Il femminicidio e l’inefficacia preventiva della pena

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In Italia si conta, praticamente, un femmicidio ogni tre giorni, mentre non si riescono a contare gli episodi violenti a danno delle donne e non è solo questione di “ingente quantità”.
Ossessione, possesso, prevaricazione, vendetta.
Bisognerebbe concentrare l’indagine criminologica proprio sui motivi, perchè il femmicidio non è solo l’uccisione di una donna in quanto donna, è qualcosa di diverso, più profondo, più camaleontico, più perverso e più problematico.
Quanta razionalità e calcolabilità vi è in queste tipologie di crimini e quanta, invece, irrazionalità e incontrollabilità vi si cela? Questa potrebbe essere una buona domanda per indagare l’efficacia preventiva della pena in relazione a tali crimini.


Per approfondimenti si consiglia: La violenza di genere e domestica

Indice

1. La pena e la perdita della forza deterrente

Abbandonata l’esclusività della funzione retributiva [1] (derivata dall’antica legge del contrappasso), la pena, in ottica costituzionalmente orientata, può dirsi polifunzionale perchè deve essere calibrata al fine di assicurare l’efficacia generale e specifica deterrente, deve tendere alla rieducazione del condannato (risocializzazione) e agire come fattore retributivo. Tali sono gli scopi della pena ma, questi possono essere raggiunti solo se vengono rispettati i principi di efficacia e di efficienza della stessa: la necessarietà e la proporzionalità [2].
Secondo il principio di necessarietà, bisogna limitare l’intervento punitivo solo ai casi che non possono essere affrontati, in maniera adeguata, con gli altri mezzi a disposizione dello Stato, il che implica dotarsi di una struttura organizzativa sistemica, ramificata sul territorio, adeguata ai diversi contesti socio-culturali e compatta (non presentare falle organiche che possono provocare il collasso dell’organizzazione). In relazione al requisito della proporzionalità, ci si deve basare sulla gravità e sulla tipologia del reato commesso. La gravità richiama la carica offensiva del fatto desunta dagli elementi stabiliti ex art. 133 c.p., mentre la tipologia, ad avviso di scrive, dovrebbe richiamare una valutazione globale del fatto di reato, il che implica anche l’analisi particolare dei fattori criminogeni connessi allo stesso. In questo senso, in ottica di politica criminale, si dovrebbe valorizzare l’indagine sulle cause fenomeniche esterne e interne all’agente criminale. Non si tratta, infatti, di condurre l’indagine sui motivi del reato al fine della configurazione della punibilità e dunque l’assoggettamento o meno a pena ma, di calibrare la funzione sanzionatoria anche sulle spinte criminogene interiori e in base al contesto territoriale e socio-culturale in cui il fatto di reato si è verificato con più frequenza, al fine di individuare non l’estensione della pena sic et simpliciter ma, quale pena sia idonea a fronteggiare in maniera efficiente lo stesso. Allo stesso tempo, non si chiede un intervento individualizzante, perchè sarebbe allo stesso modo improduttivo in termini di costi di energia, di tempo ed economici, anche in ordine al rispetto del principio del diritto penale del fatto ma, ad avviso di chi scrive, sarebbe funzionale agire differenziando il tipo sanzionatorio in base a sottocategorie in uno schema che dovrebbe continuare a basarsi sulla categoria generale del bene guridico leso ma, che dovrebbe prevedere per la classe dei reati riconducibile allo stesso bene giuridico, sottogaterorie individuate sulla base dei fattori criminogeni e differenziare in tal modo le pene non solo quantitativamente ma, soprattutto, in senso qualitativo. Questo vorrebbe dire apportare delle modifiche all’impostazione delle pene principali, classificando le stesse in maniera differenziata, non solo sulla base della gravità del reato, riconnessa al bene giuridico leso, ma anche in ordine ad altri fattori, quali appunto i motivi. Attualmente, i motivi a delinquere possono operare solo in ottica di attenuare (art. 62 c.p. particolari motivi di valore morale o sociale) o aggravare (art. 61 c.p.motivi abietti o futili) la pena principale comminata anche in riferimento alla valutazione della capacità a delinquere del reo (co. II. n. 1 art. 133 c.p.). Si vuole, invece, offrire un metodo alternativo per affrontare il fattore criminogeno che sia più adeguato al fatto specifico di reato. Vi è differenza tra rubare un chicco d’uva nell’orto del vicino e rubare una televisione in casa del vicino, eppure tali fatti vengono assoggettati alla stessa forbice edittale, quella del furto in abitazione, così come vi è differenza tra l’omicidio di un prete e l’omicidio della propria moglie, eppure vengono assoggettati allo stesso sistema sanzionatorio, con le dovute differenze quantitative rispetto alle successive valutazioni che indagano le modalità della condotta, i motivi a delinquere ecc. Ecco, vi è una differenza di tipo quantitativa ma, non qualitativa. La ragione la si rinviene nel garantire l’uguaglianza (art.3 Cost.) in relazione alla rilevanza del fatto di reato generico, furto in abitazione e omicidio, senza ulteriori distinzioni. Ma si è sicuri che tale impostazione sistemica sia la più adeguata o che comunque da sola sia sufficiente?
