NUOVE FRONTIERE GIURISPRUDENZIALI DEL DIRITTO DI FAMIGLIA (FECONDAZONE ARTIFICIALE ETEROLOGA e FECONDAZIONE ARTIFICIALE POST MORTEM)

Redazione 23/11/00
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Giuseppe Cassano
Sommario: I. LA FECONDAZONE ARTIFICIALE ETEROLOGA. 1.1. Premessa sulla fecondazione artificiale eterologa. 1.2. La giurisprudenza di merito. 1.3. La sentenza della Corte Costituzionale 347/98. 1.4. La sentenza 2315/99 della Cassazione. 1.5. Considerazioni conclusive in tema di fecondazione artificiale eterologa. II. LA FECONDAZIONE ARTIFICIALE POST MORTEM. 2.1. Premessa sulla fecondazione artificiale post mortem. 2.2. La liceità della inseminazione artificiale post mortem. 2.3. L’embrione umano e le iniziate legislative in merito. 2.4. I problemi sollevati dalla inseminazione artificiale post mortem. 2.5. La nascita dell’embrione.

LA FECONDAZONE ARTIFICIALE ETEROLOGA
Premessa sulla fecondazione artificiale eterologa.
Recentemente alcune novità giurisprudenziali, legate all’utilizzo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, hanno riacceso il dibattito sul diritto di famiglia.
Lo studioso del diritto di famiglia, ed in particolare della filiazione, faceva ruotare le proprie argomentazioni interpretative attorno a due punti fermi, il legame necessario tra filiazione e rapporto fisico fra uomo e donna, e la certezza che il bambino partorito da donna era anche biologicamente suo figlio. Le nuove tecniche di fecondazione artificiale e gli avvenimenti che spesso occupano le prime pagine dei giornali, invece, hanno sollevato questioni che la giurisprudenza faticosamente e con cautela ha cercato di risolvere.
Il ricorso alla fecondazione eterologa , può essere l’unico modo per avere un figlio che sia geneticamente legato ad almeno un coniuge, quando un membro della coppia é affetto da sterilità. In questo caso é, però, controverso se padre del nato debba considerarsi il donatore del seme od il marito della madre che eventualmente abbia prestato il proprio consenso all’inseminazione. Secondo una prima opzione interpretativa, è, infatti, possibile riscontrare nella disciplina codicistica un principio generale, secondo il quale l’attribuzione della paternità si basa sulla derivazione biologica (basti pensare alle ipotesi che rendono possibile l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità, secondo l’art. 235 c.c., o a quelle che permettono di impugnare il riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, art. 263 c.c.). Anche a livello costituzionale questo orientamento sembra ribadito nell’art. 29 Cost. che qualifica la famiglia come società naturale e negli artt. 2, 29 e 30 Cost. dai quali é possibile desumere un diritto della persona ad avere uno status conforme alla propria derivazione biologica.
Tuttavia, questa soluzione non è pienamente condivisa sulla base dell’assunto che l’elemento biologico non è sufficiente per attribuire la paternità. Occorre, infatti, che al legame genetico (il quale funge da presupposto del vincolo giuridico solo se il concepimento avviene mediante l’unione sessuale) si aggiunga il fattore sociale della responsabilità, inesistente nella semplice donazione del seme, da parte di un donatore che si limita a mettere a disposizione i mezzi necessari alla procreazione, e a collaborare alla nascita di un figlio che poi dovrebbe essere allevato da altri.
Né sarebbe possibile attribuire la paternità al marito della madre. Il bambino sarà, quindi, figlio della sola madre, privo di una figura paterna, a meno che il marito della donna abbia prestato il consenso alla fecondazione eterologa. Questa soluzione che convince sul piano sociale è contestata da chi evidenzia che anche in questo caso, come nell’ipotesi di maternità surrogata, nel nostro sistema giuridico, non é possibile attribuire al nato lo stato di figlio legittimo: il principio di corrispondenza tra tale status e la derivazione genetica è peraltro menzionato anche nell’art. 567 co. 2 c.p., che punisce chiunque nella formazione di un atto di nascita altera lo stato civile di un neonato. All’uomo che consente l’inseminazione eterologa della propria moglie e che desidera assumere la paternità del neonato, il diritto vigente gli permette, allora, solo, l’adozione ai sensi dell’art. 44 lett. b), legge 184/1983. In capo all’adottante sorgeranno, così, una serie di diritti e doveri che renderanno la sua posizione nei confronti del nato molto simile a quella assunta dai coniugi adottanti nell’ambito dell’adozione, la quale a sua volta risulta modellata sui rapporti di paternità e di maternità che si instaurano nell’ambito della procreazione naturale. Anche se il marito della donna che si é sottoposta ad una fecondazione artificiale non intendesse assumere le relative conseguenze, la donna potrebbe riconoscere il figlio come naturale, ai sensi dell’art. 250 c.c.; in mancanza il figlio potrebbe chiedere la dichiarazione giudiziale di filiazione naturale nei confronti della madre e non, ovviamente, nei confronti del marito, in quanto estraneo al concepimento. Ma, tenendo conto della volontà di coloro che ricorrono all’inseminazione eterologa di avere un figlio da considerare proprio a tutti gli effetti, la soluzione più vantaggiosa potrebbe, invece, consistere nell’attribuzione, anche al nato tramite una fecondazione eterologa, dello stato di figlio legittimo. Il passaggio logico che forse potrebbe risolvere il problema a monte è quello della equiparazione della unione sessuale (quale prius della fecondazione) al consenso (quale prius della fecondazione eterologa), con questo di particolare: il consenso consapevolmente prestato valorizzerebbe, cosa che non sempre accade nell’unione sessuale, il momento volitivo della procreazione.
