I confini giuridici dell’annullamento dell’atto amministrativo: brevi note sull’interpretazione dell’articolo 21-octies comma 2-3 Legge 241/90.

Scarica PDF Stampa
  • Introduzione
  • La patologia dell’atto amministrativo: incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge 
  • La legge 241/90: nascita degli interessi procedimentali; aumentano le garanzie per il privato verso la P.A. 
  • Il giudizio amministrativo: tutela esaustiva per il privato? 
  • L’articolo 21-octies legge 241/90: dove è andato l’annullamento dell’atto illegittimo? 
  • Profili comunitari 
  • Conclusioni: spunti di riflessione 
  • Riferimenti bibliografici 
  • Riferimenti giurisprudenziali  
          Introduzione
 
È evidente che gli operatori del diritto sono in attesa di chiarimenti giurisprudenziali sulla portata innovativa che l’introduzione dell’articolo 21-octies comma 2-3 l. 241/90 ha designato nel panorama giuridico del diritto amministrativo, più nello specifico, nel valore applicativo del giudizio di annullamento degli atti amministrativi. È indubbio che l’aver previsto una possibilità di non annullamento di un provvedimento da parte del Giudice amministrativo, seppur affetto da vizi procedimentali, quando si dimostra che lo stesso provvedimento non poteva avere un contenuto diverso, impone ai giuristi qualche riflessione sulla natura e sulla finalità di tale innovazione.
Basti pensare che i vizi del procedimento amministrativo rappresentano la “base giuridica” del cittadino per tutelarsi, attraverso il ricorso amministrativo o quello giurisdizionale, da illegittimità nell’esercizio del potere da parte della P.A e che, quindi, una loro “dequotazione” nel giudizio di annullamento potrebbe evidenziare un campanello di allarme per gli amministrati. Preliminarmente, non è inutile compiere una breve disamina sui caratteri del giudizio di annullamento amministrativo.
 
 
La patologia dell’atto amministrativo: incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge
 
