l’orientamento delle stesse era stato univoco (cfr., ex pluribus, Cass., SS.UU. sentenze n. 2954/02, 128/01, 7859/01, 15602/01 e le ordinanze 2514/02 e 9334/02) nell’attribuire la Giurisdizione in materia di vicende modificative del rapporto (concorsi interni) al G.O.. Poi il mutamento avvenuto, sembra, per adeguamento alla giurisprudenza costituzionale commentata (“Alla luce dell’intero quadro normativo, come deriva, soprattutto, dalle sentenze della Corte costituzionale che si sono succedute nel tempo – indicate nei paragrafi che precedono -, l’indirizzo giurisprudenziale esposto nel paragrafo II deve essere sottoposto ad una necessaria rimeditazione.” – punto VI, pag. 13, cit. Sent.) o piuttosto per tentare di frenare “l’assalto alla diligenza”[16].
Questo pare essere lo stato dell’arte e, prescindendo, per un momento, dalla questione se i cd. concorsi interni siano o meno validi ed ammissibili, la giurisdizione su di essi è cambiata anche per i passaggi all’interno della stessa Area?
Il punto cruciale, in definitiva, è: resta applicabile la detta sentenza delle SS.UU. n. 15403 anche per le progressioni orizzontali (nell’ambito della stessa Area, Figura Professionale e/o Posizione Economica) che non comportano mutamento di mansioni o funzioni?
Alla luce di quanto sopra esposto sembra proprio di no.
Come giustamente affermato l’accesso alla posizione economica superiore, non implicando un mutamento di mansioni, non può giustificare, da sola, una novazione tale del rapporto tale da incidere sulla giurisdizione. Si tratta di un semplice “premio” assegnato dal datore di lavoro alla professionalità e all’impegno di una categoria di dipendenti.
Bene, in tale ottica, si crede, si è posto anche il Giudice di Legittimità con la Sentenza n. 15403/2003 in commento, quando ha affermato: “Pertanto, considerato che mediante gli accordi collettivi stipulati nel comparto del pubblico impiego è stato previsto un sistema di inquadramento del personale articolato in aree o fasce, all’interno delle quali sono contemplati diversi profili professionali, si deve ritenere che le procedure che consentono il passaggio da un’area inferiore a quella superiore integrino un vero e proprio concorso – tali essendo anche le procedure che vengono denominate «selettive» qualunque sia l’oggetto delle prove che i candidati sono chiamati a sostenere.” (pag. 8 cit. Sent.) e ancora: “Dovendo essere considerato come un imprescindibile presupposto (della conclusione che deve essere adottata) il principio secondo cui, nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l’accesso del personale dipendente ad un’area o fascia funzionale superiore deve avvenire per mezzo di una pubblica selezione, comunque denominata ma costituente, in definitiva, un pubblico concorso – al quale, di norma, deve essere consentita anche la partecipazione di candidati esterni – si deve affermare che il quarto comma dell’art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, quando riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo «le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», fa riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore: il termine «assunzione», d’altra parte, deve essere correlato alla qualifica che il candidato tende a conseguire e non all’ingresso iniziale nella pianta organica del personale, dal momento che, oltre tutto, l’accesso nell’area superiore di personale interno od esterno implica, esso stesso, un’ampliamento della pianta organica.” (pag. 12, 13 cit. Sent.), quindi: “Nel caso in esame, come bene deduce il Ministero ricorrente, il concorso al quale ha partecipato il G. riguarda l’accesso ad uno dei novecentonove posti della qualifica di primo dirigente [il G. è direttore tributario, quindi appartenente a qualifiche di personale di altro ruolo, non dirigente, N.d.R.] del ruolo amministrativo. Pertanto, trattandosi di un’area diversa (superiore) a quella di appartenenza dei candidati interni ed essendo stata dal G. denunciata l’illegittimità della graduatoria e non già di un atto a questa successivo, la controversia deve essere decisa dal giudice amministrativo..” (pag. 12, 13 cit. Sent.).
Com’è facile notare, le Sezioni Unite (sol perché si tratta di questione di giurisdizione, è bene ricordarlo, decideranno sempre le Sezioni Unite; ciò è significativo, in quanto la decisione non dirime alcun contrasto fra sezioni semplici, ma esprime un orientamento, isolato, al momento, diverso rispetto alle numerose pronunzie, peraltro univoche, delle stesse Sezioni Unite nel recente passato) della Suprema Corte, in revisione del loro stesso orientamento, hanno affermato il ritorno della Giurisdizione al Giudice Amministrativo solo in caso di “passaggio di area” o di “fascia funzionale” superiore. Mai è stato riportato in tutte le quindici pagine di motivazione della sentenza il concetto di “passaggio di posizione economica” che qui interessa.
Ciò appare organico e razionale se si tiene presente quanto sopra riportato: oggi, nel nuovo Ordinamento Professionale, con il mero passaggio di posizione economica (progressione orizzontale di Figura Professionale o di Posizione Economica) non risponde a verità affermare una corrispondente assunzione di nuove qualifiche (funzionali, cioè di nuove funzioni), come avveniva nel passato con il passaggio alla “qualifica” o “fascia funzionale” (appunto), superiore.
In tal senso si sono avute già le prime pronunce del Giudice Amministrativo che ha declinato la propria Giurisdizione a fronte di passaggi all’interno della stessa Area o Figura Professionale, dopo il segnalato mutamento d’indirizzo della Cassazione.
“Per quanto, più in particolare, riguarda la fattispecie in esame deve tuttavia rilevare il Collegio che nel nuovo ordinamento professionale del pubblico impiego il sistema delle qualifiche è stato sostituito con quello delle aree (o categorie), nell’ambito delle quali sono previste differenti posizioni economiche, con possibilità di passaggi interni dall’una all’altra.
A tanto, in base alle considerazioni in precedenza svolte, non può che conseguire che, se non può esservi dubbio che le procedure selettive finalizzate al passaggio da un’area all’altra, mediante procedure concorsuali aperte ad una pluralità di soggetti esterni od interni, appartengano alla Giurisdizione del Giudice Amministrativo, i passaggi interni, nell’ambito di ciascuna di dette aree, da una posizione economica (funzionale) all’altra (se i contratti collettivi nazionali che li regolano non prevedono la possibilità della partecipazione di concorrenti esterni alle procedure selettive volte ad individuare il personale cui deve essere attribuita la posizione funzionale superiore) sono da ritenersi necessariamente attratti nell’ambito della giurisdizione del Giudice ordinario.
Ciò in quanto tali procedure interne vanno qualificate come atti privatistici di gestione del rapporto di lavoro -privi del carattere pubblicistico che connota i concorsi esterni di accesso- cioè come semplici strumenti diretti ad assicurare la normale progressione di soggetti già legati da un rapporto con l’amministrazione, non dissimili dalle omologhe procedure indette da un datore di lavoro privato.
