Spunti da un procedimento penale a carico del Presidente della regione Puglia.
Indice
1. Il procedimento penale a carico del Presidente della regione Puglia
Nell’ambito di un procedimento penale a carico del Presidente della Giunta Regionale pugliese Michele Emiliano, in data 31 marzo 2023, il Pubblico Ministero della Procura della Repubblica di Torino ha chiesto la condanna alla pena di un anno di reclusione per il Governatore della Puglia e per il deputato del PD Claudio Stefanazzi, suo ex capo di gabinetto e otto mesi per gli imprenditori Vito Ladisa e Giacomo Mescia per un presunto finanziamento illecito durante la campagna per le primarie nazionali del PD risalente al 2017. La fattispecie riguarda due fatture dell’importo complessivo di 65 mila euro versate dai due imprenditori a processo in favore della Società di comunicazione torinese Eggers di Pietro Dotti che si occupò della campagna elettorale per le primarie. Secondo la procura torinese, i citati imprenditori effettuarono quei versamenti al posto di Emiliano.
In realtà l’inchiesta pugliese ipotizzava anche i reati di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e induzione a dare o promettere utilità (art. 319-quater c.p.), poi derubricato dall’inquirente piemontese nella violazione in concorso delle norme sul finanziamento pubblico ai partiti.
Con sentenza del 4 maggio 2023 Michele Emiliano, è stato assolto dall’accusa di finanziamento illecito ai partiti per non aver commesso il fatto. Il giudice torinese Alessandra Salvadori ha invece condannato l’imprenditore barese Vito Ladisa e l’ex capo di gabinetto della Regione Claudio Stefanazzi, oggi deputato del Partito democratico, a quattro mesi di reclusione e 20mila euro di multa. Assolto, invece, anche l’imprenditore foggiano Giacomo Mescia, per il quale erano stati chiesti dal giudice inquirente otto mesi.
Lo stesso giudice, tuttavia, ha disposto la trasmissione delle motivazioni della sentenza alla Procura della Repubblica perché venga valutata la posizione di “ulteriori concorrenti”.
2. Il finanziamento pubblico ai partiti politici
Per comprendere la fattispecie in esame è necessario soffermarsi sull’istituto del finanziamento pubblico ai partiti. Si tratta di una delle modalità, assieme alle quote d’iscrizione e alla raccolta fondi, attraverso cui i partiti politici percepiscono fondi necessari a finanziare le proprie attività. Il finanziamento pubblico diretto ai partiti è previsto nella maggioranza degli ordinamenti europei. In alcuni Paesi tale finanziamento costituisce la primaria risorsa di sostentamento dei partiti, mentre in altri (come la Gran Bretagna) esso è sostanzialmente irrilevante. Il modello di finanziamento pubblico puro non esiste, giacché gli ordinamenti affiancano ad un finanziamento pubblico la possibilità di finanziamento privato, variamente regolamentato.
La Costituzione italiana, al pari delle Costituzioni coeve, non disciplina il finanziamento ai partiti. Durante i lavori dell’Assemblea costituente l’istituto è stato oggetto di discussione al momento della formulazione dell’art.49. Alla fine prevalse l’astensione dall’argomento, coerente con l’impostazione “extrastatuale” dei partiti politici.[1]
Il finanziamento pubblico ai partiti è stato introdotto in Italia dalla legge del 2 maggio 1974 n. 195 (cosiddetta legge Piccoli), proposta da Flaminio Piccoli (DC) e approvata con il consenso di tutti i partiti, ad eccezione del PLI.[2]
La legge imponeva l’obbligo di presentazione di un “bilancio” da pubblicare su un quotidiano e da comunicare al Presidente della Camera, che esercitava un controllo formale assistito da un ufficio di revisori, cioè il “Collegio di revisori ufficiali dei conti“. Infatti essa da un lato introdusse il finanziamento per i gruppi parlamentari “per l’esercizio delle loro funzioni” e per “l’attività propedeutica dei relativi partiti“, obbligando il gruppo stesso a versare il 95% ai partiti, mentre dall’altro istituì un finanziamento per l’attività “elettorale” dei partiti.
