I concetti di crisi e di insolvenza

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All’art.2 del CCI, la crisi, viene definita “come lo stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.

La crisi, quindi, si manifesta quando lo squilibrio economico-finanziario dell’area caratteristica del business non genera più flussi di cassa sufficienti per fronteggiare le obbligazioni pianificate. Le obbligazioni di cui parla il legislatore sono quelle del prossimo futuro e, nello specifico, quelle dei prossimi 6 mesi. Infatti, all’art.13 CCI si legge …..rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e dell’assenza di prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, nei sei mesi successivi”.

L’equilibrio economico-finanziario di cui fa cenno il legislatore è quello che deriva dalla gestione tipica/operativa del business. In altri termini, saremo in equilibrio economico-finanziario solo quando i flussi di cassa operativi ci permettono di fronteggiare le obbligazioni pianificate dei prossimi 6 mesi. L’equilibrio economico, se è di qualità, si deve necessariamente trasformare in un flusso di cassa, grazie al quale potremo fronteggiare gli impegni pianificati. In conclusione, l’equilibrio economico-finanziario, nei termini definiti dal legislatore nell’art.2, equivale ad essere solvibili nel breve termine. Una solvibilità, però, che deve derivare da flussi di cassa operativi, ovvero da flussi che derivano dalla gestione corrente e ordinaria del business (equilibrio finanziario). Potremo anche parlare di solvibilità operativa che comunque rimane concetto ben diverso da quello di solvibilità in generale che coincide con la capacità del business di generare flussi di cassa derivanti dall’area operativa, dall’area degli investimenti e dall’area finanziaria sufficienti per fronteggiare l’indebitamento a 6 mesi. Paradossalmente e in conclusione, il debitore potrebbe essere solvibile, in uno stato di crisi. L’imprenditore, potrebbe, infatti, aver assolto ai propri debiti: (i) disinvestendo un assest; (ii) ricorrendo all’indebitamento bancario; (iii) ricorrendo all’indebitamento verso i soci. In tal caso, è vero che l’imprenditore avrà adempiuto all’obbligazione corrente o pianificata, ma è anche pur vero che tale solvibilità non solo non potrà considerarsi virtuosa, in quanto non derivante dalla gestione corrente e ordinaria del business, ma soprattutto non potrà essere sostenuta nel medio lungo termine.

Che il legislatore si riferisse ai flussi di cassa prospettici derivanti dalla gestione caratteristica del business, lo si deduce dalla lettura dell’art. 2247 del codice civile, in cui si legge “Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”.    

L’esercizio di una attività economica impone in testa all’imprenditore lo svolgimento delle cosiddette quattro operazioni di gestione: (i) reperimento delle risorse finanziarie; (ii) acquisto dei fattori produttivi; (iii) trasformazione dei fattori produttivi in beni e/o servizi; (iv) vendita dei beni e/o servizi prodotti.

Il reddito di impresa, sia positivo che negativo, che otteniamo come risultato finale dall’esercizio dell’attività economica intrapresa, per quanto influenzato dalle risorse economiche e finanziarie di partenza, è determinato dalla differenza tra il valore della produzione ottenuta in un determinato arco temporale e i costi sostenuti per ottenerla. L’attività economica, quindi, è un concetto dinamico che non ha nulla a che vedere con il patrimonio aziendale. Su quest’ultima affermazione, è facile rimandare il lettore alla definizione di azienda contenuta nell’art. 2555 c.c. L’azienda è un complesso di beni e l’impresa è l’esercizio dell’attività economica. Conseguentemente, i flussi di cassa di cui parla il legislatore all’art.2 del codice, si riferiscono a quelli derivanti dall’esercizio dell’attività economica e non a quelli del patrimonio aziendale, per quanto quest’ultimi, ribadiamo, abbiamo sostenuto e sostengano l’attività economica stessa.

