Gli obblighi e i poteri relativi alla gestione della cosa comune

Calabrò Arles 05/04/17
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La tematica della locazione della cosa comune da parte di uno solo dei comproprietari, dal punto di vista dogmatico ed operativo, si presenta ricchissima di questione problematiche di ampio respiro. Un suo inquadramento generale, pertanto, richiederà necessariamente un approccio sintetico.

Ciò premesso, ai fini dell’indagine, in ordine alle questioni problematiche sottese alla fattispecie in esame, sembra opportuno prendere le mosse dall’analisi della disciplina normativa riferita agli obblighi e ai poteri di gestione della cosa comune, non mancando di evidenziare, però, che quando si parla di gestione della cosa comune (nonché della relativa locazione della stessa) non ci si riferisce, ovviamente, solo ed esclusivamente alle ipotesi di comunione ordinaria, ex artt. 1100 e ss. cc, ma, altresì, al condominio negli edifici (1117 e ss.), nonché alla comunione dei beni tra coniugi (artt. 159 e ss.): ovvio, infatti, che la generica espressione “locazione della cosa comune da parte di uno solo dei comproprietari” non può che implicare un’indagine finalizzata a valutare le problematiche relative a tutte le fattispecie summenzionate.

Muovendo dalla disciplina relativa agli obblighi e ai poteri riferibili alla gestione della cosa comune nella comunione ordinaria, giova rilevare come essa trovi il proprio addentellato normativo negli artt. 1100 e ss. cc: segnatamente, l’articolo 1102 cc postula che ciascun partecipante alla comunione possa servirsi della cosa comune, purchè non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, secondo il loro diritto. Il partecipante, soggiunge il secondo comma della precitata disposizione, non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.

Rilevante, ai fini della tematica che ci occupa, è, altresì, l’art. 1103 cc, alla cui stregua ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere agli altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota: a tal fine, preme sottolineare, come l’unica ipotesi codicistica in cui espressamente si faccia riferimento ad una specifica fattispecie di cessione di godimento della cosa comune da parte di uno solo dei comproprietari sia da rinvenire nella disciplina di cui all’art 1059 cc, in forza della quale la servitù concessa da uno solo dei comproprietari di un fondo indiviso non è costituita se non quando gli altri l’hanno anch’essi concessa unitamente o separatamente. La concessione, però, fatta da uno solo dei comproprietari, indipendentemente dagli altri, obbliga il concedente e i suoi eredi o aventi causa a non porre impedimento all’esercizio del diritto concesso (art. 1059, secondo comma cc).

Ed ecco, allora, come già emerga il primo profilo problematico che la presente indagine intende affrontare. Quid iuris: atteso il silenzio del legislatore, è da considerare valido ed efficace il contratto di locazione stipulato da uno solo dei comproprietari? Ovvero, in tale evenienza, la violazione dell’art 1103 cc comporta determinate conseguenze giuridiche che fanno propendere per l’invalidità di tale programma negoziale? Sul quesito dianzi prospettato si tornerà in seguito, tentando di fornire una risposta che, ovviamente, presti particolare attenzione al dato normativo nella specie rilevante.  

In effetti, come testè rammentato, tale ultima disposizione predica che ciascun partecipante possa disporre del suo diritto di proprietà sulla cosa in comune solo nei limiti della sua quota. Tale norma va letta in combinato disposto con la disciplina di cui all’art 1102 cc, secondo comma cc, ai sensi del quale il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutarne il titolo del suo possesso. Quindi il comproprietario che stipuli un contratto di locazione della cosa comune a favore di uno o più conduttori viola sicuramente le disposizioni codicistiche summenzionate, in quanto dispone del suo diritto oltre i limiti ivi consentiti. Ci si dovrà interrogare, allora, se la violazione di tale disciplina possa inficiare d’invalidità l’intero programma negoziale posto in essere tra comproprietario locatore e conduttore. Sul punto specifico, come sopra precisato, si avrà modo di tornare in seguito.