La circostanza che l’art. 36 del D. Leg.vo n. 80 del 1998 prevede che le assunzioni nella pubblica amministrazione avvengano mediante selezioni o concorsi pubblici che garantiscano un adeguato accesso dall’esterno, non può, infatti, che indicare, per converso, che esistono percorsi interni che non si configurano come assunzione, legati alla progressione della «mansione» (come regolati dal CCNL), che, per essere inerenti allo sviluppo del rapporto individuale, non possono che essere di competenza del Giudice Ordinario.” (T.A.R. Lazio, Sez. II Ter, nn.3756 e 3757 del 4.5.2004).
Ad oltre undici anni dell’entrata in vigore della riforma del piccolo impiegato “privatizzato”[17] una razionalità al complesso di norme e di pronunzie che si sono stratificate occorre pur darlo da parte dell’interprete e quella indicata ci sembra una strada percorribile. Diversamente (e se ne colgono già le prime avvisaglie) il collasso dell’intero nuovo Ordinamento Professionale, fulcro di tutta la riforma della Pubblica Amministrazione che tenta di ammodernarsi, è assicurato[18].
Note:
[1] Melius, con un brutto, ma efficace neologismo, “deprovvedimentalizzazione”, vedasi in argomento, sull’abuso del termine (e del concetto), F. Nisticò “(Poche) luci e (molte) ombre nel rapporto di lavoro del pubblico impiegato”, 2002, www.unicz.it, che così si esprime: “A marzo del prossimo anno il piccolo impiegato statale «privatizzato» compirà dieci anni. Un compleanno importante, l’età giusta per capire come verrà su da grande.
Dieci anni, poi, bastano anche per verificare se è mutata, come si dice oggi con una parola abusata, la «cultura» della pubblica amministrazione o se di quella efficienza produttivistica che il legislatore della riforma si era proposto di attuare già nel 1993 si incominci a vedere qualche risultato.
I fautori della contrattualizzazione (o, se si vuole, della «deregulation») del rapporto di lavoro dell’impiegato pubblico, infatti, guardavano con entusiasmo al modello privatistico, convinti che adottarlo nelle amministrazioni costituisse l’unica terapia (chirurgica) per sanare il grande ammalato, il vecchio burocrate ingessato nella fissità delle sue cattive abitudini, del «si è sempre fatto così», della diffidenza verso il nuovo. Operazione, questa, opinabile, perché, come si sa, un cafone non si trasforma in un brillante intellettuale solo facendogli indossare il vestito nuovo od insegnandogli qualche parola di inglese.
Ma non solo, perché non è detto che «per definizione» il modello privatistico garantisca efficienza, in special modo quando lo si adatti ad un contesto che non sia quello dell’azienda: e qui intendo per azienda quella buona, cioè la fabbrica dove si producono delle cose od il negozio dove si vendono, non certo tutte quelle altre che si fanno chiamare aziende solo per imitare quelle vere. Né può prescindersi da un fatto, sicuramente non previsto (né prevedibile) dai fautori della riforma, e che riguarda l’attuale progetto di radicale «modernizzazione» (altra abusatissima parola – contenitore) del sistema lavoristico privato, che, come è noto appartiene alla vincente cultura liberistica dei nostri giorni e che non riconosce positività in nulla che non sia ispirato alla logica pura del mercato; sicché sicuramente questa sorta di ossessione mercantile ed efficientistica mal si concilia con i compiti di equa ripartizione delle risorse che appartiene ai compiti istituzionali della pubblica amministrazione.
Come è noto, le istanze di questo tipo attribuisco al pubblico un generale connotato di negatività, poiché non appartiene allo logica produttivistica (che anima il percorso imprenditoriale) la distribuzione collettiva delle energie, queste ultime dovendo convergere verso lo scopo definitorio dell’impresa che, come è noto, è il conseguimento di profitti; e lo Stato non deve acquisire profitti, bensì deve amministrare con equilibrio la cosa pubblica. In questo senso, allora, è giusto affermare che si voglia una pubblica amministrazione efficiente purché, però, questo non voglia dire che per efficiente si debba intendere produttiva in senso imprenditoriale. Dunque sarà bene convincersi che l’efficienza dell’amministrazione non è quella dell’imprenditore.
Insomma ad un Ospedale non deve tanto importare il costo del ricovero di un ammalato quanto la capacità di guarirlo e bene, anche se per farlo occorre tenerlo qualche giorno in più; ad un Ente locale non deve interessare tanto «esternalizzare» i suoi servizi per risparmiare, quanto assicurarne ai suoi consociati la soddisfacente fruizione, pur se questo costi qualche lira in più.
Osserviamo, ora, un qualsiasi ufficio pubblico e vediamo cosa è cambiato rispetto a dieci anni fa, dunque se l’operazione ha portato qualche risultato; osserviamo, in particolare, cosa è cambiato nella cultura dell’impiegato, il quale lavora oggi avendoci un contratto come un qualsiasi dipendente di una grande fabbrica, un sindacato finalmente autorizzato a stipulare patti collettivi nel suo interesse, un datore di lavoro che si comporta – o dovrebbe comportarsi – come un datore di lavoro privato.
Non importa verificare se c’è qualche computers in più, se c’è la possibilità di fruire dei tempi telematici: questo, infatti, appartiene al progresso tecnologico, non alla «cultura» dell’impiegato; quello che conta è capire come il computer viene utilizzato, come è cambiato l’approccio al lavoro ed al servizio, come è cambiato il dirigente, se è davvero diventato come un dirigente privato, al quale il datore di lavoro assegna una meta disinteressandosi di come egli intenda raggiungerla, purché la raggiunga; se il dialogo con l’utente, in special modo con quello un po’ sprovveduto, sia oggi informato alla cortesia che di solito si vede in quelle belle impiegate di un’azienda privata, se sia venuto meno quell’atteggiamento autoreferenziale che tradizionalmente connotava il vecchio impiegato convinto di avere il coltello dalla parte del manico solo perché stava dietro allo sportello o dietro una sghimbescia ed impolverata scrivania. Osserviamo se, per caso, sia scomparso il vezzo antico di non assumersi mai una responsabilità, di scaricarla su quell’altro che sta un gradino più in alto, di scegliere, fra più soluzioni possibili, quella che meglio corrisponde alla tradizione dell’ufficio, a costo di negare un diritto, o di sconcertare il povero utente costretto ad inseguire disorientato la sua istanza; osserviamo se finalmente quella cosa che «non si poteva fare» forse può essere fatta, se quella interpretazione che si è sempre negata, perché il predecessore la negava, e così il predecessore del suo predecessore, non si possa dare, magari studiando la questione senza il peso di una eredità accettata senza critiche; osserviamo come si comporta il datore di lavoro pubblico nel processo, come gestisce la convenienza di sopportare la causa del suo dipendente, come interloquisce con il giudice.
