Geolocalizzazione dei lavoratori: pronuncia CGUE

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La geolocalizzazione dei lavoratori: la corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sul licenziamento di un dipendente.
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Indice

1. La geolocalizzazione dei dipendenti


La posizione dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali sulla geolocalizzazione dei mezzi aziendali è sempre stata piuttosto intransigente, in linea con la legge 300/1970 che vieta il controllo dei lavoratori a distanza.
A seguito di una serie di interventi sul tema, si potrebbero riassumere come segue le indicazioni sulle precauzioni e cautele da adottare nel caso in cui una società utilizzi mezzi aziendali con installati a bordo sistemi di geolocalizzazione (per finalità di tutela del patrimonio aziendale).

  • La geolocalizzazione dei mezzi guidati dal personale aziendale è ammessa solo al fine di garantire la sicurezza dei veicoli e l’ottimizzazione dei carichi di lavoro;
  • Sui dispositivi che geolocalizzano è necessaria la presenza di un’icona che indichi quando la localizzazione è attiva;
  • La geolocalizzazione deve essere disattivata durante le pause (pranzo e altre pause lavorative contrattuali) informando i dipendenti dei casi in cui è consentito disattivare il GPS.;

A seguito dell’entrata in vigore del GDPR, poi, il 25 maggio 2018, il Garante ha ulteriormente affinato le richieste in materia di geolocalizzazione, aggiungendo ai requisiti richiesti dai sistemi il rispetto del principio di minimizzazione, in ossequio al principio di privacy by design e by default sancito dal Reg. UE 679/2016.
Ebbene, in completa controtendenza rispetto a questo approccio intransigente del Garante Italiano sull’utilizzo dei sistemi di controllo e monitoraggio quando questi possano incidere sul rispetto della dignità del lavoratore o della sua sfera privata, è intervenuta, di recente, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha rivoltato le carte in tavola, stabilendo che il licenziamento intimato al dipendente da parte del datore di lavoro, basato sulle risultanze del sistema di geolocalizzazione GPS dell’auto aziendale in uso al dipendente, è legittimo e la raccolta e il trattamento dei relativi dati non comportano una violazione dei diritti del lavoratore come sanciti dalla Convenzione dei Diritti dell’Uomo.
Si tratta della sentenza pronunciata in seguito alla domanda n. 26968/16 e depositata il 13 dicembre 2022 (caso Florindo de Almeida Vasconcelos Gramaxo v. Portogallo) che oltre ad aver giudicato legittimo il licenziamento di un dipendente, deciso a causa dei dati ottenuti attraverso la localizzazione dell’auto aziendale, ha anche analizzato il tipo e il livello di sorveglianza “accettabile” da parte di un datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, fissando i criteri per il giusto bilanciamento tra diritto del lavoratore al rispetto della sua vita privata e le prerogative del datore di lavoro in termini di controllo sul corretto impiego dei beni aziendali; ha altresì affrontato la questione della necessità di preservare la privacy individuale in un contesto professionale.


