Giudizio abbreviato condizionato (art. 438/5° c.p.p.): riaffermato il divieto di frazionabilita’ delle prove richieste.

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TRIBUNALE DI RIMINI
Ufficio dei Giudici dell’Udienza Preliminare
Ordinanza in materia di questioni processuali
 Il Giudice, valutate le argomentazioni svolte dai difensori degli imputati a sostegno delle rispettive richieste di assunzione di prove nell’ambito dello schema del giudizio abbreviato;
preso atto delle osservazioni dei difensori delle parti civili e del Pubblico Ministero;
esaminati i documenti prodotti,
osserva
Numerose pronunzie della Suprema Corte hanno contribuito a cristallizzare i criteri interpretativi corretti con cui applicare l’importante previsione del 5° comma dell’articolo 438 del codice di procedura penale. Non è un mistero che il controllo demandato al Giudice debba svolgersi in relazione ai caratteri della necessarietà della integrazione probatoria e quello della sua compatibilità con le finalità di economia processuale del rito. Come ha acutamente rilevato la sentenza n. 44711 del 27.10.2004 – 18.11.2004 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la prova sollecitata dall’imputato con la richiesta condizionata di accesso al rito, che deve essere integrativa e non sostitutiva rispetto al materiale già raccolto, presenta il connotato della necessarietà solo quando risulti …indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico e valutativo per la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della regiudicanda….
Per verità le attività istruttorie che i difensori degli imputati hanno posto come condizioni per l’accesso al rito non rispondono al parametro appena commentato: in primo luogo alcune di esse non paiono finalizzate ad un completamento oggettivo del quadro di conoscenze necessario per la decisione di merito, perché sono dirette a valorizzare unicamente elementi favorevoli alla impostazione difensiva degli imputati. In altri casi muovono da aspetti critici di valutazione della prova già raccolta, come tali perfettamente affrontabili nella sede più appropriata della discussione del merito delle accuse. A volte paiono risentire di una certa genericità e comunque di una ingiustificata ed indimostrata critica alla valenza degli elementi raccolti (come nel caso delle trascrizioni delle intercettazioni di conversazioni). Del resto in relazione proprio a tale tipo di richiesta la Suprema Corte più volte ha ribadito (ex multis si veda Sezione 6 Sentenza 4892 del 20.10.2003) che la trascrizione di intercettazioni è solo una operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite con la registrazione fonica, considerando valida la scelta del Giudice di non acconsentire alla ammissione di un giudizio abbreviato condizionato alla esecuzione delle trascrizioni medesime, ben potendo la parte far eseguire la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni, ascoltarle nella loro integralità, tradurle in lingua straniera ove necessario e, solo in caso di ragionevoli dubbi, criticare la conducenza dei risultati delle trasposizioni dei dialoghi operate dalla polizia giudiziaria chiedendo la effettuazione della trascrizioni con le garanzie del contraddittorio.
(Omissis)
Si osserva che questo Giudice accede all’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, Sezione 5, con la sentenza 15091 del 19.2.2003 in forza del quale non è consentito frazionare le richieste probatorie a cui le parti condizionano l’accesso al giudizio abbreviato perché in caso contrario si avrebbe una irrimediabile ed arbitraria incisione sulle strategie difensive dell’imputato.
RIGETTA
Le richieste di giudizio abbreviato condizionato avanzate dai difensori degli imputati all’udienza del 31 marzo 2006.
Rimini, 7 aprile 2006.
                                Il Giudice
Dottor Giacomo Gasparini
 
L’ordinanza, emessa in ambito di giudizio abbreviato condizionato, riferito ad un caso omicidiaria, che si annota, con il presente commento, sancisce due principi particolarmente significativi meritevoli di attenzione.
Il primo di questi attiene alla delimitazione dell’istituto dell’integrazione probatoria in relazione ai due criteri della necessarietà della prova rispetto alla decisione e della compatibilità della stessa con riferimento alle finalità di economia processuale.
Sul punto, va ricordato che sia la dottrina che la giurisprudenza hanno affermato, che per quanto riguarda il potere dell’imputato di richiedere una integrazione probatoria, non pare che il legislatore abbia posto limiti all’entità ed al tema dell’attività istruttoria.
