Gli effetti del fallimento

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Le sezioni prima, seconda, terza e quarta del Capo III del Titolo II della legge fallimentare disciplinano rispettivamente gli effetti del fallimento per il fallito, per i creditori, sugli atti pregiudizievoli ai creditori e sui rapporti giuridici preesistenti.

L’articolo 42 della legge fallimentare è la prima norma che riguarda gli effetti del fallimento per il fallito, e recita testualmente:

“La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”.

Come si nota da questa norma, il fallimento produce degli effetti sia nel campo personale sia sulla sfera economica del fallito, oltre a questo, eventuali frutti che provengono da beni del fallito, saranno utilizzati dal curatore per il soddisfacimento dei creditori.

Questi effetti rientrano nel concetto di “spossessamento” e decorrono dalla data della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, il fallito perde così la disponibilità dei propri diritti patrimoniali.

Lo spossessamento colpisce anche i beni in possesso del fallito, ma di proprietà di terzi, i quali per recuperarli potranno richiedere, in sede fallimentare, la rivendicazione, la restituzione o la separazione.

Al contrario non vi sarà spossessamento per i beni del fallito che sono in possesso di terzi soggetti, salva la collaborazione di costoro.

In aggiunta gli effetti si protraggono anche per i beni ricevuti dal fallito durante il fallimento:

“Sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento…”

(a norma dell’ articolo 42 comma 2 della legge fallimentare).

La tutela e l’amministrazione dei beni del fallito è affidata al curatore che si sostituirà ad esso anche “nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale” (a norma dell’articolo 43 della legge fallimentare).

La perdita della disponibilità dei propri beni fa venire meno anche la possibilità di amministrare e decidere della sorte dei beni sul piano processuale.

Il fallito non è legittimato a intraprendere nuovi giudizi e il curatore dovrà subentrare a lui nei giudizi pendenti.

Il fallimento priva il fallito della disponibilità dei suoi beni fatta eccezione, per i beni previsti dall’articolo 46 della legge fallimentare in quanto considerati indispensabili per il fallito, cioè i diritti e i beni necessari al proprio sostentamento e a quello della propria famiglia:

Se dovesse essere necessario il giudice delegato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, può disporre per il fallito un assegno mensile a titolo di sussidio alimentare, per il sostentamento proprio e della propria famiglia (articolo 47 primo comma della legge fallimentare).

Altro significativo aspetto che deriva dal fallimento è rappresentato dalla perdita del segreto epistolare, disciplinato dall’articolo 48 della legge fallimentare, secondo il quale:

“Il fallito persona fisica è tenuto a consegnare al curatore la propria corrispondenza di ogni genere, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento.

La corrispondenza diretta al fallito che non sia persona fisica è consegnata al curatore.”

Questo articolo è stato modificato con la riforma del 2006, grazie alla quale, il curatore non solo può disporre dei documenti, cartacei ed elettronici, che riguardano l’attività passata del fallito, ma ha l’opportunità di seguire l’evoluzione e il cambiamanto del suo patrimonio e dell’impresa dal giorno della dichiarazione di fallimento in poi.

A differenza della norma, antecedente alla riforma, la corrispondenza non viene più consegnata al curatore che a sua volta consegnava le comunicazioni non attinenti alla dichiarazione di fallimento al fallito, ma è il fallito che, mantenendo il diritto alla corrispondenza, alla sua ricezione e alla sua disponibilità, ha il compito di consegnare tutto il materiale attinente il fallimento al curatore.

La nuova disciplina fallimentare prevede che il fallito sia tenuto “a comunicare al curatore ogni cambiamento della propria residenza o del proprio domicilio” (articolo 49 comma 1 della legge fallimentare); è stato eliminato quindi l’obbligo di dimora ed in caso “di legittimo impedimento o di altro giustificato motivo, il giudice può autorizzare l’imprenditore o il legale rappresentante della società o enti soggetti alla procedura di fallimento a comparire per mezzo di mandatario” a norma articolo 49 comma 3 della legge fallimentare.

Gli effetti del fallimento oltre che in capo al fallito si producono anche nei confronti dei creditori; tali effetti sono regolati dalla legge fallimentare nella Sezione II del Capo III, articoli dal 52 al 63.

Il primo effetto che deriva nei confronti dei creditori dalla dichiarazione di fallimento è rappresentato dal fatto che salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per crediti maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento.

La giurisprudenza è unanime nel ritenere l’impossibilita della prosecuzione di azioni di esecuzione per l’espropriazione, mentre sussistono ancora dei dubbi per quanto concerne l’esecuzione forzata concernente beni mobili o obblighi di fare.

Secondo l’articolo 52 della legge fallimentare, il fallimento “apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito”, con la conseguenza che questi per potersi soddisfare devono partecipare alla procedura fallimentare.

In questo modo il legislatore garantisce che coloro che vantano un credito, e partecipano alla procedura fallimentare, vengano soddisfatti in modo paritario dal fallimento.

Una volta dichiarato il fallimento, secondo l’articolo 55 comma 2 della legge fallimentare, i crediti si considerano esigibili, perché si considerano scaduti dalla data si dichiarazione di fallimento.

L’articolo 56 della legge fallimentare disciplina la “compensazione nel fallimento” disponendo che “i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento”.