Osserviamo che fine ha fatto la «circolare», la vecchia e cara circolare che mal si adatta alla brillante intuizione del «manager», alla sua pronta risposta. Osserviamo, ancora, se per comprare un libro, una rivista, un supporto informatico si fa come nelle imprese private, cioè si prendono i soldi e si vanno a comprare, senza la secolare diffidenza tipica degli uffici pubblici, dove è radicato il convincimento che un impiegato, un funzionario pubblico che abbia in mano dei quattrini pensi subito ad intascarseli od almeno a farci la cresta. Guardiamo che fine ha fatto l’«anzianità», fonte di piccoli e grandi privilegi, di quelle prerogative infantili che fanno del più vecchio comunque il più bravo, che segnano la carriera, che consentono man mano che si avanza nel grado di ottenere una scrivania più spaziosa, il salottino, il parcheggio riservato, un telefono con la linea esterna, la priorità nella scelta delle ferie e simili cose proprie di una classe impiegatizia che si autoalimenta. Proviamo a vedere se un «manager pubblico» quando va in trasferta (ma, ahimè, con linguaggio militaresco si dice ancora missione) è costretto a tirare la cinghia se vuol rientrare nelle spese; o se non debba ancora farsi attestare dall’ACI quanti chilometri ci sono da Massa a Carrara, benché la cosa si possa scoprire facilmente guardando una cartina stradale; o se non possa prendere la sua macchina, senza tante storie, invece del treno prima e della corriera dopo, perché con la macchina si fa prima e meglio, anche se la meta di destinazione è fornita di mezzi pubblici; o se ancora esistano delle incombenze (le famose «commissioni») dove l’ammontare del gettone è inferiore al costo dell’operazione bancaria di accredito.
Il saldo è sicuramente negativo: sui fatti, che soli indicano la misura del successo di ogni operazione, non mi pare che la riforma abbia cambiato le cose in maniera significativa, che anzi non c’è neppure la consapevolezza, da parte dell’impiegato, del suo nuovo «status» e in pochi – da una parte e dall’altra – sembrano aver colto i contenuti di un contratto di lavoro che ha sostituito la vecchia nomina, o di un comportamento fatto di atti di gestione che hanno sostituito il vecchio provvedimento o di un processo che dovrebbe essere diventato un processo sui fatti e non più sulle carte. Mi pare, in definitiva, che le nuove disposizioni siano state recepite come portatrici di contenuti nominalistici e che qualcosa sia mancato, non certo nelle regole, quanto negli uomini chiamati ad applicarle. E dunque è forse legittimo il dubbio della bontà del modello o della sua efficace adattabilità al pubblico impiego, probabilmente perché non si può pretendere di cambiare la cultura del dipendente se prima non si cambia la cultura del padrone; e per cambiare la cultura del padrone, poco si è fatto, o quasi nulla, né è chiaro se ce ne sia la volontà; sicché forse non aveva torto chi sin dall’origine cominciò a dubitare dell’operazione e la interpretò come una specie di giro di vite nei confronti del dipendente pubblico, pure confermata dalla esclusione dalla nuova disciplina di alcune categorie (privilegiate?).
La cartina di tornasole è il processo. Chi si aspettava una lotta all’ultimo sangue per la gestione – da parte dei lavoratori – del contenzioso (che si preannunciava imponente) è stato presto deluso: le controversie sono pochissime e quasi sempre mal gestite, in un «mix» di argomenti che spesso si risolvono in un vero e proprio pasticcio fra le regole del diritto amministrativo e quelle del diritto privato (o del diritto del lavoro). Per esempio, lo «spettro della disapplicazione», che non c’è più perché non ci sono atti amministrativi (ma atti di gestione) continua a corroborare le conclusioni dei ricorsi e spesso (è qui il «mix» di cui ho detto) si chiede, come si dice in gergo, in via principale la disapplicazione di un atto, quasi si avesse timore di chiederne l’annullamento o la sua mera qualificazione di atto lesivo di prerogative contrattuali.
Dall’altra parte si infittisce il fascicolo di circolari (rieccola la vecchia e imperitura circolare), di disposizioni, di pareri, ma quasi mai si allega e si chiede di provare la correttezza contrattuale del comportamento; quasi sempre la causa si svolge nel disinteresse della parte pubblica, che non avverte alcuna convenienza ad uscirne vittoriosa e che, di conseguenza, non coglie neppure l’opportunità di recedere, quando è il caso, come fa il datore di lavoro privato messo alle strette dagli eventi processuali a lui contrari.
Vizio antico, quello di ottenere una sentenza del giudice, comunque sia, purché consenta di chiudere la faccenda attribuendone la volontà ad altri.
Ma nel processo vi è un’altra conferma di come le cose non siano state prese sul serio e riguarda il patrocinio, che, come sappiamo, la legge consente sia affidato ad un «dipendente» del datore di lavoro (in una prima stesura si prevedeva almeno la presenza in giudizio di un funzionario). Qui, ovviamente, c’è in primo luogo un problema di cassa o, come si dice, di «coperta corta»: l’avvocatura dello Stato ha altre faccende ben più gravose e gli avvocati dello stato sembrano una razza in via di estinzione, come le foche monache, tanto sono pochi. E forse vi è un’altra ragione, essendo diffusa ancora l’opinione che il giudice, tutto sommato, non sia proprio terzo rispetto alle Amministrazioni e che, dunque, possa fare due parti, dare una mano all’imbarazzato «dipendente-avvocato» spesso disorientato anche nelle attività più semplici, di solito depositario e «nuncius» di determinazioni assunte a livello di vertice alle quali si riporta con inesorabile ed acritica devozione. Il che non è nel processo, dove, come si sa occorre prontezza, intuizione, capacità di adattare la difesa al percorso di controparte od al non infrequente mutare degli eventi in corso d’opera.
Questo fenomeno, del tipo «dilettanti allo sbaraglio», non giova a nessuno, in primo luogo al datore di lavoro pubblico. Un Pretore di Trento, qualche anno fa, ne fece una questione di legittimità costituzionale, segnalando la incongruenza di una norma che consentiva allo Stato di stare in giudizio con i suoi dipendenti e quindi senza una difesa professionale, ma la Corte liquidò la cosa in poche parole affermando il principio che ognuno è libero di difendersi come vuole e come può. Si trattava, all’epoca, però, delle cause minori, quelli davanti al Pretore (e del Pretore degli anni ’30, perché la legge che consentiva tutto ciò risaliva a quella data) e non certo di un contenzioso così importante come quello che riguarda il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici.
Ma il fenomeno non giova neppure al giudice o, se vogliamo, alla «giustizia»: il processo civile è fatto di tesi ed antitesi e dall’una e dell’altra dipende la sintesi del giudice, che tanto più sarà ponderata (ed utile per il futuro) quanto più le parti avranno saputo mostrare le loro ragioni e si sa che una buona sentenza è spesso il frutto di una buona difesa.