Questo non vuol dire che la solvibilità non possa essere sostenuta dalle risorse economiche e finanziarie di partenza o da quelle derivanti da eventi del passato, ma di certo tale ricorso, sul piano della ragionevolezza economica, non potrà considerarsi né virtuoso né sostenibile nel medio e lungo termine.

Sempre all’art.2 del codice della crisi troviamo il concetto di insolvenza che viene definito come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

L’insolvenza, quindi, è uno stato di inadempienza. Essere inadempienti significa venire meno alle obbligazioni contratte e, nello specifico, non rispettare i modi e i termini delle stesse.

“Il ritardo è il primo inadempimento dello stato di insolvenza” (Dott. Bruno Ricci).

Nel momento in cui veniamo meno alle modalità e ai termini delle nostre obbligazioni, ci troviamo in uno stato di inadempienza e quindi di insolvenza. Non importa se l’obbligazione verrà soddisfatta in un momento successivo. Potremmo immaginare anche diversi livelli inadempienza sotto il profilo della loro gravità, ma non per questo non si sarebbe comunque all’interno di uno stato di insolvenza.

Il concetto di insolvenza richiamato dal legislatore è uno stato che può manifestarsi anche davanti ad un patrimonio aziendale nel suo insieme capiente rispetto ai debiti sociali. In altri termini, lo stato di insolvenza per il legislatore del codice della crisi è uno stato di inadempienza che deriva dall’esistenza di un disequilibrio economico e finanziario dell’area caratteristica del business che mina il regolare adempimento delle obbligazioni contratte. La crisi riguarda il probabile inadempimento e quindi lo stato di insolvenza del prossimo futuro (almeno dei successivi 6 mesi), l’insolvenza, viceversa, è relativa all’inadempimento delle obbligazioni correnti.

Il concetto di insolvenza definito all’art.2 del CCI (Decreto Legislativo n.14/2019), inoltre, per quanto identico sul piano letterale a quello richiamato e definito all’art.5 della legge fallimentare del 1942, è concetto ben diverso. Lo stato di insolvenza nella previgente normativa richiedeva, per la verifica della sua esistenza, una incapacità del patrimonio aziendale, una volta disinvestito, di far fronte alle obbligazioni contratte. Nell’attuale normativa un imprenditore potrebbe essere solvibile all’interno di uno stato di insolvenza. A sostegno di quest’ultima affermazione si riportano le parole di un’altra pronuncia della Corte di Cassazione, che privilegia ed esalta esattamente l’animus della nuova normativa in punto di che cosa si debba intendere per stato di insolvenza. Come si potrà notare, la sentenza è del 2018, ovvero è stata emessa in un tempo successivo alla Legge n.155/2017, che sarebbe dovuta entrare in vigore il 15.08.2020 e che poi, causa lo stato di emergenza proclamato dal governo italiano in data 31.01.2020 (Covid-19),  è stata spostata al 1 settembre 2021 (DL 23/2020 (decreto “liquidità”), conv. L. 5 giugno 2020 n. 40). Riporto stralcio fedele della sentenza “Al riguardo va anzitutto ricordato che lo stato di insolvenza richiesto ai fini della pronunzia dichiarativa del fallimento dell’imprenditore, non è escluso dalla circostanza che l’attivo superi il passivo e che non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili. In particolare, il significato oggettivo dell’insolvenza, che è quello rilevante agli effetti della L. Fall., art. 5, deriva da una valutazione circa le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all’esercizio di attività economiche, si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonché nell’impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio” (Cassazione civile, sez. I, 06 Febbraio 2018, n. 2810). Pare evidente, quindi, che possiamo serenamente affermare che i concetti di crisi, di insolvenza e di solvibilità (operativa e generale) sono ben distinti e appartengono e si manifestano in momenti diversi nella vita aziendale.

Ripetiamo ancora una volta che la crisi riguarda l’eventuale inadempimento delle obbligazioni pianificate, ovvero quelle del prossimo futuro, mentre l’insolvenza è relativa all’inadempimento delle obbligazioni correnti causa la non reddittività della gestione tipica del business.

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Dott. Bruno Ricci

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