Chiunque sostenga l’esame di diritto amministrativo, tra le prime nozioni che impara, vi sono quelle relative ai vizi dell’atto amministrativo, all’accertamento di tali vizi e, infine, alle conseguenze giuridiche che si originano da tali difetti. L’articolo 3 comma 1 l. n. 1034/1971 dispone che “sono devoluti alla competenza dei tribunali amministrativi regionali i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro atti e provvedimenti emessi dagli organi centrali dello stato o degli enti pubblici a carattere ultraregionale”. Questa disposizione, che non ha mai subito modifiche, segna, chiaramente, il confine della sindacabilità degli atti amministrativi, introducendo delle ipotesi tassative, per le quali l’atto non svolge correttamente le sue funzioni e, di conseguenza, previo ricorso dell’interessato, potrà essere annullato. Sul contenuto di tali vizi la dottrina e la giurisprudenza hanno molto dibattuto, poiché il testo normativo non indica nessun criterio di sostanziazione dei suddetti difetti, in particolar modo, ci si è soffermati sull’eccesso di potere e sulla violazione di legge. Sul primo, infatti, si opina su quando un atto amministrativo eccede i limiti della propria finalità giuridica; sul secondo, invece, si discute sul campo di applicazione, essendo il riferimento alla legge vasto e generico.
Seguendo l’ordine del dettato normativo si può definire un atto affetto da vizio d’incompetenza, quando l’organo che lo emana non ha il “potere” di farlo. Vi possono essere due sfumature diverse di quest’assenza di attribuzione che danno origine a due nozioni differenti del vizio: incompetenza assoluta, incompetenza relativa. La prima si verifica quando la legge non attribuisce all’organo che ha emanato l’atto il potere di compierlo, ed in generale, quell’atto non può essere compiuto da nessun «plesso della pubblica amministrazione»[1], ma da un altro potere dello stato. Ad esempio la sentenza emessa da un prefetto è un atto affetto da incompetenza assoluta! Taluni ritengono che questa forma d’incompetenza sia talmente grave che l’atto che ne sia affetto, non possa considerarsi come atto amministrativo (vizio-inesistenza).
L’incompetenza relativa si evidenzia, invece, quando l’organo della P.A ha emanato un atto, la cui competenza è attribuita dalla legge ad un altro organo della stessa P.A. Ad esempio, una delibera emanata dal responsabile delle risorse umane di una A.S.L. avente ad oggetto l’organizzazione dei reparti ospedalieri, sarà afflitta da vizio d’incompetenza relativa, poiché, infatti, le leggi sanitarie affidano l’organizzazione dei reparti al direttore sanitario della stessa A.S.L., che rappresenta un organo diverso rispetto al responsabile risorse umane, ma appartenente allo stesso “plesso”, cioè a dire l’Azienda sanitaria locale.
L’eccesso di potere si manifesta, invece, quando vi è un cattivo uso del potere; esso incide sull’agere amministrativo, sulla scelta della P.A., sul potere discrezionale. È di difficile sistemazione dogmatica, poiché l’atto affetto da tale vizio non viola alcuna norma attributiva del potere, ma risulta non conformarsi alle finalità concrete dell’interesse pubblico specifico per cui è emanato. Tipico esempio d’eccesso di potere è lo sviamento; esso si configura quando l’atto è contrario al principio di logicità-congruità, tenuto conto del fine istituzionale per cui l’atto dev’essere emanato, e il caso concreto che corrisponde all’interesse del privato cittadino destinatario dell’atto. La difficoltà nel riempire di un significato specifico tale vizio, risiede nel fatto che si corre il rischio di sindacare l’ambito del “merito amministrativo”, delle scelte d’opportunità della P.A., settori questi, che tradizionalmente sono di esclusiva competenza della pubblica amministrazione. Data, quindi, questa difficoltà, la dottrina ha riconosciuto degli indici sintomatici, alla presenza dei quali l’atto si può configurare come viziato. Tra i più importanti indici ricordiamo: la violazione ingiustificata di prassi amministrative, la manifesta ingiustizia (sproporzione tra sanzione amministrativa ed illecito). Disparità di trattamento tra situazioni simili, travisamento dei fatti emergenti dall’istruttoria (si assume a presupposto dell’atto una situazione che non sussiste nella realtà)[2].
L’ultimo vizio previsto dall’articolo 3 l. Tar è la violazione di legge. Esso si evidenzia ogniqualvolta l’atto viola una legge in senso formale (norme comunitarie, Costituzione, legge ordinaria, decreti legge…). La norma violata, però, non dev’essere quella che dispone la competenza, altrimenti s’ incorrerà nel vizio dell’incompetenza, pertanto il vizio della violazione di legge ha natura residuale. Dal punto di vista contenutistico la violazione di legge abbraccia numerose situazioni: violazioni sulle norme che disciplinano il procedimento, quelle sulla volontà, quelle sulla forma dell’atto. Tra queste norme assume una notevole importanza, ai fini di questa breve disamina, quella disciplinante il procedimento amministrativo (l. 241/90), poiché essa aumenta le garanzie di tutela dei consociati verso la pubblica amministrazione attraverso il riconoscimento di una serie di situazioni soggettive definite interessi procedimentali, le quali, se lese dalla P.A., aumentano la gamma delle patologie a cui un atto amministrativo può essere soggetto e per le quali il privato può chiederne l’annullamento.
 
 
La legge 241/90: nascita degli interessi procedimentali; aumentano le garanzie per il privato verso la P.A.
 