L’impressione è quella della mancanza di un vero interesse, o di una occasione persa: per esempio, si potrebbe pensare alla istituzione di uffici legali di cui possano fruire i datori di lavoro pubblici – a livello circondariale od anche distrettuale – utilizzando personale qualificato degli Uffici territoriali del Governo dove, come si sa, i laureati in giurisprudenza sono molti e spesso in possesso della abilitazione professionale; od ad istituire un nuovo ruolo di patrocinatori, magari attingendo fra in non pochi giovani capaci ed utilizzando schemi professionali misti che consentano di lavorare e maturare una formazione specialistica, così lasciando che gli architetti delle Sovraintendenze, i Dirigenti scolastici, i Cancellieri dei Tribunali possano continuare ad interessarsi delle loro faccende e non siano costretti ad improvvisarsi avvocati.
Mi pare, in definitiva, che il conclamato fallimento di tutti gli esperimenti di giustizia dilettantistica (basta leggere, per rendersene conto, alcune pronunce rese da Commissioni Tributarie) indichino la necessità di valorizzare il momento giurisdizionale anche e soprattutto in questo settore ed in special modo nella fase iniziale che è quella da cui originerà la giurisprudenza in grado di condizionare il futuro.
Ma chiediamoci, infine, se, a parte la patologia di costume, non vi sia anche qualche altra cosa da rivedere. C’è, infatti, da chiedersi se sia proprio vero che la riforma abbia recepito il modello privatistico nella sua completezza o se i «tagli» non siano stati tali da snaturare la trama del film e le proclamate intenzioni del regista, perché, come si sa, al nostro pubblico impiegato non si applica quella norma di civiltà prevista per l’impiego privato che vuole la carriera del dipendente in linea con l’effettivo svolgimento delle sue mansioni. Questa regola (art. 13 dello Statuto dei lavoratori) è il vero motore del rapporto di subordinazione perché guarda alla effettività e perché elide in radice ogni tentativo di sfruttamento della professionalità. Qui si invocano le «piante organiche» e la loro rigidità che sarebbe preclusiva (non esclusa una certa valenza dell’art. 97 della Costituzione) della progressione automatica, ma forse a sproposito poiché la pianta organica null’altro rappresenta se non quell’atto presupposto che il giudice ordinario può disapplicare perché illegittimo: e se la pianta prevedesse due lavoratori di un certo livello ma l’amministrazione ne utilizza tre, la pianta è illegittima perché questa vuol dire che ne avrebbe dovuto prevedere tre. Se ne potrebbe fare una questione di legittimità costituzionale (mi permetto di rinviare sul punto, in senso problematico, ad un mio scritto: «Appunti in tema di mansioni superiori del lavoratore pubblico, D&L, Rivista Critica di diritto del lavoro», 2000, 597), così come se ne è fatta del divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti di lavoro del dipendente pubblico, come al solito per mere ragioni di cassa (Tribunale di Pisa, ord. 18.10.2001) o del divieto di costituire un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel caso di nullità dell’apposizione del termine (la questione, sollevata dal Tribunale di Torino, è stata rigettata ma riproposta con nuovi profili del Tribunale di Pisa, in www.unicz.it). Ma è pure dubbio il significato della esclusione dalla riforma di alcune categorie (magistrati, militari, prefettizi, diplomatici), poiché se efficienza si voleva recuperare non si vede la ragione per non farlo anche nei confronti di tali dipendenti che rappresentano il nucleo portate dell’impianto istituzionale, qui dovendosi ritenere o che da costoro non si pretenda efficienza o che ancora vi sia commistione concettuale fra il rapporto organico ed il rapporto di lavoro o che, dalle conseguenze della riforma, si siano voluto escludere i fedelissimi (ciò confermando, come accennato, l’obliquità del progetto).
In ultimo due parole per il grande feticcio, e cioè per l’art. 97 della Costituzione che, come da più parti si sostiene, rappresenta il limite della privatizzazione: qui si confonde l’organizzazione con la gestione del rapporto e si traggono conseguenze illogiche perché la prima non riguarda (se non di riflesso) la regolazione della seconda ed anche nell’impiego privato, come è noto, il datore di lavoro si organizza come vuole e nessuno ci può mettere il naso, né la controparte né tantomeno il giudice. Il criterio della correttezza e buona fede nel privato e quella della buona amministrazione nel pubblico mediano, dunque, attraverso la valutazione di congruità, fra l’esigenza riservata alla legge e quella demandata al contratto.
E tante cose, così, si sdrammatizzano.”.
[2] Così, ad es., A. Fedele Marotti, Il lavoro pubblico, in www.giust.it, n. 8/2000: “l’elemento di specialità del lavoro pubblico rispetto al privato non è percepibile, né in forza di una connotazione soggettiva, il cui impianto è risultato autoritativo (oltre che ascientifico: anche l’ente pubblico può operare per fini privatistici, ovvero nel contempo il soggetto privato intervenire per l’interesse pubblico senza contrasto con la sua natura), né con il mero richiamo all’interesse pubblico, di per sé non risolutivo e non esaustivo (con il «funzionalismo» ogni attività riconosciuta è di interesse pubblico, anche quella del privato). Sicché, per cogliere gli effettivi profili dogmatici innovativi del lavoro pubblico, occorre riconsiderare un criterio strutturale che valuti nel contempo gli aspetti soggettivi e funzionali, ma soprattutto i dati relazionali, cioè quelli che attengono concretamente al rapporto di lavoro e nel nuovo regime sono, per così dire, «privatizzati». Il lavoro pubblico, quindi, si connota nel nuovo ordinamento come una complessa relazione tra datore e prestatore che non è diretta solo alla realizzazione di una determinata produzione, ma involge i fini della attività, i soggetti che ne sono relazionati anche in via indiretta (l’utenza dei servizi), gli strumenti attraverso i quali si sviluppano queste relazioni in termini di «procedimento», secondo schemi che sono nel contempo pubblici e privati. Ciò premesso, è evidente che la locuzione «privatizzazione del pubblico impiego» appare certamente riduttiva e parziale. Posto che il dato conclusivo e sintetico non è quello della piena equipollenza nell’ambito del genus lavoro subordinato del lavoro pubblico e di quello privato, ma l’introduzione di una diversa disciplina del rapporto di lavoro pubblico con impianto paritario e la conseguente considerazione della sussistenza di un rapporto contrattuale, può condividersi l’assunto della dottrina che rileva nella riforma del lavoro pubblico non una «privatizzazione» ma la «contrattualizzazione» dello stesso. Ed in questo contesto normativo di contrattualizzazione, la disciplina e la storia del «lavoro pubblico» in termini giuridici sono ancora tutte da scrivere.”.
[3] In argomento, v. F. Nisticò “(Poche) luci e (molte) ombre nel rapporto di lavoro del pubblico impiegato”, 2002, www.unicz.it, nota n. 1, P. Montagna e S. Nespor, Cambia la giurisdizione sui concorsi interni nel pubblico impiego privatizzato: è finito l’assalto alla diligenza?, nota a sentenza Corte Cassazione SS. UU. n. 15403/2003, in D&L, 4/2003, pagg. 1027-1031, nota n. 5.