Un secondo paradigma di comunione è fornito dagli artt. 1117 e ss. cc, così come modificati dalla recente novella (l. n 220/2012): gli obblighi e i poteri dei partecipanti alla gestione della cosa comune, rilevanti ai fini della presente analisi, sono enucleati segnatamente dagli artt. 1118, 1134 e 1139 cc.

In base alla prima di tali disposizioni, il condomino non può rinunziare al suo diritto sulle parti comuni e non può sottrarsi all’obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle stesse. L’art. 1139 cc, per quanto non disciplinato dal capo relativo alla comunione negli edifici, rinvia alla disciplina della comunione ordinaria (quindi rinvia anche all’art. 1103 cc, che, come già ricordato, postula un divieto di disposizione e di cessione della cosa comune oltre i limiti della propria quota). L’art. 1134 cc, infine, rubricato “gestione d’iniziativa individuale”, esige che il condomino, il quale abbia assunto la gestione delle parti comuni senza autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea, non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente.

Ora, è chiaro come quest’ultima disposizione si riferisca alle ipotesi in cui il condomino abbia voluto sua sponte affrontare determinate spese di gestione della cosa comune (senza, ove necessario, il preventivo consenso degli organi all’uopo deputati ad autorizzarlo), ma, considerando la ratio legis sottesa a tale disposizione, non pare si possa negare una possibile applicazione analogica di tale disciplina a tutte le ipotesi, in generale, in cui uno dei condomini disponga della gestione delle parti comuni oltre i limiti consentiti dalla legge: è evidente, infatti, come l’ipotesi di un eventuale contratto di locazione posto in essere da uno solo dei comproprietari possa configurarsi teoricamente anche in relazione al condominio negli edifici. Si ponga mente, a titolo meramente esemplificativo, all’eventualità in cui un condomino stipuli, all’insaputa e senza il consenso degli altri condomini e, quindi, senza alcuna autorizzazione da parte dell’assemblea dei condomini, un contratto di locazione del locale lavanderia o del cortile dell’edificio. Certo, è indubbio come tale eventualità abbia, più che altro, un sapore squisitamente teorico, forse scolastico, ma, poiché è astrattamente ipotizzabile, anche in tale evenienza, non ci si può non interrogare sulla validità e sull’efficacia di un eventuale siffatto programma negoziale.

In tale circostanza, atteso il silenzio del codificatore sul punto specifico, sembra fuor d’opera ipotizzare una nullità del contratto, ex art 1418, primo comma (sub specie di nullità virtuale), alla cui stregua il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative. Le disposizioni normative dianzi citate, infatti, non assurgono al rango di norme inderogabile, imperative, ancorchè siano  finalizzate a consentire una civile e armoniosa convivenza tra tutti i soggetti dimoranti stabilmente all’interno di uno stesso edificio. Tale disciplina, invero, affonda sì le sue radici nella necessità di evitare che eventuali spazi o cose comuni siano oggetto di un uso improprio e del tutto arbitrario da parte di uno o più condomini, ma non pare possa considerarsi il frutto di disposizioni normative inderogabili: le norme precitate, relative al condominio negli edifici, allora, non sembra si possano atteggiare a norme imperative.

Occorre, inoltre, verificare se un siffatto contratto di locazione sia comunque meritevole di tutela, ovvero se, difettandone la causa (intesa, ovviamente, nella sua accezione concreta), esso debba intendersi come nullo e se tale patologia negoziale debba, quindi, essere sussunta nella sfera di disciplina di cui al combinato disposto degli artt. 1322 e 1418 cc.

Anche in ordine a tale eventuale patologia, non pare si possano nutrire particolari dubbi ermeneutici: anche ammesso che si possa estendere il giudizio di meritevolezza di cui all’art 1322, secondo comma, cc, altresì ai contratti tipici (ma sul punto non vi è concordanza di opinioni), alla stregua dell’orientamento maggioritario, un determinato programma negoziale è da intendersi come non meritevole di tutela solo allorquando lo stesso abbia il carattere dell’illecità, ovvero sia contrario a norme imperative, al buon costume o all’ordine pubblico. Nella specie, non sembra ipotizzabile che un siffatto contratto di locazione, ancorchè stipulato da un condomino all’insaputa e senza il consenso degli altri, presenti comunque una connotazione di illecità.