Secondo FALATO, in Cass. Pen., 2001, 2734 (Il nuovo itinerario processuale di accesso-ascolto-decisione nel rito abbreviato), il problema circa l’entità dell’attività istruttoria è antico, in quanto è insorto un vivace dibattito dottrinario subito dopo la pronuncia della Corte costituzionale (sent. n. 92 del 1992, cit.) che faceva presagire un intervento immediato del legislatore.
Secondo alcuni, (Siracusano, Per una revisione del giudizio abbreviato, in questa rivista, 1994, p. 476, n. 324; in giurisprudenza Sez. II, 2 ottobre 1992, Russo, ivi, 1995, p. 110, n. 87). la stessa doveva consistere in una acquisizione documentale o comunque di circoscritte dimensioni; secondo altri (Mazza, I paradossi dell’attuale giudizio abbreviato e le prospettive di soluzione nel solco della delega, ivi, 1992, p. 1997, n. 1069, nonché, Nappi, Considerazioni sui presupposti del giudizio abbreviato, in Arch.n.proc.pen., 1995, p. 759) poteva concernere tanto temi probatori già affrontati, quanto temi non completamente sviluppati durante le indagini preliminari, quanto ancora temi del tutto nuovi.
Va, inoltre, rilevato che per parte della dottrina, il termine generico «integrazione probatoria», utilizzato dal legislatore nella nuova formulazione dell’art. 438 comma 5 c.p.p., ricomprenderebbe anche i mezzi di ricerca della prova di cui al titolo II del libro III del codice (così, Bricchetti, Sì all’abbreviato anche senza il consenso del pubblico ministero, in Guida dir., 2000, n. 1, p. LXII, nonché Negri, Il «nuovo» giudizio abbreviato, cit., p. 478).
E’, comunque, certo ed incontroverso che, come affermato dal Riccio[1], l’evoluzione normativa del rito fa venir meno la caratteristica peculiare dell’istituto, e cioè quello di essere un giudizio a “prova bloccata”.
Consegue, quindi, che risulta essere rimessa al diritto vivente l’individuazione della portata di tali acquisizioni; unico limite è quello che comunque non venga meno il rapporto col thema probandum, con l’attività di indagine già svolta e che le acquisizioni de quibus siano soltanto integrative e non sostitutive dell’attività di indagine[2].
Ergo viene introdotta una precisa equazione procedimentale fra PRINCIPIO DI ECONOMIA PROCESSUALE e COLLEGAMENTO CON IL THEMA DECIDENDUM.
In giurisprudenza si è, anche, affermata la necessità che l’integrazione probatoria debba rispondere al carattere della novità, intendendo in tal modouna prova assolutamente inedita al panorama delineatosi in precedenza durante le indagini preliminari o durante la stessa udienza preliminare.
In buona sostanza un quid novi assoluto.
Una rigorosa esegesi del testo normativo, però, deve portare ad escludere che il requisito della “novità” possa ricavarsi dal testo letterale comma 5° dell’art. 438 c.p.p., il quale – invece – privilegia decisamente l’elemento della necessità della prova rispetto alla decisione e della compatibilità della stessa con la finalità di economia processuale propria del procedimento e non fa menzione neppure implicitamente di tale ulteriore parametro valutativo.
Si tratta, pertanto, di due elementi affatto diversi e per nulla confondibili con il concetto di novità, che taluno interprete ha ritenuto pertinente ed adattabile alla disposizione di cui all’art. 438 comma 5° c.p.p. ..
Anzi, i due criteri paradigmatici rispondono – da un lato – al principio della pertinenza della prova al fatto da valutare ed alle sue circostanze, nel senso che la prova non può affatto debordare (od esorbitare immotivatamente) i limiti del processo, investendo vicende allo stesso estranee e scollegate.
L’ordinanza, infatti, opera chiaro riferimento alla sentenza n. 44711 del 27.10.2004 – 18.11.2004 (Sezioni Unite della Corte di Cassazione), che, in relazione al requisito della necessarietà ha sostenuto che la prova deve apparire “…indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico e valutativo per la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della regiudicanda”.