La legge disciplinava anche il finanziamento privato. Il Parlamento intendeva rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione e corruzione da parte dei poteri economici. A bilanciare tale previsione, si introdusse il divieto per i partiti di percepire finanziamenti da strutture pubbliche ed un obbligo (penalmente sanzionato) di pubblicità e di iscrizione a bilancio dei finanziamenti provenienti da privati, se superiori ad un certo ammontare.[3]
La legge n. 659 del 18 novembre 1981 introdusse, poi, le prime modifiche all’istituto:
- i finanziamenti pubblici vennero raddoppiati;
- partiti e politici (eletti, candidati o aventi cariche di partito) ebbero il divieto di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici o a partecipazione pubblica;
- venne introdotta una nuova forma di pubblicità dei bilanci: i partiti devono depositare un rendiconto finanziario annuale su entrate e uscite, per quanto non siano soggetti a controlli effettivi.[4]
La legge n. 659/1981 e gli altri provvedimenti che la seguirono (art. 1, legge 8 agosto 1980, n. 422; art. 1, legge 8 agosto 1985, n. 413) generalizzarono il sistema del contributo a titolo di rimborso per le spese elettorali, dalle elezioni politiche a quelle europee e regionali: in questi casi, l’erogazione veniva disposta dal Presidente della Camera dei deputati.[5]
Successivamente il referendum abrogativo promosso dai Radicali Italiani e dal Comitato Segni dell’aprile 1993 vide il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, nel clima di sfiducia che seguì lo scandalo di “Tangentopoli”.
Con la legge n. 515 del 10 dicembre 1993 venne anche integrata la parte rimanente della legge del 1974 relativamente al finanziamento pubblico definito “contributo per le spese elettorali”. La novella legislativa trovò immediata attuazione in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994.
La legge 2/1997 previde, poi, per la prima volta la possibilità per i contribuenti, al momento della dichiarazione dei redditi, di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito), per un totale massimo di 56.810.000 euro, da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno.
Lo stesso provvedimento normativo introdusse l’obbligo per i partiti di redigere un bilancio per competenza, comprendente stato patrimoniale e conto economico, il cui controllo fu affidato alla Presidenza della Camera. La Corte dei Conti può controllare solo il rendiconto delle spese elettorali. Il parlamento modificò la norma solo con l’art. 5 della legge nº 96 del 6 luglio 2012, rafforzando l’obbligo di un partito o un movimento di avere uno statuto per aver diritto di ricevere i rimborsi elettorali.
Successivamente, la legge n. 157 del 3 giugno 1999, recante “Nuove norme in materia di rimborso delle spese elettorali e abrogazione delle disposizioni concernenti la contribuzione volontaria ai movimenti e partiti politici”, reintrodusse un finanziamento pubblico completo per i partiti. Il rimborso elettorale previsto non aveva infatti attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. La legge 157 previde, poi, cinque fondi: per elezioni alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo, Regionali, e per i referendum, erogati in rate annuali, per 193.713.000 euro in caso di legislatura politica completa. La legge entrò in vigore con le elezioni politiche italiane del 2001.[6]
La normativa fu ulteriormente modificata dalla legge n. 156 del 26 luglio 2002, recante “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”, che trasformò in annuale il fondo e abbassò dal 4 all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa aumentò, passando da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro. In sostanza le 4000 lire “a voto” precedentemente previste furono convertite in 1€, ma si stabilì che l’importo dei fondi non fosse riferito all’intera legislatura ma a ciascun anno della stessa. In questo modo, pertanto, i partiti aventi diritto al rimborso ottennero più del doppio rispetto al meccanismo del 1999.
Con la legge n. 51 del 23 febbraio 2006 (di conversione del cd. decreto mille proroghe), poi, si previde che l’erogazione è dovuta per tutti gli anni di legislatura, indipendentemente dalla durata effettiva della stessa. La fine anticipata della XV legislatura, a due anni dall’insediamento, determinò il raddoppio delle quote annuali di finanziamento, dal momento che ai rimborsi della legislatura conclusa si sommarono le quote relative alla XVI legislatura inaugurata nel 2008. Questa possibilità di “rimborso multiplo” è stata eliminata con effetto immediato con la legge n. 122/2010.
Infine, la legge 6 luglio 2012, n. 96 ha introdotto numerose novità: contiene delega per l’estensione di un “testo unico” in materia, sebbene questo non sia un fatto inedito considerando che già l’art.8 della l. 157/1999 conteneva una delega analoga al governo (mai attuata).
La legge 96, oltre a ridurre con effetto immediato a 91 milioni di euro l’ammontare del finanziamento pubblico (rispetto ai 182 milioni previsti), ha introdotto un criterio-base rigido di finanziamento, distinguendo due pilastri del finanziamento pubblico. il contributo come “rimborso” delle spese per le consultazioni elettorali viene distinto dal finanziamento per l’attività politica, che diventa contributo pubblico “a titolo di cofinanziamento”, assegnando rispettivamente il 70% ed il 30% dei 91 milioni di euro complessivamente previsti.
Riguardo al primo “tipo” di finanziamento (ovvero il “rimborso” più “contributo”), la riforma mantiene i 4 fondi (elezioni di Camera, Senato, Europarlamento e Consigli regionali) con assegnazione di 19,5 milioni di euro per ciascun fondo, richiedendo quale requisito semplicemente che il candidato sia eletto, eliminando la soglia dei voti validi. È rimasto inalterato, invece, il criterio di ripartizione delle somme tra le varie liste. Particolare è, poi, la riduzione sanzionatoria del 5% dell’ammontare di finanziamento per le liste aventi diritto che abbiano più di 2/3 dei candidati dello stesso sesso.