Esclusa, pertanto, qualsivoglia patologia riferibile ad un’eventuale nullità (testuale, virtuale o strutturale), occorre, a questo punto, evidenziare come in tale fattispecie sia configurabile, semmai, un’ipotesi di annullabilità del negozio, ex artt. 1427 e ss. cc: il conduttore, il cui consenso fu dato eventualmente per errore (pensando che la cosa fosse di proprietà esclusiva del locatore) può chiedere l’annullamento del contratto. Non vi è dubbio che in tale evenienza siano integrati i presupposti a cui soggiace la relativa istanza: si allude, come è ovvio, alla rilevanza e all’essenzialità dell’errore, ex artt. 1428 e 1429 cc.

In tale circostanza, tale patologia può essere oggetto di giudizio, ex art 1441 cc, solo in seguito all’istanza promanante dal conduttore.

Perseverando nell’excursus afferente alle tipologie di comunione rilevanti nella presente indagine, non può non prendersi in considerazione la disciplina relativa alla comunione tra coniugi: anche in relazione alle cose di comune proprietà di questi ultimi è astrattamente configurabile, infatti, l’ipotesi di un atto di disposizione non consentito dal comproprietario e, anche nella specie, quindi, occorre interrogarsi sulla validità ed efficacia di un eventuale negozio con cui un coniuge, senza il consenso dell’altro, provveda a locare un bene di proprietà comune.

Il regime patrimoniale della famiglia è disciplinato dagli artt. 159 e ss. cc, così come novellati dalla riforma operata dalla legge 151/75; riforma, quest’ultima, che ha avuto un notevole impatto nella disciplina del diritto di famiglia e, segnatamente, nel regime patrimoniale tra coniugi: tale regime, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’art. 162 cc, è costituito dalla comunione dei beni. Quindi, a meno che i coniugi non intendano prediligere una determinata convenzione matrimoniale nei limiti e secondo i presupposti indicati dalla predetta disposizione codicistica, il regime patrimoniale della famiglia trova la sua fonte di disciplina negli artt. 177 e ss. che enucleano, nello specifico, tutti i beni oggetto di comunione, i beni personali e le modalità di amministrazione dei beni in comunione. In particolare, l’art 180 cc, rubricato, appunto, “amministrazione dei beni in comunione”, predica che l’amministrazione dei beni della comunione, e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essi relativi, spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi. Il secondo comma di tale ultima disposizione soggiunge che il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi.

Rilevante, nella specie, è altresì l’art 184 cc, a tenore del quale gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro e da quest’ultimo non “convalidati” sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell’art 2683. L’azione può essere promossa dal coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e, in ogni caso, entro un anno dalla data di trascrizione. Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli per cui è prevista la relativa trascrizione, infine, viene statuito dal codificatore che il coniuge che li abbia compiuti senza il consenso dell’altro sia obbligato, su istanza di quest’ultimo, a ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto, ovvero, quando ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione.

Orbene, si arriva così al cuore dell’indagine che ci si è preposti, meglio comprendendosi, a questo punto, il perché di queste considerazioni generali: alla stregua delle disposizioni normative dianzi richiamate, infatti, appare evidente come, ai fini dell’inquadramento dogmatico del negozio di locazione (riferito ai beni in comunione) stipulato da un coniuge senza il consenso dell’altro, appare dirimente la distinzione tra atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione. Ove si debba considerare tale contratto di locazione come un atto di ordinaria amministrazione, esso sarà attratto nella sfera di disciplina di cui all’art. 180 cc, alla cui stregua, lo si ribadisce, l’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spetta disgiuntamente ad entrambi i coniugi, qualora, invece, lo si debba considerare come un atto di straordinaria amministrazione, il negozio in questione sarà attratto nell’orbita gravitazionale di cui all’art 184 cc e, quindi, vi sarà la possibilità, per il coniuge il cui consenso non sia stato acquisito, di promuovere, entro i termini ivi stabiliti, il giudizio di annullabilità (se la locazione riguarda beni immobili o beni mobili elencati nell’art 2683), ovvero, nel caso in cui la locazione riguardi beni mobili “non registrati”, il coniuge pretermesso potrà attivare lo strumento rimediale di cui all’art 184, terzo comma cc.