Deriva, pertanto, che nulla vieta che la prova richiesta sia nuova, ma altrettanto nulla (e tanto meno giurisprudenza) impone che tra i requisiti costitutivi l’istituto rientri a pena di inammissibilità dell’integrazione richiesta quello della novità, così come individuata.
Il concetto di novità può essere inteso solo ed esclusivamente come intraneo a quella di necessarietà, laddove si deve ritenere che è divieto evidente quella della richiesta di riassunzione di una prova già acquisita in precedenza.
Vale a dire che l’ordinamento nega dignità di prova decisiva da assumere e porre a condizione del rito alternativo a quelle integrazione che risultino mere, pedisseque ed acritiche riproposizioni di attività già svolte, in quanto si vuole – tra l’altro – evitare il ricorso a strategie meramente dilatorie e, comunque, disarmoniche rispetto al fine di assumere una prova che si conformi al principio della completamento e perfezionamento del materiale delibativo già assunto.
Da altro lato, il criterio della compatibilità con la finalità di economia processuale appare parametro elastico ed impostato su base relativistica.
Il giudice, infatti, deve comparare, infatti, l’apporto probatorio che la parte richiede, con la portata e l’ampiezza dei temi che investono del processo, la gravità delle accuse mosse, la posizione processuale del richiedente in relazione proprio ai fatti contestati.
E’ evidente, quindi, che se si può sostenere che, ad esempio, confligge con il criterio dell’economia processuale, l’assunzione di sei testimoni per dimostrare che un soggetto accusato di guida in stato di ebbrezza, era sobrio all’atto della verifica, non potrà certo apparire inutilmente dilatorio od eccedente i limiti procedimentali il volere escutere più testi in un caso omicidiario dove l’imputato, accusato di essere il mandante del reato, ha protestato la sua innocenza e dove esistono moventi alternativi a quello prospettato.
Né si può seriamente sostenere che il termine novità, possa essere mutuato dal disposto dell’art. 441 bis comma 5° c.p.p..
La ratio di tale norma, infatti, deriva dal fatto che – a fronte della richiesta di integrazione avanzata dall’imputato – il P.M. attivi il proprio diritto alla controprova e che, a seguito di questa ultima scelta, consegua la modifica dell’imputazione ai sensi dell’art. 423 co. 1 c.p.p..
Nello specifico si deve osservare che la Suprema Corte di Cassazione, Sez. VI, con la sentenza 8/04/2003, Bonasera[3], ha esattamente affermato il principio negativo del requisito della novità.
Il Collegio di legittimità, nella fattispecie ha condiviso la reiezione di un’integrazione probatoria «selettiva», finalizzata non ad un completamento oggettivamente necessario del materiale probatorio, ma ad una unilaterale valorizzazione dei soli elementi favorevoli a sorreggere l’impostazione difensiva dell’imputato, con ciò affermando che la prova richiesta ex art. 438 comma 5° c.p.p. può tranquillamente porsi in correlazione complementare con altra prova già acquisita.
Il limite naturale delle ulteriori acquisizioni probatorie, è stato posto, quindi, nel senso che esse debbano essere soltanto integrative, non sostitutive, del materiale già acquisito ed utilizzabile come base cognitiva, ponendosi, siccome circoscritte e strumentali ai fini della decisione di merito, quale essenziale e indefettibile supporto logico della stessa.
Ne consegue che, per l’identificazione del carattere di “necessità” della integrazione probatoria richiesta, debba farsi riferimento ad un titolo specifico della prova, più stringente di quella provvista dei tradizionali requisiti di pertinenza/rilevanza e non superfluità previsti dall’articolo 190.1 del codice di rito, a norma del quale il giudice può escludere solo “le prove vietato dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue e irrilevanti”.
Annotando la massima che precede, ANSELMI[4], ha ribadito che il canone discretivo principale, sancito dall’art. 438/5° è quello della «necessità ai fini della decisione», pur nella generale elasticità dei criteri ai quali si ancora la valutazione del giudice a fronte della richiesta di un’integrazione probatoria avanzata dall’imputato che opti per il rito abbreviato condizionato.
