I marchi d’impresa sono esclusi dalle agevolazioni fiscali del patent box

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  1. Premessa
  2. Aspetti fiscali del marchio
  3. Il valore del marchio  e l’eventuale   tassazione della   relativa plusvalenza (Cass. n. 23498/2016)

3.1.  Il caso

3.2. La motivazione della sentenza

  1. Patent box: la normativa di riferimento e l’esclusione dei marchi dal 2017 (art. 56 D.L. n. 50/2017)

4.1.  Aspetti generali

4.2.  Ambito soggettivo

4.3.  Ambito oggettivo

4.4.  Novità introdotte dall’art. 56 del D.L. n. 50/2017

  1. Raccomandazioni OCSE del 2015

 

1.Premessa

In ambito commerciale, il marchio rappresenta un mezzo distintivo finalizzato a riconoscere ed identificare un “prodotto-servizio”, distinguendo lo stesso dal marchio della concorrenza.

Nel caso delle società sportive dilettantistiche (al pari delle società professionistiche), il marchio rappresenta l’elemento fondante dei rapporti di scambio instaurati tra le società sportive e i mercati di riferimento (aziende sponsor, tifosi, appassionati, stakeholder, bacino d’utenza)

Nello sviluppo del “business sportivo”, il marchio, grazie alla notorietà, immagine e fedeltà, quantifica una relazione con soggetti esterni e determina, in termini economici, un’importante fonte di “vantaggi competitivi” per il club di riferimento.

Ciò posto, si analizzano nei paragrafi seguenti gli aspetti fiscali del marchio.

2.Aspetti fiscali del marchio

La normativa di riferimento riguardante gli aspetti fiscali del marchio è contenuta, ai fini delle imposte dirette, negli artt.103 e 110 del D.P.R. n. 917/86, ai fini IVA, nell’art. 3, comma 2, n. 2 del D.P.R. n. 633/72, ai fini IRAP, nell’art. 5 del DLgs n. 446/97.

 

 

 

NORMATIVA IMPOSTE INDIRETTE

Ø  Art. 103 D.P.R. 917/86 (ammortamento beni immateriali):

“Le quote di ammortamento del costo dei diritti di utilizzazione di opere dell’ingegno, dei brevetti industriali, dei processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale o scientifico sono deducibili in misura non superiore al 50 per cento del costo; quelle relative al costo dei marchi d’impresa sono deducibili in misura non superiore ad un diciottesimo del costo”.

Ø  Art. 110 D.P.R. 917/86 (norme generali sulle valutazioni):

Agli effetti delle norme del presente capo che fanno riferimento al costo dei beni senza disporre diversamente:

a) il costo è assunto al lordo delle quote di ammortamento già dedotte;

b) si comprendono nel costo anche gli oneri accessori di diretta imputazione, esclusi gli interessi passivi e le spese generali. Tuttavia per i beni materiali e immateriali strumentali per l’esercizio dell’impresa si comprendono nel costo gli interessi passivi iscritti in bilancio ad aumento del costo stesso per effetto di disposizioni di legge. Nel costo di fabbricazione si possono aggiungere con gli stessi criteri anche i costi diversi da quelli direttamente imputabili al prodotto; per gli immobili alla cui produzione è diretta l’attività dell’impresa si comprendono nel costo gli interessi passivi sui prestiti contratti per la loro costruzione o ristrutturazione; (4)

c) Il costo dei beni rivalutati, diversi da quelli di cui all’articolo 85, comma 1, lettere a), b) ed e), non si intende comprensivo delle plusvalenze iscritte, ad esclusione di quelle che per disposizione di legge non concorrono a formare il reddito. Per i beni indicati nella citata lettera e) che costituiscono immobilizzazioni finanziarie le plusvalenze iscritte non concorrono a formare il reddito per la parte eccedente le minusvalenze dedotte; (5)

d) il costo delle azioni, delle quote e degli strumenti finanziari similari alle azioni si intende non comprensivo dei maggiori o minori valori iscritti i quali conseguentemente non concorrono alla formazione del reddito, né alla determinazione del valore fiscalmente riconosciuto delle rimanenze di tali azioni, quote o strumenti;

e) per i titoli a reddito fisso, che costituiscono immobilizzazioni finanziarie e sono iscritti come tali in bilancio, la differenza positiva o negativa tra il costo d’acquisto e il valore di rimborso concorre a formare il reddito per la quota maturata nell’esercizio.”