Riguardo al secondo “tipo” di finanziamento (ovvero il “contributo a titolo di cofinanziamento”), invece, per ciascuno dei 4 fondi sono assegnati 6,285 milioni di euro.
Con riferimento alla ratio legis, una delle maggiori novità della riforma è la previsione secondo la quale le formazioni politiche che hanno diritto al finanziamento debbano dotarsi di un “atto costitutivo” e di uno “statuto” da trasmettere in copia ai Presidenti di Camera e Senato entro 45 giorni dall’elezione. Essi debbono indicare l’organo competente ad approvare il rendiconto, il soggetto responsabile della gestione economico-finanziaria. La norma impone anche che tali atti debbono essere conformati a principi democratici nella vita interna, con particolare riguardo alla scelta dei candidati, al rispetto delle minoranze e ai diritti degli iscritti.
L’art. 9 della legge, inoltre, istituisce la “Commissione per la trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti e dei movimenti politici” con il compito di controllare i suddetti rendiconti. Essa ha sostituito il “Collegio dei revisori”, che ha cessato di svolgere le sue funzioni il 31 ottobre 2012. Rispetto al controllo “formale” che svolgeva quest’ultima, la nuova Commissione verifica la “conformità delle spese effettivamente sostenute e delle entrate percepite alla documentazione addotta a prova delle stesse” (cfr. art.9, comma quinto). La dottrina immediatamente mise in dubbio l’effettività di questo controllo,[7] ma la difficoltà emerse solo quando la Commissione si dichiarò nell’impossibilità di effettuare i controlli [8]ed il legislatore ritenne di intervenire nuovamente.[9]
Ma durante il governo Letta venne emanato il decreto legge 28 dicembre 2013, n. 149, convertito in legge 21 febbraio 2014, n. 13, che prevede espressamente l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Ecco i punti principali della normativa:
- Abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Si aboliscono il rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e i contributi pubblici erogati per l’attività politica e a titolo di cofinanziamento;
- Il 2 per 1000. A decorrere dall’anno finanziario 2014, con riferimento al precedente periodo d’imposta, ciascun contribuente può destinare il due per mille della propria imposta sul reddito delle persone fisiche a favore di un partito politico, limitatamente ai partiti politici iscritti nella seconda sezione del registro di cui all’articolo 4 del decreto legge 28 dicembre 2013, n. 149.[10]
- Detrazioni per le erogazioni liberali in denaro in favore dei partiti politici. A decorrere dall’anno 2014, le erogazioni liberali in denaro effettuate dalle persone fisiche in favore dei partiti politici iscritti nella prima sezione del registro di cui all’art. 4 del presente decreto sono ammesse a detrazione per oneri, ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.
- Raccolte telefoniche di fondi. La raccolta di fondi per campagne che promuovano la partecipazione alla vita politica sia attraverso SMS o altre applicazioni da telefoni mobili, sia dalle utenze di telefonia fissa attraverso una chiamata in fonia, è disciplinata da un apposito codice di autoregolamentazione tra i gestori telefonici autorizzati a fornire al pubblico servizi di comunicazione elettronica in grado di gestire le numerazioni appositamente definite dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Tale raccolta di fondi costituisce erogazione liberale e gli addebiti, in qualunque forma effettuati dai soggetti che forniscono servizi di telefonia, degli importi destinati dai loro clienti alle campagne sono esclusi dal campo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto.
La concreta cessazione del finanziamento pubblico è avvenuta nel 2017, e il finanziamento pubblico ai partiti ha continuato a essere erogato per gli anni 2014, 2015, 2016.[11] La riforma consente solo, a determinate condizioni (art. 3-Statuto; art. 4-Registro dei Partiti), di ottenere la destinazione volontaria del due per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche su precisa scelta del contribuente, e di ottenere erogazioni liberali dei privati, che possono così usufruire delle detrazioni fiscali. Ad ogni donazione, in denaro o beni/servizi, anche per interposta persona, è fissato un tetto massimo di euro 100.000/anno (art. 10, comma 7). La legge, infine, contiene un capo dedicato a democrazia interna, trasparenza e controlli.
Pertanto, il finanziamento illecito ai partiti consiste in quelle forme di finanziamento ai partiti che violano quanto previsto dalla citata legge n. 195/1974, articolo 7, in materia di “Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici.” che vieta i finanziamenti ai partiti da parte di:
- organi della pubblica amministrazione;
- enti pubblici;
- società con partecipazione di capitale pubblico superiore al 20% oppure società con partecipazione di capitale pubblico inferiore al 20% ma in cui la partecipazione assicuri comunque al soggetto pubblico il controllo;
- società non a partecipazione di capitale pubblico che effettuino finanziamenti senza che siano stati deliberati dall’organo sociale competente e regolarmente iscritti in bilancio.