Onde tracciare tale linea di demarcazione, dirimente appare sicuramente il dato normativo, la cui stentorea chiarezza non pone all’interprete problemi esegetici di sorta: “il contratto di locazione per una durata superiore a nove anni è atto eccedente l’ordinaria amministrazione” (art 1572 cc).

Orbene, esaurita in questi termini la trattazione delle questioni riferite agli obblighi e ai poteri relativi alla gestione della cosa comune e, quindi, alla natura della locazione di quest’ultima da parte di uno solo dei comproprietari nelle ipotesi di condominio negli edifici e di comunione tra coniugi, è ora possibile, a questo punto, addentrarsi nella disamina di una questione problematica che, per l’affascinante e nutrita elaborazione accademica sul punto, ci si è riservati di esaminare funditus: ci si riferisce all’inquadramento dogmatico e alla natura giuridica del contratto di locazione della cosa comune stipulato da parte di uno solo dei comproprietari, nelle ipotesi di comunione ordinaria, cioè nell’eventualità in cui non si ricada nelle fattispecie già esaminate in precedenza.

Come si è già avuto modo di ricordare, l’art. 1103 cc prescrive che ciascun partecipante possa disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa solo nei limiti della sua quota.

Appare chiaro, quindi, che un eventuale siffatto regolamento di interessi predefinito tra comproprietario locatatore e conduttore risulterebbe essere violativo della disciplina rinvenibile dalla summezionata disposizione codicistica.

Orbene, nell’attuale panorama giurisprudenziale, il negozio in questione, lungi dall’atteggiarsi come nullo ex artt. 1322 e 1418, ovvero  annullabile ex art. 1427 cc, si ritiene essere valido ed efficace: molteplici le pronunce, adottate finanche dalla Corte regolatrice, con le quali si statuisce la validità e l’efficacia di tale programma negoziale.

Il punto nodale, attorno a cui ruota l’intero impianto argomentativo di tale consolidato orientamento, è incentrato sulla asserita presunzione del consenso ad opera del comproprietario pretermesso nella stipula del negozio locatizio: si assume, invero, che ancorchè egli non abbia partecipato alla stesura del programma negoziale, ovvero non sia parte integrante del relativo contratto, si presume, comunque, che egli sia stato accondiscendente alla stipula di tale atto; si sostiene tale tesi nonostante, per giunta, l’art. 1105 c.c. postuli esplicitamente che tutti i partecipanti abbiano diritto di concorrere nell’amministrazione della cosa comune e che, per la validità delle deliberazioni della maggioranza, sia necessario che tutti i partecipanti siano stati preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione. 

Non può tuttavia sottacersi (ed infatti non si è mancato di evidenziarlo in diversi pronunciamenti) come nella specie rilevino principi cardine dell’ordinamento civilistico: in primis, il canone di legittimo affidamento, applicabile nei confronti del conduttore, il quale ben potrebbe stipulare il relativo contratto di locazione ignaro del fatto che il bene non sia di proprietà esclusiva della controparte; in secundis, il principio di relatività del contratto, in base al quale, come è noto, il regolamento di interessi predefinito dai paciscenti ha forza di legge solo tra le stesse parti e non può essere sciolto che per mutuo consenso, ovvero per cause ammesse dalla legge.

Inoltre, ai fini della stipula di un valido contratto di locazione, in giurisprudenza si ritiene non sia indispensabile essere proprietari del bene che si intende locare, essendo sufficiente che il locatore ne abbia la disponibilità: dalla nozione di locazione, offerta nell’ambito del tessuto codicistico, si ricava che questa debba essere intesa come il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo. E’ facile inferire, pertanto, come il legislatore non esiga, ai fini della validità del relativo negozio locatizio, che il locatario debba necessariamente vantare un diritto reale sul bene che intende concedere in locazione.