Questa legge nasce dallo studio di una commissione di quindici professori di diritto pubblico-amministrativo, la commissione Nigro. La finalità della commissione era quella di prevedere un testo legislativo che, finalmente, disciplinasse il procedimento per l’emanazione degli atti amministrativi. Basti pensare, per capire l’importanza dell’opera, che il procedimento amministrativo era, fino ad allora, interamente regolato dalla giurisprudenza! Quest’assenza legislativa determinava, sotto gli aspetti della garanzia del cittadino sul comportamento della P.A., un evidente sbilanciamento a favore del soggetto pubblico, il quale poteva svolgere la sua funzione di mediazione, tra interesse pubblico e interessi dei singoli, senza alcun tipo di controllo efficace da parte del cittadino. Si veniva così a delineare un rapporto tra pubblica amministrazione e privati cittadini, degno non certamente di uno stato di diritto moderno. Se oggi si può tranquillamente dissertare su parole come “avviso del procedimento”, “partecipazione al procedimento”, “accesso agli atti”, lo si deve proprio al contenuto di tale legge. Sotto il profilo della tutela impugnatoria, si può notare, che il testo normativo ha sottoposto la P.A. ad una serie d’obblighi nei confronti del destinatario di un provvedimento, ai quali corrispondono situazioni giuridiche di vantaggio per lo stesso destinatario verso la P.A. Essi si specificano, tra l’altro, nell’interesse ad essere avvisato dalla P.A., quando inizia un procedimento per l’emanazione di un atto (art. 7 l. 241/90), nell’interesse a partecipare attivamente al procedimento attraverso il deposito di memorie o scritti, ovvero, attraverso la presa visione degli atti dello stesso procedimento (art. 10), nell’interesse a che un procedimento si concluda con un provvedimento espresso, e al non ritardo nell’emanarlo (art. 2).
È evidente che questi interessi si trasformano, se evasi o lesi dalla P.A., in vizi dell’atto amministrativo e, pertanto, il privato cittadino può adire il Giudice amministrativo per chiederne l’annullamento. Ne consegue che aumentano i casi in cui il privato può chiedere l’annullamento di un atto provvedimentale, poiché, oltre alle ipotesi limite e piuttosto peregrine del vizio d’incompetenza assoluta e relativa, si aggiungono anche quelli derivanti dalla lesione di questi interessi procedimentali. Se poi si riflette sul fatto che gli interessi procedimentali rappresentano una vera e propria lente, attraverso cui il cittadino può controllare il “farsi dell’atto” di cui è destinatario, si può meglio comprendere il valore della l. 241/90. Il legislatore, infatti, avendo codificato nella suddetta legge tali interessi, consente al privato di evidenziare ed avvalersi d’ulteriori vizi dell’atto amministrativo, aumentando, di fatto, l’esperibilità dell’azione di annullamento di fronte al G.A. Non ci si spinge oltre nell’approfondire la natura e la risarcibilità di tali interessi, poiché meritano un’autonoma trattazione; basti accennare alle opposte visioni della giurisprudenza amministrativa sull’autonomia dell’interesse procedimentale e sulla risarcibilità dello stesso, indipendentemente dal bene della vita a cui aspira il destinatario dell’atto (si vedano IV sezione del Consiglio di Stato ord.n.875/05, Adunanza Plenaria 15-09-05 n. 7)[3].
 
 
Il giudizio amministrativo: tutela esaustiva per il privato?
 