Un problema di particolare delicatezza é se sia consentito al marito della donna inseminata artificialmente esperire l’azione di disconoscimento della paternità.
Quando la moglie ricorre all’inseminazione eterologa all’insaputa o contro la volontà del marito, non sussiste alcuno ostacolo all’esercizio dell’azione di disconoscimento; l’uomo potrà limitarsi a provare la sua sterilità all’epoca del concepimento.
La problematica, invece, si pone diversamente se il marito ha prestato il proprio consenso: l’azione potrebbe trovare fondamento nella previsione di cui ai numeri 2 e 3 dell’art. 235 c.c.. In questo caso, secondo il nostro ordinamento giuridico, nulla si oppone ad un esito positivo dell’azione, se l’uomo pur avendo dato l’assenso, successivamente se ne penta e decida di agire in giudizio
Nel codice del 1865 l’azione di disconoscimento poteva essere esercitata solo dal presunto padre e, se morto prima della scadenza del termine, anche dai suoi eredi. Questa soluzione era legata alla necessità di attribuire solo al capo famiglia il potere di decidere su questioni riguardanti l’onore e la reputazione sua e della moglie. Più tardi, con la riforma del 1975, in considerazione degli abusi che potevano derivare dal vigore dell’ordinamento preesistente, delle indicazioni della Costituzione e dei cambiamenti intervenuti nel comune modo di sentire, fu disposto che l’azione poteva essere esercitata anche dalla madre e dal figlio. Oggi, l’azione stessa appare sempre più ispirata ad un’esigenza di tutela del favor veritatis
Nel caso di fecondazione eterologa, si è osservato, che se non è possibile esperire l’azione di disconoscimento, perché il consenso alla procreazione può supplire alla mancanza dell’apporto biologico, il figlio procreato artificialmente dovrebbe essere dotato di una legittimità tale, da non poter mai essere messa in discussione. Il nato sarebbe figlio del marito della donna fecondata artificialmente col seme di un terzo donatore e l’azione di disconoscimento non potrebbe essere esercitata, da alcun altro legittimato attivo. La volontà del marito verrebbe imposta anche ad altre persone (figlio, madre, curatore), nonostante siano di contrario avviso. Questa soluzione é, invero, inaccettabile, giacché nel nostro ordinamento, non esiste una gerarchia tra una pluralità di legittimati attivi all’esercizio di azioni in materia di filiazione. D’altronde, se il marito dà il proprio consenso ad avere un figlio in conseguenza di un rapporto sessuale della moglie con un terzo, il consenso, secondo l’opinione unanime dei giuristi, non avrebbe valore preclusivo all’esercizio dell’azione di disconoscimento. Ne deriverebbe, quindi, una disparità di trattamento ingiustificabile tra il caso della procreazione derivante da un rapporto sessuale e quello della procreazione con tecniche artificiali. Tuttavia, anche se non é possibile esperire l’azione di disconoscimento sussistono, comunque, delle conseguenze patrimoniali. Anche se l’uomo non può essere costretto ad assumere un ruolo educativo ed affettivo di padre sociale nei confronti di un figlio geneticamente non suo, é, comunque, tenuto a collaborare agli oneri economici per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione, del minore nella stessa misura in cui sarebbe stato obbligato in quanto padre naturale. L’unica differenza sta nella fonte dell’obbligo che per il padre genetico viene desunta dagli artt. 147 e 148 c.c., in questo caso, invece, dall’accordo precedentemente assunto .

La giurisprudenza di merito.
