Gli stati europei sono obbligati ad introdurre o riconoscere il matrimonio tra coppie dello stesso sesso?

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Nell’articolo che segue l’Autore si sofferma sulla recente pronuncia “Hämäläinen v Finland” della Corte Europea dei Diritti dell’uomo riunita nella Grande Camera, la quale ultima ha affermato che nessuno Stato aderente alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo è obbligato a procedere alla trascrizione di matrimoni tra coppie dello stesso sesso. La pronuncia offre l’occasione per richiamare quanto osservato della Corte Costituzionale nella sentenza n.170/2014. I Giudici hanno dichiarato la illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) invitando, così, il legislatore italiano a prevedere forme di unione (diversa dal matrimonio) per le coppie omosessuali.

Nella sentenza “Hämäläinen v Finland” la Corte europea dei diritti dell’uomo, il 16 luglio scorso, ha risposto in senso negativo. Nel caso di specie, sotto la lente del giudice Comunitario, è stata posta la normativa dello Stato finlandese che non prevede il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso e che, tuttavia, a giudizio della Corte,  non viola la Convenzione. E’ necessario approfondire tale incipit, partendo dai fatti oggetto di pronuncia.

Un uomo finlandese sposato con una donna chiede l’aggiornamento dei dati anagrafici avendo effettuato un’operazione  per cambiare il proprio sesso. Le autorità civili finlandesi tuttavia negano all’uomo tale possibilità, non essendo infatti in Finlandia consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La legge prevede piuttosto che, laddove la persona sposata cambi sesso, affinchè vi sia pieno riconoscimento giuridico della nuova identità di genere,  essa abbia due alternative. La prima è quella di conservare, qualora anche l’altro coniuge acconsenta, la relazione che, però, da matrimonio si convertirà in unione civile; la seconda alternativa, è il divorzio.  In definitiva, la coppia deve dunque scegliere se divorziare o trasformare il matrimonio in una unione civile (che in Finlandia ha un trattamento giuridico sostanzialmente parificato al matrimonio).

I coniugi, nel caso di specie, rifiutando entrambe le alternative, adivano la Gran Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando la violazione degli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione atteso che la legislazione finlandese in materia viola il rispetto per la loro vita privata e familiare, nonché il loro diritto al matrimonio.

L’adita Corte, richiamando il dettato di cui all’art. 12 della Convenzione, esclude innanzitutto con fermezza che la norma anzidetta possa essere interpretata nel senso di obbligare gli Stati membri ad accogliere al loro interno il matrimonio tra coppie dello stesso senso.

Giova riportare per esteso il contenuto dell’art. 12 CEDU: “Uomini e donne, in età matrimoniale, hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”. Orbene, si legge nella sentenza della Corte che la menzionata norma  “è una lex specialis rispetto al diritto di sposarsi. Esso assicura il diritto fondamentale di un uomo e una donna di sposarsi e fondare una famiglia. L’Articolo 12 fa espressamente salva la regolamentazione del matrimonio da parte della legge nazionale”.[1]

L’art.12, dunque, manifesta come la Convenzione “conserva il concetto tradizionale di matrimonio quale quello tra un uomo e una donna”.

La Corte aggiunge: “Mentre è vero che alcuni Stati contraenti hanno esteso il matrimonio a partners dello stesso sesso, l’Articolo 12 non può essere interpretato per imporre l’obbligo agli Stati Contraenti di garantire l’accesso al matrimonio alle coppie dello stesso sesso”.[2]

La Corte respinge inoltre la tesi della ricorrente, Ms Hämäläinen, secondo la quale la legislazione finlandese comporta un divorzio forzato. La Corte infatti osserva che l’onere imposto dalla legislazione finlandese – cioè il contemplare altresì l’alternativa conversione del matrimonio in unione registrata-  non crea alcun danno alla ricorrente in quanto alle coppie di unioni registrate sono  riconosciuti analoghi diritti rispetto a quelli derivanti dal matrimonio. La legislazione, in Finlandia,  dunque garantendo ai componenti di coppie di unioni registrate quasi tutti i diritti previsti per le coppie sposate, senza cambiamenti in ordine ai diritti genitoriali non comporta, evidentemente, alcuna violazione neppure dell’art. 14 della Convenzione medesima.