- Le pene prevedono la reclusione da 6 mesi a 4 anni e una multa fino al triplo delle somme versate.
3. L’ istituto delle primarie in Italia e negli Stati Uniti
Per quanto concerne il caso in esame, si ritiene che l’attività politica svolta in occasione delle primarie del 2017 non costituisca un’attività pubblicistica, ma meramente privatistica, in quanto non disciplinata da una legge dello Stato, come avviene negli Stati Uniti.
Infatti, in tale Stato il potere esecutivo viene affidato ad un presidente che è anche Capo dello Stato, che ha una derivazione popolare e dura in carica per un mandato di quattro anni, rinnovabile una sola volta (XXII emendamento del 1951). L’elezione presidenziale è di secondo grado e avviene in base ad un procedimento complesso articolato in due fasi.[12]
La prima fase si conclude con la designazione dei candidati alla presidenza e alla vice presidenza nelle convenzioni nazionali del partito democratico e di quello repubblicano in gran parte con il metodo delle primarie disciplinate da leggi statali, in base al quale i delegati sono eletti dagli elettori simpatizzanti del relativo partito (primarie chiuse) o da qualsiasi elettore (primarie aperte).
La seconda fase prevede in ogni Stato ai primi di novembre la nomina degli elettori presidenziali in numero pari ai deputati e i senatori attribuiti a ciascuno Stato. Successivamente questi votano a scrutinio segreto per il Presidente e il vice presidente e all’inizio di gennaio il presidente del Senato effettua lo spoglio di fronte alle camere riunite, proclamando eletti i candidati che ottengono la maggioranza assoluta dei voti. Infine, il 20 gennaio il presidente prende ufficialmente possesso della carica.
4. Conclusioni
Si ritiene, pertanto, che tutta l’attività svolta per le primarie nel nostro ordinamento non costituisca una funzione pubblica, ma meramente privatistica che quindi non potrebbe configurare il reato di finanziamento pubblico dei partiti, ma solo essere oggetto eventualmente di ricorsi di natura civilistica da parte dei concorrenti o di altri cittadini interessati. Ciò non toglie, che le ipotesi avanzate dagli inquirenti torinesi, ove accertate in via definitiva, potrebbero ricevere una sanzione di natura politica sulla base di criteri oggettivamente non predeterminati.
Le suesposte riflessioni non sono state certamente recepite nella sentenza di Torino, tanto che il giudice, come detto, ha disposto la trasmissione delle motivazioni della sentenza alla Procura della Repubblica perché venga valutata la posizione di “ulteriori concorrenti”.
Tuttavia si ritiene che le stesse possano inserirsi nel dibattito in questione come un contributo dottrinale alla fattispecie in esame e rappresentare quindi un modesto contributo alla definizione dell’istituto delle primarie non regolamentato nel nostro ordinamento giuridico.
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Note
- V. Crisafulli, I partiti nella Costituzione, in Studi XX anniversario dell’Assemblea costituente, II, Firenze, 1969.
- Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici. Camera dei deputati, VI Legislatura, Scheda della proposta di legge n. 2860, su legislature.camera.it.
- G. Pasquino, Contro il finanziamento pubblico di questi partiti, il Mulino, 1974.
- Modifiche ed integrazioni alla legge 2 maggio 1974, n. 195, sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici. Camera dei deputati, VIII Legislatura, Scheda dell’atto parlamentare n. 2451, su legislature.camera.it.
- Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica. Camera dei deputati, XI Legislatura, Scheda della proposta di legge n. 2871, su legislature.camera.it.
- G. Buonomo, Candidato e lista, rendicontazione doppia, in Diritto e giustizia, 7 ottobre 2006.
- Partiti politici: la riduzione dei contributi è legge, in altalex.com, 4 settembre 2012.
- G. Buonomo, Tra sprechi, ruberie ed equivoci legislativi, in L’ago e il filo, dicembre 2012.
- http://www.termometropolitico.it/1183611_riecco-i-rimborsi-elettorali-ai-partiti-la-proposta- del-pd.html
- Abolizione finanziamento pubblico ai partiti: il decreto coordinato in Gazzetta, in Altalex com.
- 2 per mille Archiviato il 17 luglio 2017 in Internet Archive, in agenziaentrate.gov.it
- G. Morbidelli, L. Pegoraro, A. Rinella, M. Volpi, Diritto pubblico comparato, Diritto pubblico comparato, Giappichelli, Torino, 2016, p. 442.
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