 

 

NORMATIVA IVA

Ø  Art. 3, comma 2, n. 2, D.P.R. 633/82:

“Costituiscono inoltre prestazioni di servizi, se effettuate verso corrispettivo:

[…]

2) le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti d’autore, quelle relative ad invenzioni industriali, modelli, disegni, processi, formule e simili e quelle relative a marchi e insegne, nonché le cessioni, concessioni, licenze e simili relative a diritti o beni similari ai precedenti;”

 

NORMATIVA IRAP

Ø  Art. 5, D.Lgs 446/97:

“ Per i soggetti di cui all’articolo 3, comma 1, lettera a), non esercenti le attività di cui agli articoli 6 e 7, la base imponibile è determinata dalla differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alle lettere A) e B) dell’articolo 2425 del codice civile, con esclusione delle voci di cui ai numeri 9), 10), lettere c) e d), 12) e 13), nonché dei componenti positivi e negativi di natura straordinaria derivanti da trasferimenti di azienda o di rami di azienda, così come risultanti dal conto economico dell’esercizio.” 

 

 

Dopo aver definito il quadro normativo fiscale in riferimento al marchio, si evidenzia che il marchio può essere iscritto tra le immobilizzazioni immateriali alla voce B (“Immobilizzazioni“), I (“Immobilizzazioni immateriali“), 4) (“Concessioni, licenze, marchi e diritti simili“), sia a seguito di produzione interna, sia a seguito di acquisizione a titolo oneroso da terzi. I costi interni iscrivibili sono solo i costi diretti sostenuti per la produzione del marchio. Naturalmente, essi sono costi d’esercizio e quindi addebitati nel Conto Economico dell’esercizio di competenza. Successivamente, gli stessi costi andranno capitalizzati nello Stato Patrimoniale, tra le immobilizzazioni immateriali, in modo che producano la loro utilità nel tempo e non solo nell’esercizio in cui sono stati sostenuti. I costi d’esercizio che è possibile capitalizzare nella voce “Marchi” riguarderanno: gli stipendi, i salari e altri costi relativi al personale impegnato nella realizzazione del marchio; i costi dei professionisti esterni che studiano la fattibilità dello stesso; i costi dei materiali impiegati per la creazione del marchio ed infine gli eventuali costi per la registrazione. La produzione di un marchio prodotta internamente difficilmente viene capitalizzata, essendo gli ammontari dei costi relativi non particolarmente rilevanti e, comunque, inferiori al valore intrinseco di tale segno distintivo dell’azienda; frequente è l’acquisizione di marchi da altre società, trasferiti di solito insieme all’azienda. In tal caso, il valore del marchio deve essere separatamente indicato rispetto al valore di avviamento e degli altri beni materiali acquisiti. Il periodo di ammortamento è collegato al diritto di sfruttamento in esclusiva dei prodotti cui il marchio si riferisce, entro un periodo che non può eccedere 20 anni.

Ai fini fiscali, si  sottolinea che il provento della cessione del marchio d`impresa, proprio della società cedente, non può configurarsi quale ricavo, in quanto la natura dell`oggetto ceduto fa sì che lo stesso non possa essere qualificato come bene alla cui produzione o scambio è diretta l`attività dell`impresa. L’ammontare della plusvalenza o della minusvalenza sarà costituito dalla differenza tra il corrispettivo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione (spese notarili, etc.), e il costo non ammortizzato. Nel caso in cui il corrispettivo, al netto dei richiamati oneri di diretta imputazione, sia maggiore del costo non ammortizzato, si avrà una plusvalenza; nel caso contrario, una minusvalenza. Il costo, su cui vanno conteggiate le quote di ammortamento, deve essere comprensivo degli oneri accessori di diretta imputazione (nella fattispecie, ad esempio, le spese di trascrizione presso l’Ufficio italiano marchi e brevetti), esclusi gli interessi passivi e le spese generali. Per i soggetti che redigono in base ai principi contabili internazionali, la deduzione del costo dei marchi d’impresa e dell’avviamento è ammessa alle stesse condizioni e con gli stessi limiti annuali di cui all`art. 103 del Tuir, a prescindere dall’imputazione al conto economico. Ai fini dell’imposizione diretta, le royalties percepite per la concessione in licenza del marchio saranno considerate ricavi per il percipiente.