[4] Cfr., in tal senso, V. Tenore e E.A. Apicella, Il dibattito dottrinale sulla natura «attizia» o contrattuale delle determinazioni datoriali, nota a decisione C.d.S. 10.1.1999, n. 9, in Foro Amm. 1999, 2160.
[5] Per una lettura critica sia della sentenza, sia della gestione della vicenda delle riqualificazioni da parte della Pubblica Amministrazione, P. Montagna e S. Nespor, Cambia la giurisdizione sui concorsi interni nel pubblico impiego privatizzato: è finito l’assalto alla diligenza?, nota a sentenza Corte Cassazione SS. UU. n. 15403/2003, in D&L, 4/2003, pagg. 1027-1031: “Il repentino e inatteso mutamento di rotta della Corte di Cassazione in merito alla giurisdizione sui concorsi interni per la progressione di carriera dei dipendenti pubblici non è spiegabile sul piano del puro diritto.
Non vi è stata infatti la soluzione di un conflitto tra diverse opzioni interpretative dell’art. 63, 4° comma, D. Lgs. 165/01, che ha sostituito l’art. 68, 4° comma, D. Lgs. 29/93 (come modificato dal D. Lgs. 80/98), in precedenza scartata.
La disposizione infatti non è affatto una norma oscura o di equivoca interpretazione (come pure alcuni anche recentemente hanno sostenuto): è chiarissima e di piana interpretazione.
A fronte di una generalizzata devoluzione all’Ago delle controversie in materia di pubblico impiego, essa introduce un’eccezione riguardante «le procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni».
Pertanto, tenuto conto che le disposizioni eccezionali sono di stretta interpretazione (art. 14 preleggi) e che l’interpretazione della legge esclude che a una disposizione normativa possa essere attribuito «altro sen­so che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore» (art. 12 preleggi), sono sottratte alla giurisdizione dell’Ago solo le controversie che ri­guardano una procedura concorsuale «e» un’assunzione. Concorsi che non comportano assunzione, e assun­zioni che non avvengono a mezzo dì concorsi, sono quindi esclusi dall’ambito di applicazione della norma.
In particolare, avrebbero dovuto restare escluse dalla portata della norma eccezionale – e rientrare nella generale giurisdizione dell’Ago – le procedure concorsuali rivolte alla progressione di carriera dei dipen­denti già assunti. Queste procedure concorsuali infatti determinano solo un avanzamento di «grado» del dipendente e quindi l’inserimento dello stesso in un diverso e superiore posto in organico, soggetto a concorso pubblico per effetto dell’art. 97 della Cost., ma non, ovviamente, un’assunzione.
La scelta operata in sede di riforma non è stata inoltre né casuale né avventata.
Si è infatti ritenuto che prima dell’assunzione, non essendo ancora costituito il rapporto di lavoro, era prevalente nei candidati o aspiranti la posizione di interesse legittimo ed era quindi ragionevole mantenere la giurisdizione del giudice amministrativo. Dopo l’assunzione invece le controversie in materia di concorsi interni per l’accesso a posti di livello superiore si svolgevano tra dipendenti pubblici e riguardavano posizio­ni riconducibili a diritti soggettivi.
Del resto, anche nel diritto vivente la diversa opzione interpretativa, adottata dalla Cassazione, era ormai praticamente scomparsa: salvo alcune, sporadiche, decisioni l’Ago compattamente riteneva rientrante nella propria giurisdizione qualsiasi controversia che, ancorché riguardante una procedura concorsuale, non com­portasse un’assunzione nell’organico della pubblica amministrazione: quindi anche i concorsi interni. Dopo un’iniziale (e comprensibile, tenuto conto delle perplessità ripetutamente manifestate dal Consiglio di Stato nei confronti della riforma) resistenza, anche la giurisprudenza amministrativa si era adeguata.
In questo senso si era inoltre pronunciata ripetutamente la Corte dì Cassazione, fino alla sentenza qui commentata (per una rassegna cfr. M. Nicolosi, «Concorsi interni e riparto di giurisdizione», nota a Trib. Palermo 19/9/02, in Il lavoro nelle PA 2002, 135 sgg. – testo integrale del provvedimento è in www.giuffré.it/riviste/lpa).
La giurisprudenza, in altri termini, ha sempre escluso che il passaggio da una posizione a quella superiore fosse «assimilabile» a un’assunzione e quindi ha escluso l’applicabilità della deroga alla giurisdizione ordinaria, prevista solo per le procedure concorsuali finalizzate all’assunzione.
In una situazione di sostanziale stabilità interpretativa realizzata proprio a mezzo dell’opera di nomofila­chia svolto dalla Corte di Cassazione, che cosa ha indotto quindi la Corte di Cassazione a mutare la propria posizione, e a manipolare vistosamente il significato proprio del termine assunzione fino a estenderlo a qual­siasi passaggio di categoria (con la conseguenza che i dipendenti pubblici vengono «riassunti» a ogni passag­gio di grado, con una sorta di novazione del loro rapporto di lavoro)?
Non certo la giurisprudenza in materia della Corte Costituzionale, che pure la Corte di Cassazione ri­chiama a sostegno della «necessaria rimeditazione» a cui ha sottoposto la questione.
E infatti la posizione incessantemente ribadita dalla Corte Costituzionale è che l’avanzamento di carrie­ra e quindi il passaggio a una qualifica più elevata del dipendente pubblico comporta l’accesso a un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è quindi soggetta al pubblico concorso, derogabile solo in presenza di peculiari situazioni che giustifichino l’adozione di una procedura diversa da quella del concorso pubblico, nell’interesse della PA (si tratta di una giurisprudenza formatasi già negli anni ottanta. Si vedano le sentenze 7/4/83 n. 81, in Foro it. 1983, I, 2354; 24/3/88 n. 331, ivi 1989, I, 2675; 23/7/93 n. 333, in Rass. Cons. Stato 1993, II, 1213; 10/6/94 n. 234, ivi 1994, II, 859; 29/12/95 n. 528, in Giur.it. 1996, I, 102; 4/1/99 n. 1, in Foro it. 1999, I, 1; 16/5/02 n. 194, in Il lavoro nelle PA 2002, 289).
Come diretta conseguenza di questo orientamento, la Corte Costituzionale ha spesso formulato severe critiche nei confronti della crescente utilizzazione dì procedure selettive interne, censurandone «l’abnorme diffusione» che «produce una distorsione che… si riflette negativamente sul buon andamento della Pubblica Amministrazione» (Corte Cost. 20/7/94 n. 314, in Rass. Cons. Stato 1994, II, 1103).
Ma queste critiche sono del tutto compatibili con un’interpretazione dell’art. 63, 4° comma, che ne esclu­da l’estensione anche ai concorsi interni, mantenendo quindi per questi ultimi la generale giurisdizione dell’Ago: manca infatti il requisito dell’assunzione che deve concorrere con la presenza di una procedura concorsuale perché scatti la clausola derogatoria.