Esso viene uniformemente interpretato come riguardante «quelle prove che il giudice reputa rilevanti per poter pervenire ad una decisione completa della regiudicanda»[5].
Nello stesso senso va segnalato NEGRI[6]187 c.p.p..,il quale identifica la necessarietà della prova con la sua decisività, in ordine a quegli aspetti già oggetto di indagine, e con la sua pertinenza-rilevanza-non superfluità quando si tratti delle altre questioni previste dall’art.
Altro autore, l’ORLANDI[7], ravvisa nel concetto in questione, sia quello di pertinenza al thema probandum (art. 187, 1° comma, c.p.p.), che l’idea di non superfluità della prova richiesta (art. 190, 1° comma, c.p.p.).
Deriva, per l’ennesima volta che il concetto di novità appare frutto di una elaborazione che forza abnormemente il dato normativo testuale.
Sul punto è ritornata anche la Sez. III, della corte di Cassazione, con la pronuncia 21/10/2004, n.219, Izzo C. Bertelli[8], che fissa i termini ermeneutici della vexata quaestio.
Sostiene, in fatti, il Collegio che “Ai sensi del comma 5 dell’articolo 438 del c.p.p., il giudice dell’udienza preliminare deve disporre il giudizio abbreviato "condizionato" solo in presenza di due requisiti dell’integrazione probatoria richiesta: la sua "necessità" ai fini del giudizio finale sull’imputazione e la sua "compatibilità " con le finalità di economia processuale proprie del rito abbreviato. Per verificare il secondo requisito (quello della compatibilità con il rito speciale), il giudice deve valutare la complessità qualitativa e quantitativa non solo delle prove richieste dall’imputato, ma anche di quelle a controprova che presumibilmente il pubblico ministero sarà indotto a chiedere. Infatti, atteso il diritto alla controprova specificamente attribuito al pubblico ministero nel comma 5 dell’articolo 438, la complessità istruttoria del giudizio abbreviato condizionatamente richiesto dall’imputato deve essere valutata in relazione a tutti i mezzi di prova richiesti o legittimamente richiedibili dalle parti, giacché la concreta laboriosità dell’istruttoria che può renderla incompatibile con la finalità di economia processuale propria del giudizio abbreviato dipende anche dai mezzi di controprova che il pubblico ministero ha diritto di far assumere a fronte della richiesta probatoria dell’imputato”.
La massima che precede si armonizza con l’intervento interpretativo operato dalla Consulta con la sentenza n. 115/2001, che ha stabilito come il nuovo giudizio abbreviato condizionato vada posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina, né con il giudizio abbreviato “puro”, accompagnato dalla mera eventualità di integrazione probatoria disposta ex officio.
Il Giudice delle leggi ha affermato, infatti, che nei casi in cui risulta necessario procedere ad una integrazione probatoria, anche se consistente” (qualitativamente o quantitativamente) non è revocabile in dubbio la circostanza che il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto alla più onerosa formazione della prova in dibattimento.
Viene così esaltato il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario, elemento che continua ad essere un carattere essenziale del rito alternativo.
Il valore probante dell’elemento da acquisire, cui fa riferimento l’art. 438/5 c.p.p. va sussunto, quindi, sia nell’oggettiva e sicura utilità e idoneità del probabile risultato probatorio volto ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, sia nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all’articolo 187 c.p.p..
Consegue che la doverosità dell’ammissione della richiesta integrazione probatoria ne riflette il connotato di indispensabilità ai fini della decisione e trova il suo limite nella circostanza che un qualsiasi aspetto di rilievo della regiudicanda non rimanga privo di solido e decisivo supporto logico-valutativo.
Per quanto concerne il secondo requisito – l’economia processuale – è costante l’orientamento dottrinale teso a denunciare la pressoché assoluta indeterminatezza del requisito della compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, il quale, disancorato da parametri oggettivi idonei ad assicurare un trattamento uniforme nelle diverse circoscrizioni giudiziarie, si presta ad irragionevoli disparità nell’accoglimento delle richieste e, di riflesso, nell’irrogazione delle pene, in violazione dell’art. 3 Cost.[9].