Giova comunque evidenziare come, sul punto specifico relativo alla validità ed efficacia di un siffatto negozio, valgano, inoltre, tutte le riflessioni già svolte in riferimento al condominio negli edifici (riflessioni a cui, quindi, si rinvia).

Chiarito, pertanto, che, secondo l’impostazione in assoluto maggioritaria, il contratto in questione è da considerarsi valido ed efficace, occorre chiedersi, allora, quali siano gli strumenti di tutela di cui può disporre il comproprietario non locatore, il quale, non avendo prestato alcun consenso alla stipula del negozio, voglia rivendicare, in giudizio, la tutela della propria posizione specifica: in altri termini, tra le varie questioni di interesse, si pone maggiormente all’attenzione dell’interprete l’interrogativo se il comproprietario pretermesso nella stipula del negozio locatizio possa pretendere dal conduttore la metà dei canoni che egli, in base al contratto, deve versare (ovvero abbia già versato) al locatore comproprietario, ovvero se, nella specie, egli possa solo chiedere il risaricimento dei danni allo stesso comproprietario, resosi colpevole di aver stipulato, senza il dovuto consenso postulato dall’art. 1103, secondo comma cc, il negozio e di aver incamerato interamente i relativi canoni di locazione.

Un primo minoritario orientamento, muovendo dal principio del legittimo affidamento e dal canone di relatività degli effetti negoziali, propende per tale ultima soluzione, rilevando come, attesa la validità ed efficacia del contratto, nella fattispecie in esame, l’unico strumento rimediale elargito dal codificatore nei confronti del comproprietario pretermesso sarebbe rinvenibile nel risaricimento danni, sub specie di danni patrimoniali, ex art 1223 ed eventuali danni non patrimoniali, sub specie di danni morali, ex art 2059 cc.

La tesi maggioritaria propende, per converso, per la possibilità di evocare in giudizio, in qualità di litisconsorti necessari, vuoi il comproprietario locatore, vuoi il conduttore, affinchè lo stesso comproprietario non locatore possa chiedere la condanna del conduttore al versamento della propria quota parte relativa ai canoni che quest’ultimo dovrà pagare (ovvero che abbia già provveduto a versare) alla propria controparte negoziale.

Ma il punctum controversum, nella specie, attiene alla disciplina da applicare: alla stregua di un primo orientamento, l’atto posto in essere dal locatore comproprietario è da considerarsi come acconsentito dagli altri comproprietari in quanto egli agirebbe in virtù di un mandato senza rappresentanza. Torna utile, quindi la disciplina enucleata dall’art 1703 e ss. cc e, segnatamente, l’art 1705, alla cui stregua il mandatario che agisce in proprio nome acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi. Questi ultimi, soggiunge il secondo comma di tale disposizione normativa, non hanno alcun rapporto con il mandante, ma, tuttavia, lo stesso mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato. 

Ed è proprio evidenziando tale ultimo inciso che l’orientamento in esame prospetta la possibilità per il comproprietario non locatore (mandante) di sostituirsi al comproprietario locatore (mandatario), onde rivendicare i diritti di credito scaturenti dal contratto di locazione.

Ulteriore punctum dolens della fattispecie oggetto di indagine attiene all’estesibilità o meno delle azioni sperimentabili dal mandante: ci si chiede, invero, se la disposizione normativa in esame debba essere considerata norma di carattere eccezionale, in quanto tale di stretta interpretazione ovvero se la stessa disposizione normativa possa consentire al comproprietario non locatore (e comunque, in generale, ad ogni soggetto qualificabile come mandante) di promuovere, oltre le azioni a tutela dei “diritti di credito”, anche le relative azioni contrattuali, quali l’azione di nullità, annullabilità, rescissione e risarcimento danni.