L’elemento che ha indotto la Corte di Cassazione a modificare il proprio orientamento è in realtà stato costituito dall’«assalto alla diligenza» del denaro pubblico destinato alle risorse del personale, verificatosi a seguito della privatizzazione del pubblico impiego. Sono state quindi considerazioni in merito alle modalità con le quali sono state sprecate e stravolte le opportunità di gestione e di recupero di efficienza e di produt­tività offerte dalla trasformazione dell’organizzazione pubblica a seguito della privatizzazione. Paradossalmente, una delle decisioni più tecnicamente giuridiche e indipendenti da valutazioni di merito – e cioè la decisione sulla giurisdizione adottata dalla sentenza qui annotata – costituisce l’indiretta ma precisa risposta della Suprema Corte alla disastrosa utilizzazione che la maggior parte delle amministrazioni pubbliche, sorrette e sospinte dalle pressioni delle organizzazioni sindacali del settore pubblico a livello decen­trato, hanno fatto degli strumenti privati per la gestione dei lavoratori e, in particolar modo, proprio dei concorsi interni.
E infatti, le previsioni adottate da tutti i contratti collettivi nazionali di comparto di procedure selettive per il passaggio non solo da un’area all’area superiore, ma anche all’interno della stessa area (in quanto con­globante più livelli dei precedenti ordinamenti del personale) – adottate in conformità del precetto costitu­zionale dell’art. 97 – sono state dalla maggior parte delle amministrazioni pubbliche disattese, stravolte, ag­girate o semplicemente ignorate.
La privatizzazione del pubblico impiego e il conseguente spostamento di discrezionalità in capo al datore di lavoro pubblico per ciò che riguarda la gestione del personale sono state l’occasione non per una (tanto sperata) assunzione di responsabilità dei vertici delle singole amministrazioni per recuperare efficienza e produttività, per ragguagliare la gestione del personale pubblico a quella di una azienda privata, ma per av­viare, appunto, un generalizzato assalto alla diligenza del pubblico impiego, dove tutti i possibili illegittimi strumenti – scivolamenti di mansioni verso gradi superiori, finte procedure di riqualificazione, promozioni a pioggia, attribuzioni di posizioni differenziate finalizzate solo a offrire ai destinatari aumenti retributivi – sono stati utilizzati per quasi tutte le finalità possibili, comprese quelle illecite, salvo quelle che la riforma e la contrattazione collettiva avrebbero richiesto di perseguire: l’efficienza e l’autoresponsabilizzazione dell’am­ministrazione. (Tutte queste pratiche sono state oggetto di ripetute censure da parte della Corte Costituzionale, si vedano in particolare le sentenze 1/99, 320/97, 478/95, 314/94).
Gli esempi si sprecano.
Prendiamo ad esempio ciò che è successo nell’Inps, non perché questo ente offra un caso straordinario o anomalo (é invece sintomatico di ciò che si è verificato, con maggiore o minore inventiva o perversione, nella maggior parte delle altre amministrazioni pubbliche, nella sanità, negli enti locali, nelle regioni, e così via) ma solo perché vi sono dati precisi e perché la vicenda è stata ripetutamente portata all’esame dell’Autorità giudiziaria.
Se sì legge il Contratto collettivo nazionale, tutto appare in regola. Sono introdotte le aree, suddivise in posizioni. che raggruppano precedenti livelli, sono previste procedure selettive rigorose per il passaggio da area a area e anche, assai meno rigorose, all’interno dell’area, per il passaggio da una posizione all’altra.
Se si passa alla lettura del contratto collettivo integrativo, si scopre subito che l’impostazione del Ceni è stravolta almeno sotto due diversi profili. In primo luogo, utilizzando l’agevolazione offerta dall’introduzio­ne dell’inquadramento dei vari livelli precedenti nelle aree per operare uno «scivolamento verso l’alto» delle mansioni. In secondo luogo, riducendo a puri simulacri formali le verifiche dì professionalità, le prove se­lettive e gli esami richiesti per il passaggio tra aree e all’interno di ciascuna area.
In questo modo, sono state garantite ai dipendenti in servizio rapida ascesa professionale e miglioramen­ti economici.
Le basi poste dal Cci per garantire una automatica scalata dei dipendenti verso qualifiche/posizioni supe­riori sono state ampiamente utilizzate e sviluppate nella sua repentina attuazione. Nel periodo immediatamente successivo – quindi tra il luglio 1999 e il luglio 2001 – la progressione tra aree e all’interno delle aree (e quindi la progressione nelle ex qualifiche funzionali incluse in una stessa area) sì è trasformata in una gene­ralizzata «promozione» del personale in servizio, con reinquadramenti non selettivi o fintamente selettivi, con procedure di riqualificazione per gruppi di dipendenti predeterminati (e quindi non concorsuali) a livelli superiori. Pertanto allo slittamento verso l’alto delle mansioni operato dal Cci è corrisposto lo «smottamento verso l’alto» del personale dell’ente collocato nelle posizioni inferiori. L’effetto paradossale è che in pochissimo tempo sono così state svuotate sia l’area A che l’area B: la maggior parte dei dipendenti ivi inquadrati si è trovata proiettata, senza in alcun modo aver acquisito incrementi di professionalità o aver su­perato effettive selezioni al riguardo, nell’area C, e poi alle posizioni di vertice di questa area.
In definitiva, la gestione «manageriale» dei concorsi interni si è trasformata in una sostanziale abrogazio­ne del precetto costituzionale del pubblico concorso e in un generalizzato «assalto alla diligenza» delle risor­se pubbliche.
Questo è lo scenario della privatizzazione che la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale si sono trovate di fronte, con il passare degli anni dalla privatizzazione.
Di fronte all’indisponibilità di adeguati mezzi di tutela giudiziaria di fronte alla giurisdizione ordinaria nel caso in cui l’Amministrazione non adotti rigorose procedure concorsuali per i concorsi interni (sia per i dipendenti esclusi dall’«assalto alla diligenza», sia per i cittadini ai quali viene precluso l’accesso mediante pubblico concorso si pongono, in sede di giurisdizione ordinaria, delicati problemi di interesse e di legittimazione ad agire) e di fronte anche alla propensione culturale dei giudici del lavoro a valorizzare gli aspetti di gestio­ne privata della progressione di carriera, l’unica soluzione percorribile è quindi parsa quella di consolidare il vincolo del pubblico concorso per i concorsi interni spostando la giurisdizione al Giudice amministrativo, mediante un’interpretazione manipolatrice del termine assunzione.
I primi segnali in questo senso sono arrivate dalla Corte Costituzionale, tradizionale baluardo del rigido rispetto dell’art. 97 Cost..