La legge di Stabilità 2015 ha introdotto un regime opzionale di tassazione agevolata (cd. Patent box) per i redditi derivanti dall’utilizzazione o dalla concessione in uso di alcune tipologie di beni immateriali, tra cui i marchi, successivamente esclusi dal D.L. cn.c 50/2017, di cui verrà data contezza nei successivi paragrafi.

3.Il valore del marchio e l’eventuale tassazione della relativa plusvalenza (Cass. n. 23498/2016)

La Suprema Corte, con la pronuncia n. 23498 del 18.11.2016, ha chiarito un aspetto particolarmente rilevante della vita aziendale, in tema di valore del marchio ed eventuale tassazione della relativa plusvalenza.

  • Il caso

Il caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione ha per oggetto la questione di due contribuenti che avevano ceduto, nel 1998, ad una società estera rispettivamente il 98% ed il 2% del capitale sociale di una società proprietaria di noti marchi di moda, per il valore nominale delle quote cedute, pari a 99 milioni di lire.

Nel corso della successiva attività di accertamento, svoltasi nel 2004, i verificatori avevano rinvenuto  numerosi documenti concernenti la stima dei marchi, tra i quali uno studio che ne valutava il valore patrimoniale in 49 miliardi di lire ed il valore d’uso, ragguagliato a quello delle royalties da essi ritraibili per un periodo di quindici anni, in 247 milioni di lire, nonché cinque perizie, redatte tra il 2001 ed il 2003, che stimavano il valore dei marchi tra un minimo di 115 ed un massimo di 215 milioni di euro.

L’Agenzia delle Entrate ne aveva, quindi, desunto che il corrispettivo della cessione delle quote fosse diverso e ben più alto rispetto a quello dichiarato e ne aveva fatto seguire due avvisi di accertamento, con i quali aveva ripreso a tassazione, nei confronti dei due alienanti e ai fini delle imposte dirette, la plusvalenza derivante dalla cessione.

I contribuenti impugnavano gli avvisi, ottenendone l’annullamento dalla Commissione Tributaria Provinciale.

La Commissione Tributaria Regionale respingeva poi l’appello dell’ufficio, rimarcando l’insufficienza degli elementi addotti dall’Agenzia a sostegno della pretesa.

Infatti, il giudice di seconde cure evidenziava che l’ufficio aveva, a suo avviso, semplicisticamente identificato il valore dei marchi con quello della società, trascurando che le stime considerate, peraltro ampiamente successive rispetto alle cessioni e redatte in prospettiva di successive cessioni stesse, riguardavano i marchi dell’intero gruppo, dei quali, inoltre, la società – le cui quote erano state cedute – era titolare per la sola nuda proprietà.

I dati emersi, dunque, secondo la Commissione Regionale, non consentivano di ricostruire in via presuntiva che fosse stato pagato un corrispettivo diverso da quello dichiarato; nè, aggiungeva il giudice d’appello, era possibile sostenere un’inversione dell’onere della prova a carico dei contribuenti, in applicazione del divieto dell’abuso del diritto.

Avverso questa sentenza proponeva infine ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, sostenendo, tra le altre, che il comportamento palesemente e gravemente antieconomico delle parti, che avevano alienato le quote per un corrispettivo irrisorio, pari ad una percentuale che andava dallo 0,20 al 2% del loro valore, fosse elemento presuntivo sufficiente a far ritenere percepito un corrispettivo sensibilmente superiore.

Ciò posto, l’Agenzia non dubitava che la plusvalenza si dovesse ragguagliare al maggior valore acquistato dalle quote rispetto al loro preesistente valore giuridicamente rilevante, ovvero alla differenza positiva tra il costo o il valore della quota al momento in cui questa, per acquisto in qualsiasi forma, era entrata a far parte del patrimonio del soggetto ed il valore corrispondente al ricavo realizzato al momento in cui essa era uscita dal patrimonio.