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2. Il caso


Il caso riguarda il licenziamento di un informatore scientifico di un’azienda farmaceutica portoghese, che aveva assegnato al proprio dipendente, a causa della mobilità che il lavoro comportava, un’auto ad uso promiscuo.
A distanza di tempo, sull’auto era stato installato un sistema GPS e in seguito ad un controllo dei dati raccolti da questo, era emerso che il dipendente aveva manomesso il funzionamento del sistema per far risultare un impiego del mezzo per motivi di lavoro superiore a quello effettivo e un impiego per motivi privati inferiore, al fine di ridurre i costi a proprio carico e per questo era stato licenziato.
Il dipendente ha così impugnato il provvedimento, ma dall’istruttoria del procedimento conseguente era emerso che l’azienda aveva chiaramente informato i dipendenti dell’installazione del dispositivo di localizzazione e che la finalità perseguita dall’implementazione di questo era legata sia alla sicurezza del veicolo e dei suoi passeggeri sia al controllo dei chilometri percorsi per la corretta contabilizzazione delle spese aziendali.
L’azienda aveva altresì ben chiarito che la discrasia fra i dati rilevati dal sistema GPS e quelli rilevati dai dipendenti avrebbe portato all’apertura di un procedimento disciplinare.
Sia in primo grado che in appello, i giudici hanno dato torto al dipendente che, esauriti i rimedi interni ha adito la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sostenendo che il trattamento dei dati di geolocalizzazione raccolti dal dispositivo GPS che il suo datore di lavoro aveva installato sull’auto aziendale e il fatto che tali dati avessero costituito la base per il suo licenziamento, e quindi la perdita della maggior parte dei mezzi di sostentamento della sua famiglia, avevano violato il suo diritto al rispetto della vita privata ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Il dipendente ha lamentato altresì la violazione dell’art. 6 (diritto a un giusto processo) poiché le decisioni dei giudici di primo grado si erano basate sui dati raccolti dal dispositivo GPS, prova che il ricorrente riteneva illecita e, dunque, non utilizzabile in sede processuale.
La Corte ha però ricordato i principi generali relativi all’applicabilità dell’articolo 8 in un contesto lavorativo e ha ribadito che «se lo scopo dell’articolo 8 è essenzialmente quello di proteggere l’individuo da interferenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche, esso non si limita a richiedere allo Stato di astenersi da tali interferenze: oltre a questo obbligo negativo, possono esistere obblighi positivi inerenti al rispetto effettivo della vita privata o familiare. Tali obblighi possono richiedere l’adozione di misure volte al rispetto della vita privata anche nelle relazioni tra individui. La responsabilità dello Stato può quindi essere chiamata in causa se gli atti in questione derivano dall’incapacità di garantire agli interessati il godimento dei diritti sanciti dall’articolo 8 della Convenzione».
Ha poi affermato che il rispetto di questi obblighi imposti dall’art. 8 richiede che lo Stato adotti un quadro normativo a tutela del diritto in questione.
E per quel che concerne il tema della sorveglianza dei lavoratori sui luoghi di lavoro, gli Stati possono scegliere se munirsi o meno di una legislazione ad hoc, ma «spetta ai tribunali nazionali garantire che l’introduzione da parte di un datore di lavoro di misure di sorveglianza che incidono sul diritto alla vita privata sia proporzionata e accompagnata da garanzie adeguate e sufficienti contro gli abusi».
Nel caso di specie il giudice portoghese – ha rilevato la Corte EDU – ha effettivamente bilanciato il diritto del lavoratore al rispetto della sua vita privata con il diritto del datore di lavoro di garantire il corretto funzionamento dell’azienda e la corretta contabilizzazione delle spese.
La Corte EDU ha quindi concluso che i giudici nazionali hanno adempiuto all’obbligo di tutelare il diritto del dipendente al rispetto della sua vita privata.
La Corte ha poi fornito una serie di indici di cui i giudici nazionali devono tenere conto per bilanciare correttamente gli interessi in gioco:
(i) Il lavoratore è stato informato della possibilità che il datore di lavoro adotti misure di sorveglianza e dell’introduzione di tali misure? L’informazione sulla natura della sorveglianza dovrebbe essere chiara e fornita prima della sua attuazione.
ii) Qual è stata la portata della sorveglianza del datore di lavoro e il grado di intrusione nella vita privata del dipendente? Occorre valutare la privacy del luogo in cui avviene la sorveglianza, i limiti spaziali e temporali della sorveglianza e il numero di persone che hanno accesso ai dati relativi alla sorveglianza.
iii) Il datore di lavoro ha giustificato l’uso della sorveglianza e la portata della stessa per motivi legittimi? Più è intrusiva, più le motivazioni alla base della sorveglianza devono essere serie.
iv) Era possibile istituire un sistema di sorveglianza basato su mezzi e misure meno intrusivi? Ovvero l’obiettivo perseguito dal datore di lavoro avrebbe potuti essere raggiunto con una minore ingerenza nella vita privata del dipendente?
v) Quali sono state le conseguenze della sorveglianza per il dipendente che vi è stato sottoposto? Cioè come il datore di lavoro utilizza i risultati della misura di sorveglianza e se questi siano serviti allo scopo dichiarato della misura.
vi) Sono state fornite adeguate garanzie al dipendente?
A questo proposito, la Corte EDU ha osservato innanzitutto che i giudici nazionali hanno correttamente identificato gli interessi in gioco: da un lato, al diritto del ricorrente al rispetto della sua vita privata e, dall’altro, al diritto del suo datore di lavoro di controllare le spese derivanti dall’uso dei veicoli affidati ai suoi dipendenti.
La Corte ha poi accertato che il ricorrente fosse stato informato dell’istallazione sul veicolo che gli era stato fornito, del dispositivo GPS: questi, infatti, aveva firmato un’informativa che la società aveva inviato ai dipendenti interessati sulle ragioni di questa misura e sulle conseguenze disciplinari in caso di condotte illecite. Nessun dubbio, quindi poteva sorgere, sul fatto che il dipendente fosse a conoscenza dell’installazione del sistema GPS atto a monitorare i chilometri percorsi.
In secondo luogo, la Corte ha osservato che il ricorrente è stato licenziato dal suo datore di lavoro sia per aver aumentato il numero di chilometri percorsi per motivi di lavoro al fine di nascondere i chilometri percorsi per scopi privati e per non aver rispettato gli obblighi di orario di lavoro, sia per aver ostacolato il funzionamento del sistema GPS.
La Corte ha inoltre ritenuto che, conservando solo i dati di geolocalizzazione relativi al chilometraggio percorso, la portata dell’intrusione nella vita privata del ricorrente si sia ridotta a quanto strettamente necessario per lo scopo legittimo perseguito, ossia il controllo delle spese aziendali.
La diffusione di questi dati è stata poi limitata ai responsabili dell’assegnazione e dell’approvazione delle visite e delle spese.
Per questi motivi la Corte ha ritenuto che non vi sia stata alcuna violazione né dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, né dell’art. 6.
Questa decisione della Corte EDU si iscrive fra i precedenti più importanti in tema di controllo del dipendente tramite sistemi di geolocalizzazione e fissa i criteri per il giusto bilanciamento tra il diritto del lavoratore al rispetto della sua vita privata e le prerogative dell’impresa. Ne deriva che né le Autorità Garanti nazionali, né i Tribunali degli Stati membri potranno ignorarla, con possibili aperture per orientamenti simili anche nel nostro Paese.

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Avv. Luisa Di Giacomo

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