Glossatori della sovranità

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Il Nomos della terra 60 anni dopo – L’Europa di Carl Schmitt” è il tema al quale è dedicato il fascicolo 1-2/2011 di “Teoria del Diritto e dello Stato”- Rivista europea di cultura e scienza giuridica (Aracne editrice- Roma). Vi sono raccolti gli atti – rielaborati ed integrati – del convegno svoltosi ad Urbino il 21 ottobre 2010 in occasione del cinquantenario della uscita (1950) de “Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum”, opera schmttiana che emerge per particolare significatività nella complessa produzione bibliografica dell’Autore di Plettenberg.

La rivista ospita sul punto una serie di qualificati interventi dedicati alle riflessioni sull’origine e la “sedimentazione” dello Jus publicum europaeum nel corso della sua traiettoria storica, al quale Carl Schmitt volle appunto dedicare in particolare questo libro. Piace rinvenire, tra gli approcci adottati dai prestigiosi studiosi che si accostano al pensatore tedesco – l’espressione “pensatore ” si aggrada al personaggio? – un evidente addentellato allo spazio geopolitico europeo così come lo si percepisce nei meandri tortuosi e travagliati di quest’epoca. Ed è forse per questo che ci dice, Agata C. Amato Mangiameli, che le pagine del “Nomos della terra”, emanano “un’inesorabile aura di tragedia” (cfr. “L’Europa e l’appello alla scienza giuridica. Sulle tracce di Carl Schmitt”, p. 51-66).

Certo è che la tragedia e le aporìe del Moderno, si diramano in abbondanza tra le vive intuizioni di Schmitt e sono intercalati da un coacervo di fatti e parole, paure e violenze che non si stancano di intrecciare vividi disegni. Ai protagonisti, agli spettatori, ai protagonisti travestiti da spettatori o da “ameni studiosi” il compito di stare sulla scena (o uscirne fuori), sopravvivendo.

Diversi, tra quanti oggi si accostino a Schmitt, vanno di sicuro più in là rispetto a chi, ad esempio, negli anni settanta riusciva (riduttivamente) a rintracciare nella sua opera “quella distruzione della ragione di cui Schmitt è uno degli artefici più coerenti e non privo di grandezza” ( cfr. la prefazione di F. Valentini all’edizione italiana del 1975 de “La dittatura” – p. XXX “Carl Schmitt o dell’iperpoliticismo”).

Adesso siamo in grado di asserire, oltre gli schemi lukàcsiani, che dietro ciò che è “non privo di grandezza” sta non solo un pensiero forte in quanto mitizzante, ma in questo caso intrinsecamente rigoroso e sillogistico (e, senza dubbio, un pensiero poco quieto e poco pacificante). Un pensiero che è figlio anche di quella kriegsideologie “alle cui spalle agisce chiaramente la tradizione religiosa che cerca nella meditatio mortis l’antidoto alla dispersione della banalità quotidiana” (così ci rende edotti Domenico Losurdo nel suo “pensieri di guerra” p. 70, incluso nel “Il filosofo in borghese”, AA. VV. – 1992 Manifestolibri).

E’ incontestabile, del resto, che in Schmitt l’esperienza della guerra 14-18 guidi la sua personale operazione di smascheramento dei proclami pacifisti che incorniciano con solenne ipocrisia la realtà assai poco corrusca dei rapporti di forza instauratisi con la pace di Versailles del 28 Giugno 1919 (culminata con il “diritto” a processare il Kaiser Gugliemo II inserito nel relativo Trattato, con successiva rinuncia ad esercitarlo da parte delle potenze vincitrici, formulata alla conferenza di Londra del 1920, stante il rifiuto di estradizione opposto dai Paesi Bassi, stato neutrale dove il Sovrano aveva trovato rifugio).

La meditazione schmittiana si rivolge, insomma, agli orizzonti epocali ma dispone della materia prima che promana dalla crudezza e dalle bassezze della crisi di Weimar. La bravura risiede nell’unire la “discesa in campo” alla scientificità, senza che la ricca latitudine dell’approfondimento ispirato declini di rango verso l’eccesso eclettico.

Le macerie della crisi post-bellica contengono, variamente disseminato, il legato dell’antico diritto e dell’equilibrio realistico tra le forze geopolitiche. La ricostruzione teoretica della Sovranità è la prospettiva alla quale la grande opera del giurista renano ci fa impattare. Difficile ed affascinante è l’operazione di congiunzione tra gli albori medioevali dello Jus publicun europaeum e gli inquietanti sviluppi della configurazione dei poteri mondiali: una miscela strana (taluni pensano) tra “arcaico” e potenze dei numeri e dei materiali. Certo, il percorso argomentativo di Schmitt non può non contenere anche degli enigmi forse non ben risolti, ancora.