Sulla base di questa disposizione i creditori riescono a sfuggire alla procedura fallimentare che certamente porterebbe loro un credito inferiore di quello vantato.

Il legislatore, per evitare frodi nei confronti dei creditori, con il comma 2 dell’art. 56 dispone che “per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore”.

Con la dichiarazione di fallimento, vista l’insufficienza del patrimonio del fallito, la tutela del credito cambia da una dimensione individuale a una collettiva.

Secondo l’articolo 2740 del codice civile il debitore risponde con tutti i suoi beni passati e futuri dell’adempimento delle obbligazioni.

Il debitore ha il dovere di conservare il proprio patrimonio, necessario per l’adempimento delle future obbligazioni, ma ciò non porta il debitore ad una limitazione o ad una mancata disponibilità del patrimonio stesso.

Il legislatore per introdurre una maggiore tutela nei confronti dei creditori, ha previsto nell’articolo 2901 del codice civile che “il creditore può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni”.

Questa norma è ripresa dalla legge fallimentare nell’articolo 66 prevedendo una tutela più dettagliata e particolareggiata.

L’articolo, prevede che “il curatore può chiedere che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile” (comma 1).

“L’azione si propone dinanzi al tribunale fallimentare, sia in confronto del contraente immediato, sia in confronto dei suoi aventi causa nei casi in cui sia proponibile contro costoro” (comma 2).

I beni che non sono più parte del patrimonio del fallito continuano a costituire una garanzia per i creditori.

La norma sulla revocatoria ordinaria (art. 2901 del codice civile) e quella sulla revocatoria fallimentare (articolo 67 della legge fallimentare) sono molto simili, ma divergono per alcuni aspetti:

nella revocatoria ordinaria l’onere della prova ricade sulla figura del curatore che è tenuto a provare che il credito che vantano i creditori era già sorto al momento del compimento dell’atto che si presume come pregiudizievole e che tale atto abbia effettivamente pregiudicato le garanzie dei creditori.

Se il credito è rappresentato da un bene successivamente oggetto di un contratto di vendita stipulato dall’acquirente in buona fede, il curatore non potrà chiedere la restituzione del bene all’acquirente, ma potrà promuovere un’azione risarcitoria nei confronti dall’alienante pari al valore del bene venduto.

Al contrario nella revocatoria fallimentare vi è la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza, sia del primo acquirente, sia degli acquirenti successivi e l’onore probatorio cade sulla figura dell’attore.

Sotto un altro profilo bisogna precisare che l’azione revocatoria va esercitata entro cinque anni con la distinzione che questo termine decorre dalla data dall’atto (articolo 2903 del codice civile) per quanto riguarda la revocatoria ordinaria, mentre per la revocatoria fallimentare sono revocabili atti compiuti dal fallito nei 6 mesi o un anno antecedenti alla dichiarazione di fallimento.

Dalla revocatoria deve essere distinta l’inefficacia ex legge che il legislatore prevede per gli atti a titolo gratuito e il pagamento di debiti non scaduti compiuti nei 2 anni prima della dichiarazione di fallimento.

Altra fattispecie particolare è disciplinata dall’articolo 73 della legge fallimentare, il quale si occupa della vendita con riserva di proprietà nel caso nel quale il compratore fallisca e il prezzo del bene debba essere pagato a termine o a rate.

Questa norma prevede che il venditore possa chiedere una cauzione a meno che il curatore non decida di pagare subito l’intero importo dovuto scontato degli interessi legali.

Il legislatore regola anche l’ipotesi della vendita di un bene mobile spedito prima della dichiarazione di fallimento ma non ancora a disposizione del fallito: a tal proposito la legge prevede che il venditore può rientrare in possesso del bene, addossandosi le eventuali spese e restituendo al fallito gli acconti ricevuti , sempre che “non preferisca dar corso al contratto facendo valere nel passivo il credito per il prezzo, o il curatore non intenda farsi consegnare la cosa pagandone il prezzo integrale” (articolo 75 della legge fallimentare).

In riferimento al contratto di affitto di azienda il fallimento non è una causa di scioglimento dello stesso, ma entrambe le parti possono recedere dal contratto entro 60 giorni corrispondendo all’altra parte un equo indennizzo che verrà determinato dal giudice delegato, a norma dell’articolo 79 della legge fallimentare.

Una disciplina simile è applicata anche al caso di contratto di locazione di immobile:

anche in questo caso il fallimento non scioglie il contratto di locazione ma se la durata del contratto ecceda i quattro anni dalla dichiarazione di fallimento, il curatore ha la possibilità, entro un anno dalla dichiarazione di fallimento, di recedere dal contratto, salvo il dover corrispondere un indennizzo per l’anticipato recesso che verrà sempre determinato dal giudice delegato. Il recesso non ha efficacia immediata, ma inizia a decorrere trascorsi i quattro anni dalla data di dichiarazione di fallimento, a norma dell’articolo 80 della legge fallimentare.

Altra fattispecie regolata dal codice è rappresentata dal contratto d’appalto. Si prevede in particolare che in caso di fallimento di una delle due parti, il contratto si considera sciolto se il curatore non dichiara entro sessanta giorni di voler subentrare nel rapporto dandone comunicazione all’altra parte e fornendo le garanzie necessarie per la prosecuzione dei lavori, a norma dell’articolo 81 della legge fallimentare.

Dott.ssa Concas Alessandra

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