Da ultimo va spesa una fugace notazione in rapporto al principio costituzionale del giusto processo introdotto con la modifica dell’art. 111 Cost..
Escludere la possibilità di arricchire probatoriamente il rito alternativo in questione, significa precludere all’imputato (ove sia verificata la pertinenza della prova al thema decidendum e la non superfluità della stessa), la possibilità di esercitare il principio del difendersi provando.
Allegando specifiche richieste probatorie, l’imputato – infatti – mira a valorizzare le stesse, ma anche a colmare gap fisiologici propri della struttura accusatoria del procedimento.
Si pensi, in primo luogo, al fatto che taluni testi siano stati escussi dal P.M. o dalla Polizia Giudiziaria, nel segreto delle Caserme o degli Uffici, senza – comunque – che si sia paventato, neppure, il più pallido accenno di contraddittorio, cioè senza che la difesa abbia mai potuto interloquire e controinterrogare i testi.
Come si può seriamente sostenere che sia inutile (o difforme dai principi costituzionali in materia) riconoscere quel quid minimum di parità tra le parti, che permette alla difesa di interrogare il teste, già escusso dall’accusa?
Vale a dire che la scelta difensiva di evitare il dibattimento non può essere forma di penalizzazione dell’imputato.
Chi scrive non ignora che la Corte di Cassazione, Sez. II, 23/01/2003, n.11768, Albergoni[10], ebbe a rigettare una questione di costituzionalità, sollevata in riferimento all’art. 111 della Costituzione, dell’art. 438 c.p.p., comma 5; ciò non di meno non si può affermare tout–court che sia accettabile la compressione del diritto di difesa dell’imputato, anche se tale limite non pare assurgere a vertici di incostituzionalità.
Nel merito si deve affermare che tutte le prove richieste, pur nella loro autonomia, indipendenza ed alternatività, appaiono intimamente connesse con la vicenda procedimentale.
Il secondo profilo riguarda il cd. divieto di frazionabilità della prova.
Ritiene il G.U.P. che, nell’ipotesi che l’integrazione probatoria consista di una pluralità di elementi probatori, la decisione in ordine alla richiesta debba involgere la stessa nella sua globalità, in quanto non è possibile operare una selezione delle prove richieste, ammettendo (pur con il consenso espresso della parte) alcune e negandone altre.
In buona sostanza, in relazione alla specifica ipotesi, si afferma su tale abbrivio un principio di assoluta unitarietà ed interdipendenza delle prove che vengono avanzate a condizionamento del rito abbreviato, anche nel caso in cui la parte istante abbia precisato la natura autonoma di ciascun accertamento.
Si adduce, inoltre, il rilievo che la asserita inscindibilità del rito previsto dall’art. 438/5° c.p.p., dovrebbe indurre esclusivamente all’adozione del normale rito a prova contratta.
Si tratta di un’interpretazione soggettiva, apodittica e suggestiva resa dall’accusa, che non può meritare giudizio di favore.
La natura del giudizio abbreviato, secondo l’art. 438/5° c.p.p., induce a ritenere che il condizionamento probatorio, che la parte imputata possa richiedere al giudice, attenga a singole prove, tra loro diverse sotto ogni profilo, naturalistico, ontologico e giuridico, le quali non perdono – ancorchè proposte globalmente – la loro individualità e la loro autonomia.
Va, infatti, sottolineato che il testo codicistico indica, utilizzando il singolare, il termine “integrazione probatoria” e solo apparentemente sembra operare riferimento ad una unica integrazione probatoria.
Se, infatti, si volesse dare corso ad un’interpretazione strettamente lessicale (ma largamente distorta sul piano logico-giuridico), si dovrebbe ricavare la inammissibile ed irragionevole conseguenza processuale, che il legislatore con la locuzione usata avrebbe riformato il rito, onde ammettere la possibilità di richiedere una sola prova integrativa o che, in presenza di pluralità di prove richieste, ha omologato le stesse, senza dare corso a quella minima doverosa delibazione in ordine al fine che ciascuna di esse persegue.