Ad avviso di chi scrive, si deve rispondere in maniera negativa. Il perchè è presto detto. È la stessa disfunzione della pena che rileva il dato dell’insufficienza del sistema sanzionatorio così come è predisposto attualmente.
I fattori che stanno determinando il collasso e l’implosione del sistema penale sanzionatorio sono da individuarsi nell’inadeguatezza delle politiche criminali e nella staticità e nell’insufficienza dei mezzi impiegati [3]. Per quanto riguarda le politiche criminali, queste sono sempre più condotte sulla base di spinte populiste e propagandiste [4], a discapito dell’aderenza al reale contesto sociale e alla reale necessità della pena. In altre parole, si è entrati in un circolo vizioso che dal fatto di reato, passa alla comunicazione di massa, viene percepito dalla comunità come emergenziale e dalla stessa giunge al legislatore come finta necessità a cui quest’ultimo, puntualmente, risponde con la creazione di fattispecie di nuovo conio, la trasformazione di aggravanti in fattispecie autonome, l’aggravamento delle sanzioni, l’anticipazione della soglia di punibilità [5]. Il risultato è che la necessità reale è stata messa da parte per fare spazio al diritto penale emergenziale, quale primo strumento di intervento solutorio alle tante problematiche sociali presenti determinando, in tal modo, il fallimento dell’efficacia della pena, la quale è talmente presente e talmente defraudata dal suo scopo che viene quasi del tutto ignorata dai consociati e quest’ultimo fattore non è un modo di dire, ma un dato.
Ecco, intervenire sulla percezione sociale della pena, sia in riferimento alla popolazione extra-carceraria che intra-carceraria potrebbe rappresentare una controspinta per l’adesione sociale al sistema sanzionatorio. Si tratta di processi che richiedono un ingente sforzo economico e intellettivo perchè bisogna intervenire sul modo di comunicare il crimine e sullo stesso funzionamento carcerario. Infatti, le distorsioni percettive della pena, sono causate dalle informazioni spettacolarizzate a fini propagandistici da una parte e dalle carenze stutturali e funzionali del sistema carcerario dall’altra.
Se nel sistema giustizia vi sono disorganicità, mancanza di coordinazione, misure incoerenti e norme inefficaci, si crea un corto circuito. Si pensi alle politiche che insaspriscono la pena, anche con l’obiettivo di allungare i termini di prescrizione e ai gravi ritardi processuali. Tali fattori costituiscono un primo ingrediente disfunzionale, perchè la pena non viene percepita come reale e prossima e quindi viene affrontata dal criminale con la quasi totale sicurezza del “farla franca” e dalle vittime viene percepita come inutile, diffondendo il sentimento della sfiducia con tutte le implicazioni negative che si ripercuotono sulla scelta di “denunciare”. Oltre tutto, bisogna considerare il funzionamento del sistema carcerario, perchè anche gli effetti della pena sui detenuti costituiscono un fattore capace di invertire la percesione della pena. Infatti, assistere ad un clima di disordine intra-murario, caratterizzato da violenza (su tutti il caso Cucchi e il caso di S. Maria Capua Vetere [6]) e da condizioni esistenziali degradanti (ci si riferisce non solo al problema del sovraffollamento carcerario e alle problematiche legate all’edilizia in termini di spazi ridotti [7] ma, al trattamento penitenziario in generale), si pensi alle procedure delle perquisizioni che, spesso, vengono effettuate senza tutelare la dignità dei detenuti, alle immagini degli imputati sottoposti a custodia cautelare in carcere condotti nelle aule dei tribunali in manette anche quando non vi siano reali esigenze di sicurezza in violazione del diritto alla presunzione di innocenza, alla mancanza di personale adeguato, sia in termini quantitativi che qualitativi, alle diverse misure che limitano la comunicazione, la socializzazione, la possibilità di svolgere attività ricreative e/o lavorative, produce l’effetto della fuga dalle istituzioni.