Il caso de quo richiama alla mente una recentissima pronuncia della Corte costituzionale (la n. 170/2014 del 10 giugno scorso e depositata il giorno seguente, e dunque di un solo mese precedente alla sentenza Hämäläinen v. Finland) che si è pronunciata su un caso simile. A differenza dell’ordinamento finlandese, però, quello italiano non lascia scelta al soggetto che decide di cambiare sesso: prevede, infatti, che qualora uno dei coniugi cambi sesso, la sentenza di rettificazione sia automatico il divorzio. La Consulta ha così dichiarato “l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164, con riferimento all’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, la cui disciplina rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore.” E’ di tutta evidenza quindi che la normativa italiana, differentemente dalla legislazione finlandese, è monca di ogni riconoscimento ad una unione affettiva, alternativa al matrimonio, tra persone dello stesso sesso.

Il giudizio che condurrà a sollevare la questione di legittimità costituzionale veniva promosso da una coppia sposata la quale, in seguito al cambio di genere sessuale di uno dei due, vedeva apporre dall’ufficiale di stato civile in calce all’atto di matrimonio l’ annotazione – di cui ne chiedevano la cancellazione- di «cessazione degli effetti del vincolo civile del [loro] matrimonio», contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito, in pedissequa applicazione della l. 164/1982.

Il giudizio giungeva innanzi alla Corte di cassazione – adita in sede di impugnazione avverso il decreto della Corte di Appello di Bologna che, in riforma della statuizione di primo grado, aveva respinto la domanda dei ricorrenti – la quale sollevava con l’ordinanza del 6 giugno 2013 ( iscritta al n. 214 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2013), questione di legittimità costituzionale. 

Sotto la lente del giudice costituzionale sono finiti, appunto, gli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164. La Corte di Cassazione nel sollevare la questione di legittimità costituzionale di detti articoli ha manifestato dubbi circa la soluzione imposta dalla normativa de qua, la quale prevede, come accennato, che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca lo scioglimento automatico del matrimonio o la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato con rito religioso.

Ad avviso della Corte rimettente, infatti, la normativa censurata comporterebbe un sacrificio non bilanciato  «del diritto di autodeterminarsi nelle scelte relative all’identità personale, di cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo; del diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale, quando essa assuma i caratteri della stabilità e continuità propri del vincolo coniugale; del diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate, alle quali è riconosciuta la possibilità di scelta in ordine al divorzio; del diritto dell’altro coniuge di scegliere se continuare la relazione coniugale». Ed in particolare, la Corte di Cassazione, ravvisa nell’art. 4 della legge 164/1984 un contrasto con gli artt. 2,3 e 29 della Cost.

La Corte Costituzionale, tuttavia, pur dichiarando fondata la questione, ricostruisce ed affronta la questione di legittimità costituzionale sollevata non alla luce degli art. 3 e 29 della Costituzione, bensì attraverso la lettura dell’art. 2 Cost. In particolare, la Consulta, richiamando un suo precedente, ribadisce come la nozione di matrimonio contenuta nell’ art. 29 Cost è la stessa di quella offerta dal legislatore del codice civile che «stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso» (sentenza n. 138 del 2010). “Il che comporta che anche a colui (o colei) che cambia il proprio sesso non resta impedito di formare una famiglia, contraendo nuovo matrimonio con persona di sesso diverso da quello da lui (o lei) acquisito per rettifica.”

Secondo la Corte, neppure possono essere invocati gli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come già ribadito da diverse pronunce  della CEDU (e in ultimo da quella “Hämäläinen v Finland” dalla quale siamo partiti), “e ciò perché in assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte EDU, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso.”

Ancora, continua la Corte, “la stessa sentenza della Corte EDU Schalk and Kopf contro Austria, citata nell’ordinanza di rimessione, nel ritenere possibile una interpretazione estensiva dell’art. 12 della CEDU nel senso della riferibilità del diritto di contrarre matrimonio anche alle coppie omosessuali, chiarisce come non derivi da una siffatta interpretazione una norma impositiva, di una tale estensione, per gli Stati membri.”