Si tratterebbe, così, di una ricostruzione che snaturerebbe la struttura dommatica dell’istituto e che creerebbe notevoli difficoltà interpretative, favorendo l’introduzione di parametri astratti, ponendo un ulteriore ed indebito carico valutativo in capo al giudice e favorendo la proliferazione di soluzioni contraddittorie ed ingiuste.
Si pensi alla richiesta di esame di più testi, o di audizione di più coimputati, oppure di plurimi accertamenti di natura tecnica o peritale.
Come si dovrebbe comportare il giudice? Dovrebbe considerare ogni richiesta come costituente un’integrazione e, quindi, dovrebbe ammetterne una sola? Con quale criterio dovrebbe esplicitare la propria preferenza?
Non sarebbe né tollerabile, né – tanto meno – ragionevole, comprimere in modo abnorme il diritto di difesa, circoscrivendolo, in base ad un mero quanto ingiustificato criterio quantitativo.
In realtà, appare evidente che il tenore filologico dell’art. 438 comma 5° non può subire distorsioni di natura ermeneutica.
In realtà si è fatto preciso ricorso alla locuzione “integrazione probatoria”, per creare, così, una categoria giuridica all’interno della quale vengono ricomprese – alternativamente, ma anche contestualmente – tutte le ipotesi probatorie che si prospettano unitariamente al giudice.
Se, pertanto, l’integrazione probatoria funge da contenitore procedimentale nel quale fare confluire le istanze di supplemento investigativo avanzate dall’imputato appare evidente che tra essa e le singole richieste intercorre un rapporto di genus ad speciem.
Consegue, pertanto, che l’istituto processuale in questione, invece, favorisce e mantiene integra la parcellizzazione della singola prova, nel rispetto dell’autonomia, indipendenza e tassatività della stessa rispetto ad altre.
Si dice, inoltre, che il frazionamento della prova comporterebbe “una irrimediabile ed arbitraria incisione sulle strategie difensive dell’imputato”.
Si tratta di un falso scrupolo giurisprudenziale.
Va, infatti, ricordato che il rito di cui all’art. 438/5° si pone come tertius genus rispetto all’abbreviato ordinario e al dibattimento.
Or bene, se è vero che il rito in questione occhieggia caratteristiche proprie del dibattimento (e l’acquisizione di prove è argomento significativo in tal senso) si deve rilevare come il regime delle prove dibattimentali regolato dall’art. 468 c.p.p. non presenta aspetti di valutazione vincolata, in quanto il giudice seleziona nel modo più ampio possibile tutte le prove richieste dalle parti.
Consegue, pertanto, che, una volta che il legislatore ha tratteggiato i limiti dell’istituto dell’integrazione probatoria, appare chiara forzatura interpretativa quella che imponga lacci o laccioli ad un dato ermeneutico di una chiarezza, assai rara in altri casi.
Introdurre il principio del cd. divieto di frazionamento della prova, significa contraddire, quindi, il regime probatorio generale (all’interno del quale va ricompreso anche l’istituto dell’incidente probatorio) in base al quale non si rileva alcun vulnus del diritto o della strategia della difesa, attraverso lo scrutinio delle prove istate e l’eventuale non ammissione di talune di esse.
Non è condivisibile, quindi, il giudizio di interdipendenza di mezzi di prova tra loro, in realtà del tutto differenti tra loro, la quale da corpo ad un assimilazione indebita degli stessi, cagionando la violazione del relativo principio di tassatività ed autonomia.
La ragione in base alla quale il legislatore si è determinato all’utilizzo della locuzione (al singolare) “integrazione probatoria” trova, altresì, evidente giustificazione nel fatto che la struttura del rito è stata concepita per cristallizzare il diritto alla richiesta di prova suppletiva in un unico momento processuale, antecedente ogni ulteriore attività.