A questo punto, occorre richiamare, infatti, l’art. 82, comma 5, del D.P.R. n. 917/86, nel testo applicabile all’epoca dei fatti, il quale stabiliva che la plusvalenza, realizzata mediante cessione di partecipazioni al capitale di società, consiste nella “differenza tra il corrispettivo percepito ovvero la somma od il valore normale dei beni rimborsati ed il costo od il valore di acquisto, aumentato di ogni onere inerente alla loro produzione, compresa l’imposta di successione e donazione, con esclusione degli interessi passivi”.

Secondo l’Agenzia, però, il corrispettivo ricevuto per le cessioni andava ragguagliato non già al valore nominale delle quote, che emergeva dai contratti di cessione, bensì al valore di mercato di esse, che andava ricostruito in base alle valutazioni di stima.

  • La motivazione della sentenza

Secondo la Suprema Corte, la statuizione della sentenza impugnata, secondo la quale “la valutazione dei marchi del Gruppo … è cosa diversa dal valore delle partecipazioni al capitale della s.r.l. …., oggetto della cessione (e fonte della possibile plusvalenza)” era in effetti inesatta.

I marchi, infatti, essendo appostati sub 4) delle immobilizzazioni immateriali nell’attivo, a norma dell’art. 2424 c.c., concorrono alla definizione dello stato patrimoniale della società; e lo stato patrimoniale della società ne identifica il valore, ragguagliato al suo patrimonio netto, che consiste nella differenza tra l’attivo ed il passivo dello stato patrimoniale; e le quote sociali esprimono in percentuale tale valore.

Ma questa inesattezza, evidenzia inoltre la giurisprudenza di legittimità, non giovava comunque alle ragioni della ricorrente, in quanto, censurando tale statuizione, nonché quella secondo cui “non è consentito all’A.F. “sostituire” il corrispettivo dichiarato in atto con una diversa cifra corrispondente al valore della partecipazione ceduta”, l’ufficio finiva con l’evocare, come parametro di riferimento, la nozione di valore normale richiamata dall’art. 9, c. 4, lett. b, del D.P.R. n. 917/86, che impone di assegnare alla quota di società non azionaria, ai fini del suo computo tra i redditi o le perdite, il valore proporzionato a quello del patrimonio netto della società.

A tal proposito, la stessa Suprema Corte ha già chiarito che una cosa è il criterio stabilito per la determinazione del valore da attribuire alle partecipazioni sociali ai fini del loro concorso (in positivo o in negativo) alla composizione (e, quindi, alla determinazione) del reddito complessivo del loro possessore e, altra cosa, è sottoporre a tassazione, quale reddito a sé stante, la diversa ricchezza manifestatasi con il trasferimento della titolarità (e di conseguenza anche del possesso) di quelle azioni o titoli (vedi, in particolare, Cass. N. 3290/12).

Ciò posto,  ha evidenziato la Corte, non esclude che l’accertamento del suddetto valore normale possa essere concretamente valorizzato dal giudice di merito per sorreggere la presunzione (semplice) che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato e, invece, conforme al valore normale; ma si tratta di valutazioni che rientrano nei poteri di accertamento del fatto del giudice di merito, al quale solo compete l’apprezzamento (non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione) circa il ricorso alla prova presuntiva, la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto (cfr Cass. nn. 11906/03, 15737/03, 10847/07, 8023/09; ord. 101/15).

Pertanto, secondo il Supremo Consesso, risultava inammissibile il motivo di ricorso avanzato dall’Amministrazione, dato che a tale apprezzamento il giudice di merito aveva già provveduto, escludendo che la presunzione addotta dall’ufficio fosse connotata da gravità, precisione e concordanza.

L’apprezzamento compiuto dal giudice di merito, peraltro, si fondava proprio sulla mancanza di prova sia del valore di mercato delle quote come ricostruito dall’Agenzia, e sia dell’enorme divario tra esso ed il loro valore nominale.

Con altro motivo di impugnazione, tuttavia, la medesima Amministrazione Finanziaria evidenziava l’esistenza di indizi presuntivi dell’avvenuto incasso, da parte delle contribuenti, di un corrispettivo della cessione delle quote ben superiore a quello dichiarato, facendo anche leva sul fatto che, come risultava dalle perizie di stima, compresa quella depositata dalle stesse contribuenti, la società era dedita esclusivamente alla gestione di marchi, di modo che la valutazione del valore dei marchi finiva col coincidere con quello della società.