A fronte dei vizi dell’atto amministrativo il privato possiede due rimedi: o il ricorso interno all’amministrazione, chiedendo alla stessa l’annullamento dell’atto, o il ricorso al Giudice amministrativo. Tradizionalmente la tutela giurisdizionale è definita “demolitoria” e il G.A. come “giudice dell’atto”, poiché il giudice aveva una cognizione del provvedimento amministrativo limitata all’accertamento di suddetti vizi di cui all’articolo 3 comma 1 l. 1034/71, e, una volta evidenziati tali difetti, poteva solo annullare l’atto in questione, rimanendogli preclusa ogni valutazione sul fatto concreto e, soprattutto, ogni cognizione circa la risarcibilità di eventuali danni subiti dal privato. Non è difficile notare che questo meccanismo processuale conferiva al privato una tutela di “facciata”, piuttosto formale, poiché in concreto, la P.A. poteva benissimo ripetere l’atto precedente emendato dai vizi, ma con il medesimo contenuto lesivo della sfera giuridica dell’interessato. Inoltre, la struttura del processo amministrativo non consentiva il sindacato sul contenuto dell’atto amministrativo, su quello che notoriamente si definisce la spettanza del bene della vita, ritenuto essere il confine intangibile dell’agere amministrativo. La situazione muta all’indomani della storica sentenza delle SS.UU. Cassazione Civile n. 500/99, che apre una vera e propria breccia nel confine dell’agere amministrativo, attraverso la previsione della risarcibilità dell’interesse legittimo leso da un provvedimento affetto da vizi di legittimità. Si afferma che l’interesse legittimo, al pari del diritto soggettivo, è tutelato dall’ordinamento giuridico, e che si configura come l’aspirazione ad un bene della vita tramite l’intermediazione del potere amministrativo. Se tale interesse viene leso, mediante un atto illegittimo della P.A, il privato ha diritto di agire davanti al Giudice ordinario per il risarcimento del danno ex articolo 2043 codice civile. L’aspetto più interessante ed innovativo risiede, tra l’altro, nel sindacato del giudice sull’illegittimità dell’atto, poiché, infatti, il giudice ordinario la conosce incidenter tantum, come elemento oggettivo della fattispecie risarcitoria ex art. 2043 c.c.
D’altronde, però, la sua conoscenza non si limita solo all’accertamento formale dei vizi, ma si spinge fino ad una valutazione sostanziale della spettanza del bene al privato, mediante il giudizio prognostico. In pratica il G.O. valuta se, nel caso in cui la P.A. si fosse comportata correttamente, e cioè a dire avesse emanato una atto esente da vizi, il bene anelato dal privato dovesse probabilmente spettargli. È chiaro che dietro al giudizio prognostico si rivela un conflitto d’attribuzioni tra poteri diversi: giudiziario ed esecutivo-amministrativo. La spettanza del bene della vita è, infatti, una valutazione “squisitamente” riferibile alla pubblica amministrazione. Questa storica apertura della Cassazione Civile, che ha numerosi risvolti non esauribili in questa disamina, si è tradotta in una modifica del processo amministrativo ad opera della legge n. 205/2000 la quale conferisce al Giudice amministrativo strumenti processuali che gli consentono di “avvicinarsi” alla valutazione della spettanza del bene della vita a cui aspira il privato. Anzitutto l’articolo 7 comma 3 della legge 1034/71 così come modificato dalla legge 205 dispone che “il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti consequenziali”. Il legislatore, con questa modifica, riporta nell’ambito della giurisdizione di legittimità l’accertamento del danno da atto illegittimo e la successiva condanna della P.A al risarcimento dello stesso. L’immagine e la finalità legislativa è abbastanza chiara, nel senso che, se parliamo di atto amministrativo, della sua illegittimità, dell’interesse legittimo leso e, del danno che il privato cittadino ne possa ricevere, il giudice storicamente competente (si veda l’art. 3 Legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo) alla cognizione di queste problematiche, non potrà che essere il Giudice amministrativo. Tutto ciò è stato ulteriormente confermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004, che riafferma la giurisdizione del giudice amministrativo per tutti gli atti o comportamenti della P.A. espressione del “potere pubblico” verso i quali il privato ha una posizione d’interesse legittimo, restituendo “piena dignità al Giudice amministrativo”. La legge 205, inoltre, conferisce al G.A. degli strumenti processuali nuovi, che gli consentono una più adeguata visione della sostanza dell’atto, della spettanza del bene al privato. In tal modo il G.A. potrà non solo annullare l’atto viziato, ma anche eventualmente condannare la P.A. al risarcimento del danno. Il più incisivo tra tali strumenti processuali inseriti dalla l. 205 è la consulenza tecnica. Tale strumento, adoperato principalmente nel processo civile, consente al Giudice di capire e risolvere valutazioni tecniche che la P.A ha posto a fondamento del proprio atto.
Da quanto fin qui esaminato si potrebbe provare a piantare dei piccoli paletti: 1) i vizi dell’atto amministrativo rappresentano il vettore attraverso cui il privato può ricevere tutela, ponendoli a fondamento della propria azione di annullamento dell’atto; 2) con la legge 241/90 si sono aperte nuove possibilità per il privato d’impugnare l’atto amministrativo, mediante il riconoscimento degli interessi procedimentali; 3) il giudizio amministrativo, “giudizio dell’atto”, assume sempre più le sembianze di un “giudizio del fatto-rapporto”.
Ora, però, alla luce delle considerazioni prima esposte, occorre chiedersi che incidenza hanno avuto le riforme sul procedimento amministrativo, ad opera della legge 11 febbraio 2005 n. 15 e 14 maggio 2005 n.80, sulla impugnabilità degli atti amministrativi per vizi inerenti alla violazione di norme procedimentali.
 