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2. Come prevenire i femminicidi: dal genere ai ruoli sociali

Con il termine femmicidio [8] si suole indicare l’uccisione di una donna in quanto donna [9]. Tale definizione venne coniata dalla criminologa Diana H. Russel per indicare una species del fenomeno socio-culturale largamente diffuso e che ha antiche origini, della violenza perpetrata contro il genere femminile il c.d. femminicidio. Sul punto, non si condivide il pensiero che colloca l’esplosione dei crimini commessi contro le donne per motivi di genere, al processo di emancipazione delle stesse. È opinione largamente diffusa, infatti, che il percorso evolutivo che ha portato la donna ad emanciparsi dallo stereotipo socio-culturale della figura servizievole e dipendente dall’uomo, abbia generato una reazione avversa di quest’ultimo basata sulla perdita del controllo. Non vi è dubbio che il meccanismo della perdita del controllo possa portare a reazioni violente ma, tale fattore non può essere posto come causa della violenza di genere. Anzi, ad avviso di chi scrive, si deve considerare l’emancipazione femminile come un fattore deterrente, nel senso che proprio quest’ultima se acquisita pienamente nel proprio patrimonio valoriale individuale e nel patrimonio valoriale sociale, consente di fornire uno strumento efficiente per la riduzione della violenza di genere. Infatti, la piaga della violenza sulle donne non ha destato particolari cambiamenti nel corso del tempo, esiste dall’età arcaica e persiste in età moderna (si pensi al fenomeno storico-giuridico del patriarcato dal quale derivava il diritto per il marito o per il padre di correggere [10] anche e soprattutto con la violenza la propria moglie o la propria figlia o all’istituto del matrimonio riparatore ex art. 544 c.p. con il quale si cancellava l’onore della famiglia violato consegnando la propria figlia o la propria sorella in moglie al suo aguzzino).
È mutato, invece, il grado di conoscenza del fenomeno [11], complici l’attenzione mediatica da una parte e l’emancipazione stessa.
Si può ragionevolmente ritenere, infatti, che una donna emancipata, sicura, determinata, sia molto lontana dal diventare vittima, non solo perchè non manipolabile dalla forza bruta maschile ma, soprattutto perchè in grado di disinnescare in tempo utile qualsiasi relazione che possa condurre alla “malattia” della dipendenza/sottomissione. Ebbene si, vi è correlazione tra violenza di genere e situazioni relazionali (l’esito delle indagini OMS e della Convenzione di Istanbul convergono per lo stesso risultato: gli autori delle violenze più gravi sono prevalentemente i partner attuali o gli ex partner 62, 7 %) e nel caso specifico dei femmicidi, il grado di tale correlazione aumenta vertiginosamente (il 73, 2% degli omicidi di donne sono compiuti in ambito familiare).
A fronte di tali dati [12], si ritiene che si debba superare la visione proposta dalla Russel, non in ottica descrittiva, perchè riesce ad inglobare tutti i casi in cui una donna perde la vita in quanto donna [13] ma, nel senso preventivo. Infatti, nell’ottica di analizzare tale fenomeno culturale, sociale e criminale non ci si può fermare a tale correlazione, bensì ci si deve calare nel dinamismo dei ruoli sociali e studiarne il funzionamento. Non si uccide solo una donna in quanto tale, si uccide una donna in quanto madre, sorella, figlia, fidanzata, ex fidanzata, moglie, ex moglie.
Ecco, spostare il focus dell’indagine dal genere ai ruoli sociali assunti dalle donne, in contrapposizione ai ruoli assunti dagli uomini, consente di indagare il fenomeno dalla prospettiva relazionale specifica e in tal modo consente di avere una visione più centrata sui meccanismi relazionali dai quali emergono i conflitti relazionali e dai quali dipendono le reazioni relazionali violente. Infatti, raramente i femmicidi avvengono come episodi singoli, la maggior parte delle volte rappresentano il culmine della violenza innescatesi nelle dinamiche relazionali di cui sopra. Proprio la progressione della violenza è un fattore che può essere sfruttato in ottica preventiva perchè i femmicidi si possono prevenire ma, solo se si agisce in tempo utile e con gli strumenti adeguati a disinnescare l’escalation criminogena. Per raggiungere questo obbiettivo, è evidente che non basta agire sul piano sanzionatorio, prova ne sono i dati statistici negativi a fronte degli importanti interventi normativi susseguitesi nel tempo.
Infatti, tali tipi di interventi sono calibrati per agire in un tempo non funzionale allo scopo che ci si prefigge di raggiungere: la prevenzione non in senso generico ma, la prevenzione di questa particolare classe di reati.
Mai come nel caso del fenomeno della violenza di genere urge agire in maniera, non solo preventiva ma, soprattutto in maniera tempestiva proprio perchè si creano dei meccanismi di evitamento  e di abnegazione del pericolo causati proprio dai dinamismi relazionali. Questo vuol dire che, nella maggior parte dei casi, quando si giunge nella fase in cui la donna denuncia le violenze subite o comunque attiva richieste di aiuto, il fattore criminogeno si è già largamente sviluppato rendendo più complicato la realizzazione dell’effetto deterrente delle misure attualmente disponibili.
Bisogna agire sui ruoli e sui suoi protagonisti, in primis la donna stessa, sfruttando l’emancipazione a suo vantaggio. Questo risultato lo si potrebbe raggiungere puntando sull’educazione, sull’assistenza psicologica ed economica. Bisogna continuare a formare donne libere e indipendenti, in grado di gestire la propria vita in maniera autonoma, di risconoscere ed evitare situazioni disfunzionali, di disinnescare la violenza al primo campanello d’allarme (percosse, minacce, pedinamenti, gelosia morbosa). Non solo, bisogna intervenire in tal senso, anche e soprattutto nei confronti di tutti gli attori che fanno parte di specifiche dinamiche relazionali.