La motivazione espressa sul punto, secondo l’Agenzia, era dunque insufficiente, avendo il giudice d’appello anche omesso di considerare che, quanto al valore dei marchi, la stima valorizzata dall’ufficio risaliva ad appena quattro mesi dopo le cessioni, e che nella determinazione del valore rientrava anche la stima della redditività futura, e che, infine, finanche rispetto alla perizia di parte, il corrispettivo dichiarato risultava essere pari ad appena il 2% di quello di mercato.

Tali circostanze di fatto, secondo la Suprema Corte, erano dunque potenzialmente idonee ad orientare una diversa decisione del giudice di merito, dando conto di una differenza abnorme tra valore nominale e valore reale delle quote cedute, capace di connotare come irragionevole la condotta delle contribuenti e di fondare quindi una diversa valutazione del compendio indiziario in atti.

4. Patent box: la normativa di riferimento e l’esclusione dei marchi dal 2017 (art. 56, D.L. n. 50/2017)

4.1.  Aspetti generali

La disciplina normativa è stata introdotta nel nostro ordinamento con la L. n. 190/2014 (Legge di Stabilità 2015).

È un regime di tassazione agevolata sui redditi prodotti grazie all’uso di determinati beni immateriali, tra cui l’utilizzo di opere dell’ingegno, di brevetti industriali, marchi d’impresa (fino al 2016), di disegni e modelli, nonché di processi, formule e informazioni relativi a esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili (art. 1, co. da 37 a 45, L. n. 190/2014).

Il Legislatore, con l’introduzione di questo beneficio, ha voluto favorire le attività di ricerca e sviluppo con una detassazione pari al 30% nel 2015, al 40% nel 2016 ed al 50% a partire dal 2017.

Predetta norma ha demandato le disposizioni attuative del regime ad un Decreto del Ministero dello Sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

La disciplina è, per tale motivo, diventata operativa con l’approvazione del Decreto Mise 30.7.2015, in base al quale l’opzione per il regime patent box è valida per 5 periodi d’imposta, è irrevocabile e rinnovabile.

Deve inoltre essere comunicata all’Agenzia delle Entrate, limitatamente ai primi due periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31.12.2014, mentre, a partire dal terzo periodo, viene espressa nella dichiarazione dei redditi e decorre dal periodo d’imposta cui si riferisce la stessa dichiarazione.

Il regime premiale trova il suo fondamento nel nexus approach elaborato in sede Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e descritto nel Final Report dell’Action 5 del progetto Beps (Base erosion and profit shifting), intitolato «Countering harmful tax practices more effectively taking into account transparency and substance».

Precisamente, l’Action 5 del progetto Beps si è focalizzata sui regimi preferenziali di tassazione delle proprietà intellettuali (Ip regimes), con il principale obiettivo di tracciare regole condivise per uniformarne le strutture e, in tal modo, contrastare la concorrenza fiscale dannosa.

Il Legislatore nazionale, con l’introduzione di tale regime, ha voluto tutelare la base imponibile nazionale con l’obiettivo di incentivare:

  • la collocazione in Italia dei beni immateriali attualmente detenuti all’estero da imprese italiane o estere;
  • il mantenimento dei beni immateriali in Italia, evitandone la ricollocazione all’estero;
  • l’investimento in attività di ricerca e sviluppo.

La normativa italiana, in conformità a quanto stabilito dall’Ocse, prevede che la quota parte di reddito dell’intangibile derivante dal prodotto fra il reddito del singolo Ip ed il coefficiente nexus non concorre a formare il reddito di impresa nella misura, a regime, del 50%.

Di conseguenza, il Legislatore interno, in linea con quanto accaduto in ambito internazionale, ha introdotto anche nel nostro ordinamento un regime di patent box.

4.2.  Ambito soggettivo

Possono godere dell’agevolazione fiscale del patent box:

  • tutti i titolari di reddito d’impresa senza alcuna specificazione o limitazione, indipendentemente dalla natura giuridica o dalla dimensione degli stessi e, pertanto, sia le persone fisiche che esercitano imprese commerciali sia le società di persone (tranne le società semplici);
  • le società/enti di ogni tipo (compresi i trust, con o senza personalità giuridica) non residenti in Italia, purché siano residenti in Paesi con i quali sia in vigore un accordo per evitare la doppia imposizione e ci sia uno scambio di informazioni effettivo. In base all’art. 3 del Decreto 30.7.2015, l’accesso al regime è precluso ai soli soggetti assoggettati alle procedure fallimentari (procedure di fallimento, liquidazione coatta, amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi) ed a quei soggetti che determinano il reddito con metodologie diverse da quella analitica (nuovo regime forfetario, tonnagetax).