 
 L’articolo 21-octies legge 241/90: dove è andato l’annullamento dell’atto illegittimo?
 
La legge n. 15/05 ha introdotto nella l. 241/90 il capo IV-bis intitolato “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso”, che costituisce una vera e propria codificazione dei vizi dell’atto amministrativo. All’interno del capo IV-bis s’inserisce l’articolo 21-octies nominato “annullabilità del provvedimento”; esso consta di tre commi. Apparentemente, soffermandosi soltanto sulla lettura del primo comma che recita “è annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza”, non sorge in noi alcuna meraviglia poiché sembrano codificati i notori vizi tipici dell’atto amministrativo, già richiamati dall’art. 3 l. 1034/71. Alla lettura del secondo comma, però, un piccolo sussulto giuridico potrebbe nascere; passando, infine, al terzo comma, potremmo addirittura dubitare delle classiche, sicure, familiari nozioni di diritto amministrativo! Il secondo comma dispone che “non è annullabile il provvedimento in violazione di norme sul procedimento o sulla forma giuridica degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. Immediatamente si nota il richiamo generico alle norme sul procedimento, ma, paradossalmente, non come causa di annullamento dell’atto, ma come causa di non annullamento, qualora si tratti di atto vincolato e se lo stesso non poteva avere un contenuto diverso. Il portato della norma è grande, e si ha l’impressione che il legislatore non abbia ben previsto tutte le conseguenze che ne possano scaturire, nell’ambito della tutela del privato contro gli atti illegittimi della P.A e, più in generale, sulla natura del giudizio amministrativo. La prima novità è rappresentata dal fatto che il giudice può controllare il contenuto dell’atto impugnato, spingendo l’affermarsi della tesi del passaggio dal giudizio dell’atto al giudizio sul rapporto. La seconda, ed è quella su cui si muove questa disamina, consiste nel fatto che vi è un palese restringimento dei casi di illegittimità dell’atto e conseguente annullamento dello stesso. Infatti, le norme procedimentali che dispongono “l’avviso di procedimento”, “la partecipazione allo stesso con memorie e scritti”, “la visione degli atti endoprocedimentali”, “l’obbligo di emanare un provvedimento espresso”, “il non ritardo nell’emanazione dell’atto”, sono alla base della nuova tutela del privato cittadino verso un, troppo spesso, incontrollato potere della pubblica amministrazione. Codeste norme, a partire dalla legge 241/90, hanno designato un nuovo rapporto tra soggetto amministrante e soggetto amministrato. Tale rapporto non è sicuramente identificabile in una parità giuridica, vista giustamente la differenza ontologica tra i due soggetti (P.A. e cittadino), ma che certo si allontana da un’immagine borbonica di una amministrazione che sfugge ad ogni controllo. La violazione di tali norme, ora, a rigor di significato letterale del comma secondo dell’articolo 21-octies, non rappresentano più dei vizi invalidanti l’atto amministrativo, nell’ipotesi in cui si versi in attività vincolata e il contenuto dell’atto non poteva essere diverso.