Si è inteso, infatti, evitare l’atomizzazione della fase di scelta del rito (ed eventuale prospettazione probatoria di sostegno), stabilendo, quindi, che l’attività di indicazione e di acquisizione tutti gli elementi di ulteriore approfondimento che la difesa chiede acquisirsi pur nel giudizio abbreviato, venga svolta ed esaurita in un unico contesto, cui deve seguire la decisione del giudice, salva la ripetibilità della richiesta ex comma 6° dell’art. 438 c.p.p. .
In buona sostanza, lo spirito della novella introdotta dalla L. 479 del 1999 (Carotti) si pone nel senso che il diritto alla richiesta di tutte le prove, alle quali si intende condizionare il rito alternativo, va esercitato in un unico contesto temporale, senza rinvii o differimenti, onde permettere al giudice di esprimersi non in forma rateale, quanto piuttosto con un singolo provvedimento.
Non va, pertanto, confusa l’unitarietà della fase procedimentale sin qui descritta, che è dato gnoseologico e giuridico di chiara evidenza, con una presunta unitarietà ed interdipendenza delle prove richieste in tale modo, che è, invece, postulato privo di qualsivoglia dimostrazione e frutto di convincimenti soggettivi.
D’altronde, da ultimo, giovi osservare come il concetto di indipendenza delle prove appaia impermeabile ad ogni critica.
Si deve, infatti, osservare che, ad esempio ove si chieda quale integrazione, allo stesso tempo che si dia corso all’audizione di testi, all’escussione di coimputati, alla trascrizione di conversazioni telefoniche od ambientali, non è revocabile in dubbio la eterogeneità giuridica e naturalistica dei tali mezzi dimostrativi indicati, (i quali appartengono a categorie tra loro affatto diverse), la quale preclude ogni possibilità di valutare gli stessi globalmente.
Allo stesso modo l’eventuale non ammissione (id est reiezione) di uno di essi non può affatto condizionare l’eventuale ammissione di altri diversi da quello non accolto.
Come si possa, quindi, affermare la omogeneità fra prova dichiarativa e prova documentale, non è, infatti, dato sapersi.
Avv. Carlo Alberto Zaina
 


[1] I procedimenti speciali, in Conso-Grevi, Profili del nuovo codice di procedura penale, Cedam, 1997
[2] Nappi, Guida al codice di procedura penale, 7ª ed., Giuffrè, 2001, p. 495.
 
[3] in Giur. It., 2004, 2161, nota di ANSELMI
[4] in Giur. It., 2004, 2162
[5] Aprile, Gli esiti alternativi del giudizio: la negoziazione sul rito, sulla prova e sulla pena, in Cass. Pen., 2000, 3516
[6] Il «nuovo» giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie e finalità di economia processuale, in AA. VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di Peroni, Padova, 2000, 479
[7] Procedimenti speciali, in AA. VV., Compendio di procedura penale, a cura di Conso-Grevi, Padova, 2003, 585. Si distingue nela variegato quadro dottrinale il Potetti, (Mutazioni del giudizio abbreviato) che afferma come in particolare il giudizio abbreviato condizionato (art. 438, comma 5 c.p.p.), fa riferimento alla decisività della prova, «ossia alla sua sicura concludenza, e cioè alla sua immediata capacità di risolvere una questione essenziale del processo».
[8] Guida al Diritto, 2005, 6, 92
 
[9] Apa, Note in ordine ad alcuni profili di costituzionalità connessi al giudizio abbreviato, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2002, 1306 e segg.; Cordero, Procedura penale, 5ª ed., Milano, 2000, 985; Frigo, Dietro la miniriforma della legge Carotti si nasconde un’inutile ortopedia legislativa, in Guida al Dir., 2000, n. 22, 13; Lozzi, Il giudizio abbreviato, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2000, 464 e segg.; Negri, op. cit., 480, il quale dubita, altresì, della legittimità costituzionale del criterio dell’economia processuale per contrasto ex art. 111, 3° comma, Cost., nella parte in cui stabilisce che «la legge assicura che la persona accusata di un reato… abbia la facoltà… di ottenere… l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore…»; Orlandi, op. cit., 585; Potetti, op. cit., 337 e segg.
[10] Arch. Nuova Proc. Pen., 2004, 235, Riv. Pen., 2004

Zaina Carlo Alberto

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