4.3.  Ambito oggettivo

Sono oggetto dell’agevolazione i redditi derivanti dall’utilizzo di:

  • software coperto da copyright;
  • disegni e modelli giuridicamente tutelati;
  • processi/formule/informazioni relativi a esperienze acquisite in campo industriale, commerciale scientifico giuridicamente tutelabili;
  • brevetti industriali siano essi concessi o in corso di concessione, ivi inclusi i brevetti per invenzione (comprese le invenzioni biotecnologiche e relativi certificati complementari di protezione), i brevetti per modello di utilità, nonché i brevetti e certificati per varietà vegetali e le topografie di prodotti a semiconduttori;
  • marchi d’impresa inclusi i marchi collettivi, siano essi registrati o in corso di registrazione sino al 2016.

È possibile godere dell’agevolazione prevista dal patent box, sia quando avviene l’uso diretto dei beni immateriali agevolabili, sia nei casi di concessione in uso del diritto di utilizzo dei beni immateriali agevolabili, purché il soggetto che esercita l’opzione goda del diritto allo sfruttamento economico delle immobilizzazioni immateriali.

Ai fini della quantificazione del beneficio è necessario, in primo luogo, determinare la quota di reddito derivante dall’utilizzo dell’immobilizzazione immateriale agevolata.

In caso di utilizzo indiretto (concessione in uso del diritto di utilizzo a terzi), saranno oggetto di detassazione i canoni percepiti, al netto dei costi diretti ed indiretti fiscalmente rilevanti.

Nelle circostanze di utilizzo diretto, sarà invece necessario quantificare il contributo economico del bene alla formazione del reddito complessivo.

Tale determinazione dovrà essere oggetto di un accordo preventivo, effettuato in contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate.

Tale procedura, avente natura obbligatoria, dovrà riguardare la preventiva statuizione, sia dell’ammontare dei componenti positivi di reddito impliciti, che dei relativi criteri di individuazione dei componenti negativi.

L’attivazione della procedura per la stipula dell’accordo preventivo rimane opzionale nei casi in cui:

  • il reddito agevolabile derivi da operazioni con società che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate, o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa;
  • le plusvalenze derivino da operazioni con società che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate, o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa.

In virtù della disciplina del patent box, potranno usufruire della totale esenzione di imponibilità le plusvalenze derivanti dalla cessione di beni agevolabili.

In tale ipotesi, le condizioni necessarie da rispettare per esercitare l’opzione sono che il 90% del corrispettivo di vendita sia reinvestito nella manutenzione o nello sviluppo di altri beni immateriali agevolabili e che l’investimento anzidetto si verifichi entro la chiusura del secondo periodo di imposta successivo a quello nel quale è avvenuta la cessione.

L’Amministrazione finanziaria, con la Circolare n. 11/2016, ha indicato tutti i passaggi da effettuare per il calcolo dell’agevolazione:

  • calcolare il reddito agevolabile che deriva dall’uso del bene immateriale;
  • calcolare il nexus ratio, ossia il rapporto tra i costi qualificati ed i costi complessivi;
  • calcolare la quota del reddito agevolabile, attraverso il prodotto tra reddito agevolabile e nexus ratio.

Ai fini della determinazione del reddito attribuibile ai beni immateriali nell’ambito del regime del patent box, la Circolare, al paragrafo 7.2 e segg., indica i metodi da preferire, in ossequio a quanto previsto dal Capitolo VI delle Linee Guida Ocse.

I titolari del reddito di impresa, per poter accedere al regime premiale, devono esercitare un’opzione da comunicare all’Agenzia delle Entrate con modalità telematiche.

Per i primi due periodi d’imposta di applicazione della norma (2015 e 2016), è necessario utilizzare il modello semplificato approvato dall’Agenzia delle Entrate con il Provvedimento 10.11.2015.

A decorrere dal 2017, il contribuente che vuole aderire deve, invece, esprimere la volontà di adesione con la dichiarazione dei redditi presentata nel periodo d’imposta, a decorrere dal quale si intende esercitata l’opzione.