È vero che l’attività vincolata si presta a far “meno danni al privato”, o meglio, a fargliene percepire di meno, poiché manca in questo ambito (attività vincolata) ciò che il cittadino più teme della pubblica amministrazione e cioè a dire la discrezionalità. Ma è anche vero che l’attività vincolata comunque è esercizio di potere, ed in quanto tale, capace di incidere profondamente nella sfera giuridica del consociato. Un’altra considerazione è d’uopo farla: fino a quando il provvedimento amministrativo, nonostante sia violativo di norme sul procedimento, abbia assegnato al privato il bene al quale lo stesso aspirava e per il quale ha presentato l’istanza, si potrebbe anche chiudere un occhio, poiché il privato ha ottenuto il bene per cui aveva chiesto l’intervento della P.A. Ma quando il provvedimento de quo è negativo, nel senso che non attribuisce al privato il bene, ci si trova di fronte ad una situazione paradossale in cui il privato non ottiene il bene anelato ed è violato nei suoi interessi procedimentali: quid facimus?, dov’è la tutela del cittadino?
A fronte di questi doverosi interrogativi, certa dottrina[4] ha evidenziato dubbi di costituzionalità dell’art 21-octies 2 comma affermando che l’esclusione della sanzione dell’annullabilità per i vizi procedimentali potrebbe determinare un’abrogazione implicita delle norme di cui alla legge 241/90, privando totalmente il privato di ogni garanzia procedimentale. Inoltre si avrebbe un’incentivazione della Pubblica amministrazione a non rispettare le regole della sua azione, il che si tradurrebbe in una violazione del principio di legalità; implicando, inoltre, una privazione di strumenti di tutela (azioni) al cittadino avverso gli atti della pubblica amministrazione, ciò in palese contrasto con il disposto dell’articolo 113 della Costituzione.
I dubbi di costituzionalità aumentano se si analizza il terzo comma dell’art. 21-octies l. 241/90, il quale dispone che “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri che il contenuto dell’atto non poteva essere diverso da quello adottato”. Rispetto al comma precedente, qui abbiamo due fattori che rendono ancora più precaria la posizione del cittadino: l’attività discrezionale e il mancato avviso dell’avvio del procedimento. L’attività discrezionale è il connotato principale dell’agere amministrativo; essa si evidenzia in un contemperamento di tutti gli interessi che sono alla base di un provvedimento amministrativo. L’avviso dell’avvio del procedimento, invece, consente al privato di attivarsi per esercitare il diritto di contraddittorio nell’ambito del procedimento. È forse questo l’interesse procedimentale più importante, non fosse altro per il fatto che consente al destinatario dell’atto di esercitare concretamente tutti gli altri interessi, soprattutto quelli partecipativi. Ora, è indicativo che, anche nell’ambito dell’attività discrezionale, la quale è più sfuggente, per ragioni chiaramente di interesse pubblico, a essere all’interno controllata dal privato, il legislatore elimini come vizio di illegittimità il mancato avviso!. Si tenga conto che la pubblica amministrazione opera quasi esclusivamente mediante attività discrezionale e che l’unico modo per sincerarsi della sua legittimità operativa è l’avviso del procedimento, così che il privato possa partecipare alle scelte della P.A.
 