3. Considerazioni conclusive

Si è evidenziata l’insufficienza dei mezzi organizzativi non solo in termini quantitativi ma, soprattutto in termini qualitativi. Tale risultanze derivano dai dati rilevati in ordine  alla correlazione tra le misure predisposte nel corso del tempo e l’effetto criminogeno che non è diminuito.  Un fenomeno del tutto particolare quella della violenza di genere, che merita sicuramente di essere analizzato in modo differenziato  ma, che riflette quelle che sono le problematiche che affliggono la risposta preventiva e punitiva dello Stato nei confronti della criminalità in generale.
Sfruttando la scia della riforma sulla giustizia riparativa, in considerazione di quanto espresso, si potrebbe pensare ad una riforma del sistema penale sanzionatorio di più ampio respiro che coinvolga la stessa tipologia delle pene previste e che si rivolga maggiormente all’azione preventiva, tenendo in considerazione i fattori criminogeni che, andrebbero a calibrare in maniera specifica la pena più idonea a contrastare la commissione del reato specifico.

Note

  1. [1]

    La funzione retributiva della pena si basa sul rimprovero morale del soggetto che liberamente ha scelto di delinquere  centrale nella visione punitiva della scuola classica di cui Francesco Carrara era il maggiore esponente.

  2. [2]

    Con le pronunce n. 236 del 2016, n. 222 del 2018, n. 40 del 2019 e n. 73 del 2020, la Corte Costituzionale afferma che una pena non proporzionata alla gravità del fatto“(oggettivamente) offensivo e (soggettivamente) rimproverabile al suo autore”è percepita dal soggetto come ingiusta, come inutilmente vessatoria e di conseguenza come non rieducativa.

  3. [3]

    In merito all’inadeguatezza del sistema giustizia si prenda visione delle pronunce della Corte EDU Talpis c. Italia, n. 41237/14, 2 marzo 2017; J.L. c. Italia, n. 5671/16, 27 maggio 2021; Landi c. Italia, n. 10929/19, 7 aprile 2022; De Giorgi c. Italia, n. 23735/19, 16 giugno 2022

  4. [4]

    sulla necessità di un intervento organico in tema di violenza di genere, comunque non può negarsi l’incidenza dell’effetto populista sulle scelte di politiche criminali effettuate nel corso degli anni su questa tematica,è stato così in occasione dell’ introduzione del reato di atti persecutori. Il clamore mediatico legato al fenomeno dello stalking ha determinato l’introduzione dell’art. 612bis, una fattispecie specifica per comportamenti che risultavano già puniti, si pensi al reato di minacce, alle lesioni personali come fattispecie singole e al reato dei maltrattamenti in famiglia, fattispecie più grave ma limitata ai rapporti familiari o a questi assimilati. Tale fattispecie costituisce il simbolo di una politica criminale diretta a contrastare la violenza di genere che ha visto l’intervento normativo sul femminicidio nel 2011 e la riforma dei reati di violenza di genere e l’introduzione del c.d. Codice Rosso nel 2019. Tutte misure rivolte ad intervenire aspramente sul piano sanzionatorio, che hanno previsto l’introduzione di nuove fattispecie di reato ( revenge porn), che hanno predisposto interventi in tema di misure di prevenzione (es. allontanamento dai luoghi frequentati dalla persona offesa) ma, che in realtà non hanno prodotto il risultato sperato: la sensibile riduzione dei crimini contro le donne.