La Corte, pur continuando nella propria ripetitiva catena di decisioni che richiedono e impongono il concorso pubblico dichiarando illegittime le scelte di carattere legislativo che non si attengono a questo precet­to (e da sola questa massa di sentenze costituisce un drammatico atto di accusa nei confronti di un’Amministrazione pubblica che si ostina a usare in modo distorto i propri poteri e i propri mezzi finanzia­ri), ha cominciato – senza affrontare il nodo della giurisdizione – a introdurre un richiamo al carattere novativo che la promozione del dipendente pubblico assume per effetto del superamento del concorso, in modo da evidenziarne la sostanziale differenza dalle promozioni del rapporto di lavoro privato.
Si veda, per esempio. la sentenza n. 194/02 che dichiara costituzionalmente illegittime delle procedure di riqualificazione perché lesive dei principi che presiedono alla organizzazione dei pubblici uffici, in quanto «il passaggio a una fascia funzionale superiore comporta l’accesso a un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso in quanto proprio questo metodo offre le migliori garanzie di selezione dei soggetti più capaci».
Questo concetto è stato ribadito sia dalla sentenza n. 1/99, sia dalla sentenza 218/02, ove la Corte ha pre­cisato che «nell’accesso a funzioni più elevate, ossia nel passaggio a una fascia funzionale superiore, nel qua­dro di un sistema, come quello oggi in vigore, che non prevede carriere o le prevede entro ristretti limiti, deve essere ravvisata una forma di reclutamento».
La decisione più importante al riguardo – perché tocca, sia pure indirettamente, la giurisdizione – è però l’ordinanza n. 2/01.
La controversia concerneva un concorso pubblico, con posti riservati a dipendenti già in servizio. Si trat­tava, in altri termini, di un «concorso misto» ove era prevista un’unica graduatoria per i concorrenti prove­nienti dall’esterno e per i concorrenti già dipendenti aventi diritto alla riserva di posti. Il Tar Sicilia, adito da un concorrente avente diritto alla riserva, ha sollevato una questione di costituzionalità dell’art. 68 del D. Lgs. 29, ora art. 63 del TU 165/01, in quanto la regola ivi contenuta avrebbe previsto due diverse giurisdizio­ni per Io stesso concorso, a seconda che la controversia riguardasse posti di riserva o posti oggetto di concorso pubblico.
La Corte ha ritenuto infondata la questione perché fondata sull’erroneo presupposto interpretativo «secondo cui la procedura concorsuale sarebbe diversa per i concorrenti esterni e per quelli interni con diritto alla riserva, trattandosi invece, sia per gli uni che per gli altri, di una procedura di assunzione nella qualifica indicata dal bando» con conseguente giurisdizione relativamente all’intera controversia spettante al giudice amministrativo.
Le premesse per l’inversione di rotta sono ormai dichiarate: nel pubblico concorso per l’assunzione dei dipendenti rientra anche il concorso interno per il passaggio a una categoria superiore, in quanto assunzione nella qualifica indicata nel bando.
Ed è questa indicazione che la Corte di Cassazione, con la sentenza annotata, resasi conto probabilmente dell’incontenibilità dell’«assalto alla diligenza» dell’Amministrazione pubblica con altri diversi mezzi, si adegua, utilizzando lo strumento che può porre un serio freno alle progressioni camuffate: l’intervento del giudice amministrativo per vagliare il rispetto della regola dei concorsi pubblici e per tutelare sia l’interesse pubblico sia i diritti dei dipendenti e dei cittadini le cui legittime aspettative vengono stravolte.
Si tratta di una soluzione probabilmente non indolore: ci si accorgerà ben presto che essa apre molti più problemi giuridici di quelli che risolve, e l’incertezza sulla giurisdizione in merito alle controversie nel pub­blico impiego è destinata ad aumentare.
Ma, al di là di ciò, si tratta di una soluzione che non può che lasciare sconfortati e avviliti sull’incapacità complessiva dell’Amministrazione pubblica di questo Paese di raggiungere normali livelli di efficienza e di civiltà.”.
[6] Alcuni ritengono che da esse sia ricavabile il principio secondo il quale è am­missibile il conferimento di mansioni superiori per effetto dello sviluppo professionale (Montini, Il nuovo ordinamento professionale dei pubblici dipendenti alla luce della sentenza n. 1/1999 della Corte Costituzionale, in Il lavoro nelle p.a., 1999, 132; Forlenza-Terracciano-Volpe, La riforma del pubblico impiego, Milano, 1998, 95), sostenendo che il legislatore avrebbe legittimato gli avanzamenti profes­sionali ed introdotto una disciplina più vicina a quella della cd. “carriera” che non a quello della qualifica funzionale (Sgarbi, Un concorso interno alle finanze sospettato di violare l’art. 97 della Costituzione – nota a Cons. Stato, sez. IV, 5 giugno 1998, n. 646 – in Il lavoro nelle p.a., 1998, 889). Lo scopo sarebbe stato proprio quello di permettere la copertura, sia pure di una parte dei posti, mediante il ricorso a procedure selettive “interne”, cosicché risulterebbe, in buona sostanza, esplicitata l’irriconducibilità dello “sviluppo professionale” all’accesso.
Sotto il profilo letterale, è valorizzata dalla circostanza che l’art. 36, D. L.vo n. 29 del 1993, nel testo originario, prevedeva che l’accesso esterno dovesse avvenire mediante “concorso” e che, invece, il termine, con la modifica realizzata con il D. L.vo n. 80 del 1998, è stato sostituito con “procedure selettive”, al fine di ritenere che addirittura anche per l’accesso dall’esterno sarebbe stata attenuata la rigidità del meccanismo concorsuale, inteso in senso tradizionale(Luciani, Mercato del lavoro, carriere e concorsi pubblici, in Dir. merc. lav., 1999, 357), con conseguente am­missibilità di procedure di selezione non comparative (Fiorillo, Il reclutamento del personale pubblico: forme contrattuali stabili e flessibili, in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario diretto da Carinci e D’Antona, Milano, 2000, 1040).
All’interno di questo orientamento è valorizzata la strumentalità di questa in­terpretazione rispetto all’esigenza di permettere all’amministrazione di avvalersi di personale esperto (Rusciano, Carriera per concorso del dipendente pubblico: «imparzialità» o «buon andamento»?, in Il lavoro nelle p.a., 1999, 218). L’eventuale suo contrasto con l’orientamento della giurisprudenza costituzionale è, invece, escluso con la considerazione che da quest’ultimo sarebbe essenzialmente ricavabile il principio imprescindibile di un ragionevole bilanciamento tra la regola del concorso, l’esigenza di efficienza e le aspetta­tive dei dipendenti (Guariso, «Insiders» e «outsiders»: la dura lotta per il posto di lavoro continua, in Riv. crit. dir. lav., 1999, 792; Daniele, I limiti di ammissibilità dei concorsi riservati al personale dipendente – concorsi interni -, in Amm. it., 1998, 702), che può essere congruamente realizzato mediante l’adozione di accorte procedure selettive (Talamo, Il concorso pubblico nella giurisprudenza costituzionale, in Giornale dir. amm., 1999, 544), cosicché dovrebbero essere superati i dubbi di legittimità che, altrimenti, si addensano sul modello duttile di “carriera” introdotto dalla contrattazione collettiva (Luciani, Mercato del lavoro carriere e concorsi pubblici, in Dir. merc. lav., 1999, 353).
[7] In particolare, questo sistema è sembrato in contrasto con i principi elaborati dal Giudice delle Leggi (Cassese, Cattive abitudini, in Il Sole 24 ore, 8.2.1999) sia nella parte in cui rende possibile l’accesso ad un’area senza concorso esterno, sia laddove prevede la mobilità interna all’area, quante volte da questa consegua non una mera modificazione dello stato economico, ma anche della posizione professionale (Talamo, Il concorso pubblico nella giurisprudenza costituzionale, in Giornale dir. amm., 1999, 541). Per tale aspetto continuerebbe ad essere insuperabile la permanente “diversità tra l’imprenditore pubblico e l’imprenditore privato, derivante dalla circostanza che il primo resta soggetto ad una disciplina differenziata e che è titolare di poteri organizzativi pubblicisticamente funzionalizzati” (Patroni Griffi, Lavoro pubblico e giurisdizione, in Il lavoro nelle p.a., 2000, 210), diversità che si riflette sul piano del rapporto di lavoro “comprimendo, forse in maniera decisiva, il profilo scambistico della prestazione lavorativa” (Talamo, Il concorso pubblico nella giurisprudenza costituzionale, in Giornale dir. amm., 1999, 545) sino a costituire un argine invalicabile per una configurazione del rapporto in termini di flessibilità.
L’interpretazione combinata dei primi due commi dell’art. 5, D. L.vo n. 165 del 2001 dimostrerebbe che gli strumenti privatistici sono utilizzabili dal datore di la­voro pubblico con la capacità e i poteri propri del datore di lavoro privato sempre e comunque entro i limiti della loro compatibilità con la rispondenza all’interesse pubblico ed al principio di imparzialità.
Le procedure selettive dell’art. 35, D. L.vo n. 165 del 2001, per espressa affer­mazione della norma, è stato osservato, devono essere “pubbliche”, che vuol dire aperte all’accesso dall’esterno, secondo la tradizionale logica concorsuale, derogabile esclusivamente quanto alla necessità dell’unicità e dell’accentramento delle selezioni, eliminate al fine di ridurre i costi e di assicurare rapidità e funzionalità delle procedure (Mezzacapo, La giurisdizione in materia di concorsi interni nelle pubbliche amministrazioni – nota a Cass., SS.UU., n. 15602/01, in Giur. it., 2001, 1846).
[8] Per una ricostruzione del sistema, per tutti, si veda Ricciardi, I nuovi sistemi di classificazione del personale nei rinnovi contrattuali, in Il lavoro nelle p.a., 1999, 263 e ss.
[9] Di questo avviso, Salvato, Il riparto di giurisdizione nei concorsi per accesso a qualifiche superiori nel pubblico impiego, in Relazione tematica su questione di massima e di particolare interesse dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione, 2003, 53, 32-33.
[10] Tra le più recenti, sulla configurabilità di un vero e proprio onere del giudice ordinario di verificare la praticabilità di questa interpretazione, Corte cost., n. 447, 336 e 191 del 2002.
[11] Crisafulli, Le sentenze interpretative della Corte costituzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, I, 1; G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1989, 279; Amoroso, L’interpretazione adeguatrice nella giurisprudenza costituzionale tra canone ermeneutico e tecnica di sindacato di costituzionalità, in Foro it., 1998, V, 89; Morelli, Il «diritto vivente» nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giust. civ., 1995, II, 160.
[12] Salvato, Il riparto di giurisdizione nei concorsi per accesso a qualifiche superiori nel pubblico impiego, in Relazione tematica su questione di massima e di particolare interesse dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione, 2003, 53, 31.
[13] Rusciano, Carriera per concorso del dipendente pubblico: «imparzialità» o «buon andamento»?, in Il lavoro nelle p.a., 1999, 218.
[14] Guariso, «Insiders» e «outsiders»: la dura lotta per il posto di lavoro continua, in Riv. crit. dir. lav., 1999, 792.
[15] D’Antona, Lavoro pubblico e diritto del lavoro; la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle «leggi Bassanini», in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario diretto da Carinci e D’Antona, Milano, 2000, LXII.
[16] Per una lettura critica della gestione della vicenda delle riqualificazioni da parte della Pubblica Amministrazione, P. Montagna e S. Nespor, Cambia la giurisdizione sui concorsi interni nel pubblico impiego privatizzato: è finito l’assalto alla diligenza?, nota a sentenza Corte Cassazione SS. UU. n. 15403/2003, in D&L, 4/2003, pagg. 1027-1031, supra, nota n. 5.
[17] Vedi F. Nisticò “(Poche) luci e (molte) ombre nel rapporto di lavoro del pubblico impiegato”, 2002, www.unicz.it, nota n. 1, P. Montagna e S. Nespor, Cambia la giurisdizione sui concorsi interni nel pubblico impiego privatizzato: è finito l’assalto alla diligenza?, nota a sentenza Corte Cassazione SS. UU. n. 15403/2003, in D&L, 4/2003, pagg. 1027-1031, nota n. 5.
[18] “Occorre, infatti, dare uno sbocco contenutistico e funzionale all’operazione di privatizzazione e/o di contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico, che è incardinata sul principio delle responsabilità diffuse e sul raggiungimento dei risultati, altrimenti questi tentativi di riforma saranno semplicemente nominali, cioè gli effetti sperati saranno minimi.
L’armonizzazione delle regole che disciplinano il rapporto di lavoro pubblico a quello del settore privato, pur nei vincoli propri connessi alla natura pubblica del datore di lavoro, ha senso con riguardo agli strumenti di gestione del rapporto (produttività, merito individuale, valutazione, meccanismi premianti, ecc), non già al momento causale di esso che funzionalmente rimane pubblico e rispetto al quale sono ulteriori e conseguenziali gli aspetti di elasticità, adattabilità e flessibilità del rapporto individuale di lavoro in relazione alla dinamica dei processi gestionali e dei cambiamenti resi necessari da un contesto operativo ormai globalizzato e competitivo, che postula rapidità di decisione.
In altri termini, lo schema operativo del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, che è fondato su una logica di tipo professionale non diversa da quella esistente nel settore privato, ha sua ragione d’essere in considerazioni finalizzate a un miglioramento dell’efficienza e della qualità dei servizi nel quadro di una rinnovata capacità gestionale della Pubblica Amministrazione (art. 97 della Costituzione).” (Cit. Sentt. T.A.R. Lazio, Sez. II Ter, nn.3756 e 3757 del 4.5.2004).

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