 
Profili comunitari
 
C’è da dire, però, che nonostante questa autorevole dottrina, si propende, tenuto conto anche del silenzio dei tribunali ordinari e della Corte Costituzionale, per una legittimità di fondo dell’articolo 21-octies. Infatti, se volgiamo lo sguardo agli ordinamenti europei, ci accorgiamo che, in paesi come l’Inghilterra, la Francia, la Germania, esiste il concetto “dello scopo dell’atto amministrativo” che si può ben sintetizzare con queste parole “nonostante la presenza di un vizio formale o procedimentale, se l’atto ha raggiunto lo scopo prefissato dalla norma, è  perfettamente valido ed efficace[5].
È interessante la posizione assunta dall’Unione Europea sulla legittimità-validità degli atti delle proprie istituzioni, nonostante presentino dei vizi formali.
L’ordinamento comunitario, infatti, prevede all’articolo 230 secondo comma Trattato UE, che “gli atti delle istituzioni comunitarie davanti alla Corte di Giustizia Europea per i soli vizi di: incompetenza, violazione di forme sostanziali, violazione del Trattato, sviamento di potere”. Troviamo, quindi, una distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali. Per questi ultimi, tra i quali si annovera il difetto di contraddittorio, non è possibile ricorrere alla sanatoria dell’atto, benché lo stesso raggiunga lo scopo prefissato. Ora l’Unione Europea sembra fare un distinguo tra i vizi-formali dell’atto che possono essere sanati, poiché lo scopo è raggiunto, e vizi-sostanziali che, nonostante il raggiungimento dello scopo, non possono essere sanati, dando luogo all’ annullamento dell’atto in questione. Ed è evidente che questi vizi sostanziali sono collegati a posizioni giuridiche del cittadino che non possono essere lese, quali, ad esempio, il contraddittorio. Ma il legislatore italiano sembra non essersi adeguato affatto al dettato normativo del T.U.E. tenuto conto del disposto del terzo comma dell’art.21-octies l. 241/90, prevedendo, appunto, la validità di un atto discrezionale, nonostante non si sia dato avviso al privato del relativo procedimento, e che, quindi, si sia leso il suo diritto al contraddittorio.
Vista, dunque, la diversità di regolamentazione dei vizi dell’atto amministrativo del Legislatore Comunitario rispetto a quello Italiano, rimangano aperte ed insolute le questioni di legittimità-opportunità costituzionale dell’articolo 21-octies secondo e terzo comma.
 
 
Conclusioni: spunti di riflessione
 
L’articolo 21-octies legge 241/90 non può lasciare indifferenti sia gli operatori del diritto, sia i cittadini amministrati. È chiara la finalità che il Legislatore ha voluto conseguire con questa disposizione: creare una amministrazione capace sempre e comunque di raggiungere i propri obiettivi predisposti dalla normativa ordinaria e che si possono riassumere nel concetto di “interesse pubblico specifico”. La diminuzione palese dei vizi dell’atto, rilevanti ai fini dell’esperimento della tutela impugnatoria da parte del privato, determina minori “fastidi giurisdizionali” alla stessa P.A., minori ostacoli alla sua azione, potendo essa comunque dimostrare l’infungibilità dell’atto viziato ai fini del perseguimento dell’interesse pubblico. Il punto, però, che ancora non è chiaro si riassume in questa semplice domanda: a che prezzo tutto ciò?
Se da una parte si può condividere l’idea di una amministrazione che abbia strumenti più duttili ed elastici, che le consentano di meglio amministrare concretamente i cittadini, attraverso il concetto squisitamente imprenditoriale del raggiungimento dello scopo, dall’altra si assiste, paradossalmente, ad un allontanamento del privato dall’amministrazione stessa. Ciò è dato dal fatto che le norme procedimentali, che avevano assicurato, a partire dagli anni novanta, un avvicinamento costruttivo e non soltanto formale del cittadino alla “dinamica dell’agere pubblico”, attraverso la previsione degli interessi partecipativi, con il 21-octies, tali norme (procedimentali) vengono sminuite per cedere il passo all’obiettivo concreto da raggiungere, riproponendo quel rapporto di estrema distanza intercorrente tra la pubblica amministrazione e il cittadino.
Inoltre, sotto il profilo più specifico del danno che oggettivamente il destinatario di un atto illegittimo subisce, per la violazione di interessi procedimentali, non ci sono assolutamente uniformità di vedute. Basti ricordare che l’ordinanza n. 875/05 del Consiglio di Stato sezione IV, che si esprime sulla risarcibilità del danno da ritardo, afferma che gli interessi procedimentali vanno risarciti, indipendentemente dall’ottenimento del bene da parte del privato. Essi, infatti, hanno una piena autonomia giuridica che si fonda non solo su parametri normativi (l. 241/90), ma anche su principi di correttezza comportamentale a cui la pubblica amministrazione deve attenersi, quando interagisce con i cittadini. Di contrario avviso è l’Adunanza Plenaria n. 7/05 che afferma invece, sempre in riferimento al danno da ritardo, la non autonoma risarcibilità, poiché, intanto si può patire un ritardo in quanto ci si accerti che il bene della vita sia di spettanza al privato.
È palese che ci si trova di fronte a due opposte visioni degli interessi procedimentali, ma tali prospettive meritano di essere approfondito in altra disamina.
Vista la problematicità dei vizi procedimentali dopo la comparsa nel procedimento amministrativo dell’articolo 21-octies, ci si augura che, al più presto, la giurisprudenza Costituzionale, Ordinaria, ed Amministrativa, possano fare un po’ più di chiarezza.
 