  5. [5]

    Cfr F. Fuscaldo, Mass media e percezione del crimine: effetti collaterali, Diritto & Diritti, 11 settembre, 2023

  6. [6]

    Con sentenza n. 8973 del 9 novembre 2021 (dep. 16 marzo 2022), la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con riferimento ai fatti avvenuti nell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ha ribadito che il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

  7. [7]

    L’art. 5 o.p. dispone che «gli edifici penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati». Ai sensi dell’art. 6 o.p., «i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; areati, riscaldati per il tempo in cui le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decente e di tipo razionale. I locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia.

  8. [8]

    G. Viggiani, Il femminicidio come reato. Prassi applicative e prospettive de iure condendo, Genius,  2/2019

  9. [9]

    D.E.H. Russell, R. Harnes, Femicide in Global Perspective, New York, Teachers College Press, 2001

  10. [10]

    L’istituto dello ius corrigendi venne dichiarato illegittimo dalla Cassazione in Italia solo a metà degli anni Cinquanta del Novecento.

  11. [11]

    Le prime politiche organiche relative all’indagine sociale, alla ricerca, alla raccolta di dati, alla predisposizione di statistiche sulla violenza domestica sono figlie della Conferenza mondiale delle donne di Pechino del 1995 mentre la Convenzione di Instanbul del 2011 (ratificata nel 2013) rappresenta il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante, volto a creare un quadro normativo a tutela delle donne contro ogni forma di violenza di genere.

  12. [12]

    Si prenda visione anche del rapporto stilato dalla Commissione di inchiesta sul femmicidio e la violenza di genere relativo all’anno 2017/2018 diponibile su http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Commissioni/0-00141.htm

  13. [13]

    Per analizzare i dati statistici riferiti all’incidenza dei ruoli di genere si prenda visione di https://www.istat.it/it/archivio/235994

Volume consigliato

Il testo inquadra il fenomeno della violenza di genere dal punto di vista sociale e antropologico, investiga le modalità della violenza psicologica, analizza la normativa vigente e la sua evoluzione nel tempo, propone strumenti di indagine e di intervento nonché tecniche di audizione delle vittime.
Si sofferma poi anche sui reati in ambito di violenza di genere che possono essere compiuti mediante l’utilizzo di tecnologie telematiche e su un fenomeno poco conosciuto ed indagato quale quello della violenza in relazioni intime tra persone LGBTQ.

FORMATO CARTACEO

La violenza di genere e domestica

Negli ultimi anni è decisamente cresciuta l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica verso il fenomeno della violenza contro le donne, anche perché non passa giorno, purtroppo, in cui non si abbia notizia di minacce, persecuzioni, lesioni o dell’uccisione di una donna da parte di un coniuge, fidanzato o convivente. Questo avviene nonostante ci siano, ormai da tempo, leggi e regolamenti per contrastare ciò che viene definita “violenza di genere”. In questa direzione, a completamento della necessaria attività di formazione per le Polizie Locali, si è ritenuto importante sistematizzare le conoscenze acquisite e le competenze sviluppate in una pubblicazione che possa rappresentare uno strumento utile per gli operatori, sia nello svolgere un ruolo attivo nell’attività di prevenzione, sia nell’attività di indagine e di supporto alle vittime che denunciano. Il testo inquadra il fenomeno della violenza di genere dal punto di vista sociale e antropologico, investiga le modalità della violenza psicologica, analizza la normativa vigente e la sua evoluzione nel tempo, propone strumenti di indagine e di intervento nonché tecniche di audizione delle vittime. Si sofferma poi anche sui reati in ambito di violenza di genere che possono essere compiuti mediante l’utilizzo di tecnologie telematiche e su un fenomeno poco conosciuto ed indagato quale quello della violenza in relazioni intime tra persone LGBTQ. Loredana Borinato Coordinatrice dei formatori per l’Area Politiche per la Sicurezza della SIPL, Ispettrice Capo della Polizia Locale di Torino. Simonetta Botti Responsabile dell’Area Comunicazione della SIPL, si occupa di management dei servizi rivolti alle persone fragili. Cinzia Mammoliti Criminologa specializzata in manipolazione relazionale e violenza psicologica. Simonetta Moro Psicologa e psicoterapeuta con perfezionamento in Psicologia Giuridica, Assistente Capo di Polizia Locale – Comune di Bologna. Luca Zigiotti Ispettore Capo Polizia Locale di Torino. Esperto in Polizia Giudiziaria, Digital Forensics, Data Analysis e Nuove Tecnologie.

Loredana Borinato, Simonetta Botti, Cinzia Mammoliti, Simonetta Moro, Luca Zigiotti | Maggioli Editore 2022

Francesca Fuscaldo

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