Le modalità di presentazione dell’istanza e dello svolgimento della procedura di ruling sono state definite con il Provvedimento 1.12.2015 e chiarite con la C.M. 7.4.2016, 11/E.

4.4.  Novità introdotte dall’art. 56 del D.L. n. 50/2017

Il regime fiscale del patent box è stato oggetto di recenti di modifiche, apportate dal D.L. 24.4.2017, n. 50, che ha provveduto a ridisegnarne la normativa.

La novità di maggiore rilevanza introdotta dall’art. 56 del D.L. 24.4.2017, n. 50, è stata il restringimento dell’ambito oggettivo del patent box, avvenuta con l’esclusione dei redditi prodotti dall’uso dei marchi d’impresa.

Il governo, pertanto, escludendo i marchi d’impresa dal novero delle agevolazioni fiscali del Patent box, di fatto   ha escluso le squadre di calcio dall’elenco delle società che possono sfruttare la tassazione agevolata; precisamente, dal 2017, non possono essere scontati i redditi generati dallo sfruttamento dei marchi di impresa.

Predetta novità non consente a molti club calcistici di tagliare il budget da destinare a Ires e Irap, grazie alla commercializzazione worldwide del proprio marchio.

Analizziamo in dettaglio cosa accade al nuovo regime normativo della Patent box.

Dal punto di vista del profilo oggettivo, con decorrenza dal periodo d’imposta 2017, potranno essere detassati, nella misura del 50%, solo i redditi derivanti dall’utilizzo di:

  • software protetto da copyright;
  • brevetti industriali;
  • disegni e modelli;
  • processi, formule ed informazioni, relativi a esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico.

Invece, la fuoriuscita dei marchi dal regime del patent box, entrata in vigore dal periodo d’imposta 2017, ha fatto restare salve e valide per tutto il quinquennio (ed in ogni caso non oltre il 30.6.2021), tutte le opzioni esercitate entro il periodo 2016; tuttavia, in tal caso, al termine del primo quinquennio, l’opzione non potrà essere rinnovata.

Inoltre, l’art. 56 del D.L. n. 50/2017, ha apportato al regime del patent box un’ulteriore novità, concernente la detassazione dei redditi prodotti dall’utilizzo congiunto di immobilizzazioni immateriali.

In tal caso, saranno detassati, nella misura del 50%, i redditi prodotti da immobilizzazioni immateriali (rientranti nella categoria dei beni agevolabili), appartenenti a singole tipologie di beni, collegati tra loro dal vincolo di complementarietà e che, utilizzati congiuntamente, realizzano:

  • un prodotto o una famiglia di prodotti;
  • un processo o un gruppo di processi.

Diversamente dalle disposizioni della normativa previgente, dove il gruppo di beni doveva essere di proprietà dello stesso soggetto, e quindi veniva considerato quale unico bene immateriale, con le recenti modifiche è venuta meno la disposizione che il gruppo di beni debba necessariamente appartenere al medesimo soggetto e, di conseguenza, la fattispecie che tale gruppo di beni sia da considerarsi quale unica entità.

Le modifiche summenzionate, apportate alla disciplina del patent box, sono entrate in vigore a partire dal periodo d’imposta 2017; quindi, sono valide per tutte le adesioni al regime che avverranno dal 2017 in poi.

Pertanto, alle opzioni esercitate sino al 31.12.2016, cioè a quelle relative ai periodi d’imposta 2015 e 2016, si applicheranno le disposizioni previgenti alla nuova disciplina.

Le recenti modifiche dell’art. 56 del D.L. n. 50/2017 saranno, pertanto, operative per le opzioni di adesione al regime, che saranno effettuate dal 2017 e, più precisamente, per i soggetti:

  • con periodo coincidente con l’anno solare, per le opzioni esercitate dopo il 31.12.2016;
  • con periodo non coincidente con l’anno solare, a decorrere dal terzo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31.12.2014, relativamente al quale le opzioni sono esercitate al 31.12.2016.

Sul punto, occorre mettere in rilievo il fatto che l’esclusione dei marchi d’impresa dall’agevolazione del Patent box è volta ad allineare la disciplina di tale regime fiscale alle linee guida dell’OCSE e, in particolare, alle raccomandazioni contenute nel documento “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance”. Tale documento costituisce l’azione 5 del Beps (Base Erosion and profit shiftingAction Plan 2015 dell’OCSE.