La disamina analitica di tali contrapposti orientamenti esula certamente dall’economia della presente analisi, ma, in estrema sintesi, si ritiene che un cenno alla questione possa comunque giovare alla logica espositiva che si intende offrire: preme evidenziare, allora, che una tesi minoritaria, prendendo le mosse da un’asserita surrogazione del mandatante al madantario, rileva come il primo possa promuovere tutte le azioni esperibili dal mandatario, mentre, per converso, l’impostazione maggioritaria (fatta propria finanche, di recente, dalla Suprema Corte, nella sua massima espressione nomofilattica), prendendo le mosse dal dato letterale e dall’evidente connotazione di eccezionalità rivestita dalla disciplina de qua, conclude a favore di un’esegesi di stretta interpretazione di tale disposizione normativa e, quindi, per l’inammissibilità di ulteriori azioni che non siano attinenti ai “diritti di credito del mandante”.

Ne discende, secondo tale ricostruzione, che il comproprietario non locatore possa agire in giudizio, ex art 1705, secondo comma cc, in contraddittorio obbligatorio con il comproprietario locatore e con il conduttore, rivendicando, nei confronti di quest’ultimo, unicamente la propria quota parte relativa ai canoni di locazione, ancorchè, si badi bene, lo stesso conduttore abbia già provveduto a versarli per intero alla propria controparte negoziale.

Come dianzi esposto, nella fattispecie che ci occupa, non vi  è nel panorama accademico (e, quindi,  pretorio) unanimità di vedute in ordine alla disciplina applicabile; non mancano, invero, anche in relazione alla tematica in esame, gli indefettibili contrasti dottrinali che, talvolta, come è noto, animano, con stimolo ineguagliabile, l’elaborazione accademica ed operativa: alla tesi che propende per la diretta sussumibilità della fattispecie in esame nella sfera di disciplina di cui all’art 1703 e ss. cc, fa da contraltare quell’orientamento che, per converso, tende a ricondurla nell’orbita gravitazionale di cui agli artt. 2028 e ss. cc.

Il comproprietario locatore, quindi, stipulando il contratto di locazione con il conduttore si atteggerebbe come una sorta di gestore di affari altrui: donde la relativa applicazione della disciplina codicistica riferita a tale istituto.

Ora, ancorchè la questione assuma un indubbio fascino accademico, non pare potersi revocare in dubbio, però, come dal punto di vista sostanziale, nonchè pratico-operativo, nella specie, a prescindere da quali dei due orientamenti si intenda abbracciare, le conseguenze siano pressochè le medesime: l’art. 2030 cc, infatti, postula che il gestore sia soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato. Ed ecco, allora, che la stessa Corte di legittimità, proprio prendendo le mosse dalla predetta disposizione codicistica, conclude che, la fattispecie in esame, pur essendo inquadrabile, dal punto di vista dogmatico, nella disciplina relativa alla gestione di affari altrui, consente l’applicabilità dell’art. 1705, secondo comma cc.

Ne discende, come corollario logico-giuridico che, dal punto di vista squisitamente operativo, a prescindere, lo si ribadisce, da quale dei due orientamenti specifici si intenda abbracciare, il comproprietario non locatore (in qualità di mandante), in ogni caso, potrà comunque agire in giudizio e chiedere l’accertamento dei propri “diritti di credito”, ex art 1705, secondo comma cc.

Una differente soluzione operativa la si avrebbe, per converso, come si è già avuto modo di evidenziare nel corso della presente trattazione, nell’eventualità in cui si volesse accedere ad un’ulteriore ricostruzione: si allude, come è ovvio, alla tesi che, nella specie, propende per la non applicabilità né della disciplina del mandato senza rappresentanza, né della disciplina della negotiorum gestio. Tale prospettazione, muovendo dal principio della tutela del legittimo affidamento e dalla regola generale della relatività del contratto, intende, evidentemente, preservare funditus la posizione del conduttore eventualmente ignaro della non proprietà esclusiva della cosa locata: contro quest’ultimo, si assume, dal comproprietario non locatore non può essere vittoriosamente esperita alcuna azione processuale, ma nulla vieta allo stesso comproprietario non locatore di promuovere un giudizio risarcitorio nei confronti del comproprietario locatore, onde rivendicare, nei suoi confronti, la propria quota parte dei canoni di locazione ed eventuali danni non patrimoniali, sub specie di danni morali, ex art 2059 cc.

Milano, 17 marzo 2017

Calabrò Arles

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