Nella sent. 170/2014 la Corte precisa altresì che la normativa al vaglio di legittimità costituzionale, nemmeno contrasta con i principi di cui agli art. 3 e 24 della Cost.: “perché non essendo, per quanto detto, configurabile un diritto della coppia non più eterosessuale a rimanere unita nel vincolo del matrimonio, non ne è, di conseguenza, ipotizzabile alcun vulnus sul piano della difesa.E quanto al parametro dell’art. 3 Cost., poiché la diversità della peculiare fattispecie di scioglimento a causa di mutamento del sesso di uno dei coniugi rispetto alle altre cause di scioglimento del matrimonio ne giustifica la differente disciplina.”

E dunque, il contrasto dell’art. 4 della legge 164/1982, è tutto ravvisabile con il principio sancito dall’art. 2 Cost. Già nella pronuncia 138/2010 la Corte Costituzionale ebbe modo di precisare che nella nozione di “formazione sociale” «è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Con la precisazione che occorre «escludere […] che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio». Con immediato precipitato che «nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette», e, per altro verso, che resta, però, comunque, «riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni»

E così la Corte Costituzionale esclude che possa addivenirsi ad una sentenza manipolativa che sostituisca il divorzio automatico con il divorzio a domanda in quanto ciò contrasterebbe con l’art. 29 Cost. La Corte stessa ritiene dunque imprescindibile ed auspicabile che sia il legislatore ad “introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. E tal compito il legislatore è chiamato ad assolvere con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina in esame per il profilo dell’attuale deficit di tutela dei diritti dei soggetti in essa coinvolti”.

In conclusione, le due recentissime pronunce brevemente richiamate – quella della Corte Europea e quella della Corte Costituzionale –  non sembrano configgenti tra loro. La sentenza del giudice comunitario infatti ribadisce come l’art. 12 CEDU “conserva il concetto tradizionale di matrimonio quale quello tra un uomo e una donna” e che non obbliga gli stati membri ad introdurre nel proprio ordinamento il matrimonio tra coppie dello stesso sesso. Considerato che la legge dello Stato finlandese contempla in ogni caso unioni civili tra persone dello stesso sesso, non si ha alcuna violazione della Convenzione. Per altro, il medesimo art.12 fa espressamente salva la regolamentazione del matrimonio da parte della legge nazionale. La pronuncia del giudice costituzionale, a tal ultimo proposito, si è espressa arrivando alle medesime conclusioni quanto all’interpretazione dell’art. 12 Cedu. La Consulta nell’affermare la illegittimità della normativa(artt. 2 e 4 della legge 164/1982) che prevede il “divorzio imposto” nel caso di sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso da parte di uno dei coniugi, osserva che il contrasto costituzionale non è rinvenibile nell’art. 29 Cost che, al pari del codice civile, conserva il concetto tradizionale di matrimonio tra eterosessuali esattamente come l’ art. 12 della Cedu. E tuttavia, il giudice della Consulta ravvisando invece il contrasto con l’art. 2 Cost. della normativa di cui alla legge 164/1982, sollecita il legislatore ad  “introdurre una forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza.”

Non sembra dunque  essere stato messo in discussione da entrambe le pronunce anzidette il principio del matrimonio fondato sulla diversità di sesso tra coniugi. Ma, piuttosto, che sia lo Stato membro a mantener salva la possibilità (e non l’obbligo) di regolamentare al loro interno il matrimonio (o altre forme di unione) anche tra coppie dello stesso. Quanto allo Stato italiano, tuttavia, occorre precisare che, stante l’art. 29 Cost., tale possibilità può e deve (alla luce anche della richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale) esplicarsi attraverso la previsione ed il riconoscimento di forme diverse dal matrimonio affinchè a coppie omosessuali possa essere garantito il principio di cui all’art. 2 Cost..

Esposito Anna Pia

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