5.Raccomandazioni OCSE del 2015

A seguito della modifica attuata dall’art.56 del D.L. n. 50/2017, sulla base delle raccomandazioni OCSE del 2015, appare opportuno dare definizione alle loro linee guida.

Con il termine Beps si intendono le pratiche fiscali dannose con cui viene sottratto reddito imponibile allo Stato di produzione o Stato fonte in favore di altri Stati che prevedono regimi fiscali più favorevoli. Tali pratiche fiscali elusive sottraggono ingenti risorse alle economie nazionali che potrebbero essere utilizzate per il bene comune: politiche di welfare, piani di consolidamento post-crisi, ecc. Pratiche fiscali di questo tipo incidono negativamente anche sulla fiducia da parte dei cittadini nei sistemi fiscali, contribuendo ad erodere il c.d. capitale civico.

Per tali ragioni, durante il summit del G20 del 19 giugno 2012, tenutosi in Messico, è stato affrontato il problema e, successivamente, durante il summit del G20 del 5-6 novembre 2012 è stato dato mandato all’OCSE di approfondire il tema.

L’OCSE ha poi presentato, durante la riunione del G20 del 19-20 luglio 2013 tenutasi a Mosca, un primo rapporto, l’Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting, in cui ha individuato un piano d’azione articolato su quindici misure, finalizzato ad affrontare il problema sul piano internazionale.

Il 16 novembre 2014 l’OCSE ha presentato un pacchetto di rapporti e, infine, il 5 ottobre 2015 sono stati pubblicati i risultati finali dell’intero progetto, i c.d. final reports.

I final reports rappresentano un pacchetto di misure di contrasto ai Beps che prevedono standard minimi in materia di scambio d’informazioni tra Paesi, di abuso dei trattati, di limitazione delle pratiche fiscali dannose, di scambio automatico di informazioni in sede di accordi fiscali tra multinazionali e Paesi (c.d. ruling) e di accordi tra le amministrazioni fiscali, per evitare che le azioni di contrasto alla doppia non imposizione si traducano in una doppia imposizione.

Il pacchetto di misure comprende in tutto 15 azioni. In questa sede, ci interessa la su richiamata azione 5 “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Takinginto Account Transparency and Substance”, che, con la finalità di contrastare le pratiche fiscali dannose, ha l’obiettivo di potenziare il suddetto requisito dell’attività sostanziale tramite il quale definire se un regime fiscale è dannoso e quindi facilita pratiche di erosione di basi imponibili.

Con riferimento ai regimi fiscali agevolati aventi ad oggetto beni intangibili, l’azione 5 analizza 16 regimi fiscali riferiti a tali beni, evidenziando come tutti siano non coerenti, in tutto o in parte, con il suddetto nexus approach. Nel documento relativo all’azione 5, si evidenzia anche come tale incoerenza diffusa sia riconducibile al fatto che la metodologia del nexus approach è stata elaborata nell’ambito del progetto Beps in via successiva rispetto all’introduzione di tali regimi fiscali agevolati.

Nel documento viene anche esplicitamente indicato che i marchi d’impresa devono essere tenuti fuori da regimi fiscali agevolati aventi ad oggetto beni immateriali, dato che tali beni intangibili si potrebbero prestare maggiormente a pratiche elusive di delocalizzazione dei redditi ad essi riferiti dai Paesi dove sono stati generati verso altri Paesi con fiscalità agevolata.

Per tale motivo, in Italia, il legislatore è di recente intervenuto con il DL n. 50/2017 citato, con cui i marchi d’impresa sono stati eliminati dal campo di applicazione della normativa del Patent box.

 A tal proposito, si mette in luce che nel report dell’OCSE “Harmful Tax practices – 2017 Progress Report on PreferentialRegimes”, pubblicato il 16 ottobre 2017, il Patent box italiano non è più classificato come dannoso, fatta eccezione per il periodo compreso tra il 30 giugno e il 31 dicembre 2016, durante il quale erano ammesse all’agevolazione fiscale anche le domande di opzione relative ai marchi d’impresa.

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a cura  Avv. Maurizio Villani e Avv. Lucia Morciano

Avv. Villani Maurizio

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