 
 
 
 
 
Francesco Spaziante
 
 
 
 
 
 
 
                                                            Riferimenti bibliografici
 
 
J. Becker, La sanatoria dei vizi formali del procedimento amministrativo tedesco, a cura di V. Parisio, in Vizi formali, procedimento e processo amministrativo.
 
Francesco Caringella, Manuale di diritto amministrativo, edizioni Giuffrè 2006
 
Elio Casetta, Manuale di diritto amministrativo, edizioni Giuffrè 2000
 
D.U Gauletta, La legge tedesca sul procedimento amministrativo, Milano, 2002, II, p. 84
 
R. Chieppa, Il nuovo regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo, in www.giust.amm.it
 
A. Susca, L’invalidità del provvedimento amministrativo dopo le leggi n. 15/05 e n. 80/05
 
 
                                                             
                                                         Riferimenti giurisprudenziali
 
Corte Costituzionale sentenza n. 204 del 2004, in www.altalex.it
 
Consiglio di Stato Adunanza Plenaria, sentenza n. 7/05, in www.lexfor.it
 
Corte di Cassazione Civile Sezioni Unite sentenza n. 500/99, in www.altalex.it
 
Consiglio di Stato sezione IV ordinanza n. 875/05, in Giurisprudenza amministrativa del 2005 di Francesco Caringella e Roberto Garofoli, edizioni Giuffrè
 
 
 


[1] F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, ed. Giuffrè 2006, p.42
[2] Elio Casetta, Manuale di Diritto Amministrativo, ed. Giuffrè 2000, p.507
[3] Cons. di Stato sez. IV ordinanza 875/2005: << l’nteresse procedimentale leso dal ritardo della P.A. nell’emanare l’atto, riceve tutela distinta ed autonoma rispetto alla tutela accordata alla utilità finale perseguita dal cittadino che richiede l’atto, ed è ascrivibile ad un generale dovere di correttezza della P.A>>.
Cons. di Stato Ad. Plen. N. 7/2005: << il sistema di tutela degli interessi pretesivi consente il passaggio a riparazioni per equivalente , solo quando l’interesse pretensivo, assuma, in congiunzione con l’interesse pubblico, a suo oggetto la tutela d’interessi sostanziali (bene della vita)>>.
[4] R. Chieppa, Il nuovo regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo, in www.giustiziaamministrativa.it
[5] J. Becker, La sanatoria dei vizi formali del procedimento amministrativo tedesco, a cura di V. Parisio in Vizi formali, procedimento e processoamministrativo.

Spaziante Francesco

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento