I minori nei conflitti genitoriali

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La sensibilità della Suprema Corte si schiera al fianco dei minori, vittime dei conflitti e delle frustrazioni dei genitori.

Con due sentenze:

La n. 250 del 10 gennaio in cui i Giudici sanzionano il comportamento di una donna calabrese di 50 anni per aver maltrattato il figlio minorenne umiliandolo, ricattandolo, minacciandolo di continuo e vessandolo a tal punto da avere delle conseguenze nefaste sulla sua crescita da essere catalogate come “effetti devastanti”. Tale atteggiamento era, secondo pareri di psicologo e psichiatra, il prodotto dell’interazione conflittuale tra coniugi. Infatti entrambi i coniugi si adoperavano “a strumentalizzare i figli, usati nella crisi coniugale per scopi vendicativi nei confronti del coniuge”. La Sesta Sezione, scartata l’ipotesi dell’utilizzo come “scudi umani” dei minori e al cospetto di personalità disturbata di entrambi i genitori, non ha esitato a condannare per maltrattamenti anche suffragata dalla testimonianza dello stesso minore e dei suoi insegnanti.

La n. 552 del 12 gennaio – sempre la Sesta Sezione intimano l’allontanamento del padre di due bambine dalla dimora familiare per maltrattamenti in famiglia.

Nella sentenza viene confermata la misura cautelare adottata dal Gip di Trapani ma redarguiscono il Tribunale del riesame che l’aveva cassata per l’impossibilità di colpevolizzare l’uomo in un contesto di coppia/genitori definito “una variopinta rappresentazione di reciproci soprusi familiari che…non consente di distinguere tra vittima e carnefice”. I Giudici del Riesame hanno valutato solo gli aspetti relazionali della coppia trascurando le ricadute negative sulla psiche delle figlie minori quali vittime/spettatrici delle angherie e maltrattamenti tra i genitori.

Il nostro diritto penale prevede il reato di “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, che è così definito dall’articolo 572 del codice penale: “Chiunque, (…) maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni 14, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.

La pena è aggravata se dal fatto derivano lesioni personali o la morte.

Da una prima analisi scaturisce la deduzione che la definizione del reato nasce in un’altra epoca storica, ed è particolarmente orientata al maltrattamento come violenza fisica. La formulazione generica delle norme, però, è in molti casi da considerarsi un vantaggio, perché permette di adeguarle ai mutamenti sociali.

Proprio grazie alle migliaia di sentenze in merito, il concetto di “maltrattare una persona della famiglia” si è evoluto in maniera diversificata.

In primis ingloba il maltrattamento morale, psicologico, la vessazione, la causazione di sofferenze non fisiche.

Tali atteggiamenti integrano il reato quando sono protratti, abituali, costanti.

Quindi non si parla di fatti episodici, che potranno ricevere tutela da parte di altre norme, ma di un’abitudine familiare, di un clima, di uno stato costante di vessazione, di un disagio prolungato nel tempo.

Si parla dell’esistenza di un vero e proprio sistema di vita di relazione familiare abitualmente doloroso ed avvilente provocato proprio con intento persecutorio.

Il diritto internazionale dei diritti umani prevede che tutti i governi hanno la responsabilità di prevenire, indagare e punire gli atti di violenza sulle donne in qualsiasi luogo si verifichino: tra le mura domestiche, sul posto di lavoro, nella comunità o nella società, durante i conflitti armati.

Per incorrere nel reato è necessaria la manifestazione di fatti eclatanti è molto gravi rispetto al semplice disturbo od alla molestia personale.

La circostanza ove si consuma il reato è::

a) l’arrecare un perdurante e grave stato di ansia e di paura;

b) l’ingenerare una razionale paura per l’incolumità personale propria o di un prossimo congiunto o di una persona cui si è legati emotivamente;

c) alterazione le proprie abitudini/consuetudini di vita.

Protezione contro gli abusi familiari, art. 342 bis c.c.

Nel momento in cui il comportamento del coniuge o convivente crea un grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ossia alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, [quando l’evento non si materializza in reato perseguibile d’ufficio] su richiesta di parte, può applicare mediante decreto i vari commi dell’articolo 342-ter

Ordini di protezione, art. 342 ter c.c.

Nell’applicazione dell’articolo 342-bis il giudice intima al coniuge o convivente, che attuato una condotta pregiudizievole, la cessazione dello stesso comportamento e ordina l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha contravvenuto diffidandolo, qualora ricorrano gli estremi, ad osservare una distanza dai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, soprattutto al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ossia ai luoghi di domicilio di altri parenti o di amici nonché nei dintorni degli istituti di istruzione dei figli della coppia, ad eccezione se il motivo dell’aggirarsi è dettato da motivi di lavoro.

Il giudice ha facoltà di far intervenire i servizi sociali del Comune o di un centro di mediazione familiare, oppure le associazioni che perseguono il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti;statuisce un assegno periodico a favore delle persone conviventi (eccezione) che, causa l’allontanamento dal nucleo, sono private di mezzi di sopravvivenza, stabilendo il come ed il quando effettuare il versamento e vietando il versamento diretto all’avente diritto della somma oppure stabilisce che la stessa somma sia versata dal datore di lavoro che poi la detrae al lavoratore.

Il Giudice nello stesso atto, nei casi previsti, precisa per quanto tempo debba essere l’ordine di protezione, che ha decorrenza dall’esecuzione dello stesso. L’ordine di protezione ha validità di sei mesi, prorogabili – su richiesta di parte -, quando sopravvengono gravi motivi e solo per il tempo indispensabile.

Quanto detto va rivisitato alla luce delle norme contemplate nella legge nr. 149 del 2001 che, con gli art. 330 e 333 c.c. prevedono l’allontanamento dalla casa familiare del genitore o del convivente.

Corbi Mariagabriella

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