Per esempio, perché ricondurre ai teologi il caleidoscopio dei “misfatti” che precedono la pace di Westfalia, quasi per celebrare quindi l’empatìa per i subentranti Giuristi del Trono? Schmitt si non nasconde di compiacersi per la misteriosa reviviscenza metafisica di “ciò” o di “colui che trattiene” il dispiegamento del disordine, con quel che ne segue, escatologicamente. L’espressione manifesta di quel Katéchon del quale – con grande seduzione– Schmitt ci indica le inesplicabili insorgenze nella Storia, se non altro nel suo spirito, si serve dei teologi, o li disarma, i teologi; oppure – ancora – è tradito dai teologi che macchiano di sangue il cammino dell’Europa? Potremmo dedurne in ogni caso per forza di cose che, se i giuristi si caricano sulle spalle i drammi dei secoli trascorsi, la loro lingua desacralizzata li rende innocenti d’ogni male. Chi della scienza giuridica si è fatto servitore vi ha certamente alluso, insegnando tuttavia che dalle accuse a poco serve difendersi con le controaccuse e men che mai è utile riporre nel cassetto le proprie contraddizioni. Per questo lo sconfitto non ha smesso di scrivere libri dei quali a tutt’oggi, meno scomodamente, discorriamo.

Per ora possiamo restare in attesa che simili quesiti trovino repliche adeguate tra le pieghe degli studi (a questo punto non soltanto giuridici), del pensiero schmittiano, che potranno ritagliarsi maggior spazio nel dedicarsi agli aspetti più “esoterici”.

Domande e risposte restituiscono colpo su colpo. Qui, per trovare il punto, evidentemente potrebbe intervenire la dimensione propriamente esegetica delle Scritture dalle quali nei secoli è scaturito il Magistero patristico (Sant’Agostino e le quattro condizioni della “giusta guerra”, San Tommaso d’Aquino). La sensibilità espressa per la Teologia, singolarmente manifestata in un altro “inattuale” come Heidegger, dà conto di un qualcosa che in Schmitt non sembra difatti pura letterarietà ma rappresenta una delle matrici più dialetticamente dirompenti.

Ci piace segnalare a questo riguardo le stimolanti ed originali considerazioni di Pasquale Serra contenute nel breve saggio “Schmitt oltre Schmitt” (in particolare a p. 194 della rivista), dove compare il riferimento all’asserita denegazione all’apertura ( o, con più precisione, all’accesso) del pensiero schmittiano verso la Trascendenza: una fine percezione del quale un maggior scandaglio sarebbe tutt’altro che sconveniente.

A ben vedere, tra Teologia e Diritto, oggi – anno 2012 – sono maturate genealogie distanti; divise da innumeri solchi di marca positivistica, tanto da restringere non poco – almeno su questo tema – le possibilità di comuni profili ermeneutici in chi volesse sciogliere il nodo. Se si volesse sdipanare alla radice questa porzione dell’impianto dottrinale del Nostro, risulterebbe troppo preciso – e forse reciso – il campo logico del Giurista, troppo “intimistica” e poco “scientifica” – ed in questo senso nebulosamente trascendente – la sensibilità del biblista, che alla fine dei conti è sempre scambiato con sospetto per un mistico visionario. Le grandi sintesi come quello schmttiane, si comprendono nell’analisi, ma più spesso si condividono nell’istinto. Ma queste sono digressioni.

Tornando al tema dell’Europa e del nostro “Nomos della Terra”, si distingue – tra le pagine della Rivista – un interessante resoconto del dibattito tenutosi a margine del Convegno di Urbino, animato da studiosi di spessore: A. Baldassarre, D. Losurdo, G. Maggioni, S. Mangiameli, M. Tronti. L’incipit sullo sfondo si sostanzia nell’attenzione – espressa a diverso titolo e con differenti modelli di sensibilità – alle “provocazioni” del Nostro. L’idea di una dimensione dello spazio pubblico generale che da Eurocentrico sta diventando un multiverso di entità geopolitiche, pronte a spiccare il “grande balzo” fuori dalla decaduta logica di Yalta, svetta tra le realtà di prima grandezza con le quali fare i conti. Dal dibattito emerge che è nello sviluppo ultimo di questo assetto nuovo e disarticolante che si possono rinvenire gli interrogativi che Carl Schmitt ha introdotto nel “fare diritto”. Inverandosi nella Storia, legalità e legittimità,”forma” e “valore”, rappresentanza e sovranità, si costituiscono immanentemente secondo diversi significati e diversi limiti. Spetta al testimone afferrarli, quando – ci viene voglia di osservare, se questo fa la differenza – si fa anche studioso del diritto pubblico, immerso “nel tempo che verrà”.

Il “Nomos della Terra” è una sorta di epitome della parabola del Vecchio Continente ( L’Europa, che oggi viene definita “provincia dell’Occidente”,), la risoluzione visiva delle distanze tra “terra” e “mare”, tra mondi conchiusi e mondi “aperti”, tentacolari e globalizzanti.

Se poi, la consecutio dei diversi assetti dello Stato e della Legge, se il circolo delle dissoluzioni è un palindromo, se si può in poche parole tornare indietro – seppur con forme diverse – Schmitt non ce lo ha detto, anche se c’è chi dice che il discorso è chiuso e che il “Nomos della terra” si configura come una sentenza senza appello, su ciò che è irredimibilmente finito.

Comunque sia, questa miscellanea di contributi restituisce utilmente suggestioni dottrinali e materiali dossografici che arricchiscono i quadri culturali del Paese; a cominciare non soltanto dagli studiosi, ma anche da coloro che appartengono a quelle ultime generazioni che, ignare di fatto dei Conflitti Mondiali, oramai sanno che dovranno per forza capire gli scenari di questo nuovo millennio, per viverci dentro.

Platania Roberto

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