Già prima della riforma del diritto di famiglia, una decisione giurisprudenziale aveva ritenuto irrilevante il consenso prestato dal marito all’inseminazione eterologa al fine dell’esercizio dell’azione di disconoscimento. Il Tribunale aveva affermato che, se si esclude, naturalmente, l’istituto dell’adozione, il rapporto genetico é presupposto indispensabile del rapporto giuridico di filiazione, che il consenso alla procreazione con i gameti altrui non può sostituire l’apporto biologico, né può essere interpretato come una preventiva rinuncia all’azione di disconoscimento, in quanto si tratta di un’azione di stato concernente la materia dei diritti indisponibili. Questa soluzione é stata più recentemente confermata in un’altra pronuncia. Il caso, quasi del tutto simile a quello che ha portato al giudizio di costituzionalità che si commenta, é il seguente: una coppia contrae matrimonio, più tardi genera un bambino e lo dichiara all’ufficiale di stato civile figlio legittimo. In realtà, però, quel bambino non poteva essere stato concepito dal marito affetto da una impotentia generandi sin dalla nascita, come provato anche da una consulenza tecnica espletata nel corso della causa. L’uomo aveva precedentemente acconsentito che la moglie si sottoponesse ad un’inseminazione artificiale eterologa, avendo avuto conoscenza di essere affetto da un’incapacità a generare; incapacità, peraltro, sconosciuta dalla moglie prima dell’assunzione del vincolo coniugale. L’anno successivo il padre propose l’azione di disconoscimento, assumendo di essere stato affetto da impotentia generandi nel periodo compreso tra il trecentesimo e il centottantesimo giorno antecedente alla nascita del bambino. Dopo poco anche la moglie lo citò in giudizio, affinché venisse dichiarata la nullità del matrimonio, in quanto il suo consenso era stato prestato per effetto di un errore sulle qualità personali del marito: la donna non avrebbe contratto matrimonio se avesse saputo fin dall’inizio che quest’ultimo era sterile. Il Tribunale oltre alla dichiarazione di nullità del matrimonio, ricorrendone i presupposti dell’art. 122 co. 2 e 3 c.c, considera legittima, la richiesta di disconoscimento avanzata dall’uomo, per l’inesistenza nel nostro ordinamento giuridico di una norma specifica che escluda l’esercizio dell’azione nell’ipotesi in cui sia stato precedentemente prestato il consenso all’inseminazione eterologa. Del resto, nell’ordinamento vigente, come aveva già sottolineato la sentenza del 1956, il rapporto giuridico di filiazione non può prescindere dal rapporto biologico.
Il Tribunale rigettò, inoltre, la domanda di risarcimento proposta dalla moglie riguardante tutti i danni morali e materiali derivanti dalla condotta incoerente del marito e, purtroppo, sofferti anche dal minore, per la perdita del padre, figura indispensabile per assicurarne un equilibrato sviluppo fisico e psichico. La decisione si fondava sul principio che il diritto al disconoscimento di paternità, poiché non soffre preclusione alcuna e resta indisponibile ed irrinunciabile, non può subire limiti, né condizionamenti; ipotesi che, invece, si verificherebbe se in seguito al suo esercizio venisse riconosciuto un onere risarcitorio a carico di colui che se ne avvale. Infine, il Tribunale dichiarò inammissibile anche la richiesta formulata dal curatore nell’interesse del nato, di poter assumere conoscenza dell’identità del donatore del seme col quale fu fecondata la donna.
La decisione del Tribunale di Cremona è stata criticata da gran parte della dottrina, secondo la quale aderendo all’inseminazione eterologa della moglie, l’uomo assume anche gli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, oltre al ruolo educativo ed affettivo di padre; obblighi ed impegni irrevocabili, una volta che sia stata iniziata la gravidanza, che non cessano di essere tali, solo perché é venuta meno l’armonia coniugale. Mettere al mondo un figlio grazie al seme messo a disposizione da un anonimo donatore é una decisione che generalmente viene concordata dai coniugi dopo aver assunto conoscenza della sterilità, tenuto conto del forte desiderio di diventare comunque genitori di un bambino proprio di almeno uno di loro. Poiché, nella procreazione artificiale la volontà assume un ruolo così determinante per la nascita di un figlio, il comune modo di sentire é disposto ad ammettere la revoca del consenso solo fino al concepimento; dopo quel momento la volontà diventa irretrattabile. Del resto, se così non fosse verrebbe violato il diritto dei figli alla certezza e alla stabilità dei rapporti parentali.
Tuttavia, i giudici del Tribunale di Cremona hanno ritenuto ammissibile l’azione di disconoscimento, sulla base dell’art. 235 c.c. che, annovera tra i suoi presupposti, l’impotenza del marito, e sulla base del dovere di fedeltà coniugale (art. 143 co. 2) che non va riferito alla sola sfera sessuale, comprende, invece, anche quella generativa. Il consenso alla violazione della fedeltà é irrilevante, in quanto riguarda un dovere inderogabile ed indisponibile. Ma, come era già stato messo in evidenza da una parte della dottrina, l’art. 235 non é direttamente applicabile in questo caso, in quanto costruito sull’ipotesi che il figlio rifiutato dal marito, sia in realtà frutto di una relazione extraconiugale della moglie con un altro uomo, mentre l’inseminazione eterologa non é affatto assimilabile all’adulterio.
La pronuncia d’appello che ha confermato quella cui si è fatto finora riferimento apporta nuovi tasselli al mosaico della qualificazione del consenso alla fecondazione eterologa. La Corte d’Appello di Brescia, infatti, è cosciente che sia l’art. 235 c.c., sia la normativa sulla adozione sono perfettamente equidistanti dal caso in esame, per cui anche il tentativo di equiparare l’irrevocabilità del consenso all’adozione al consenso all’inseminazione eterologa è destinato a fallire. I principi sottesi, però, alla normativa sull’adozione se pur non possono essere desunti in modo meccanico e pedissequo certamente sono destinati ad essere punto di riferimento nella ricerca di una adeguata normativa di sostegno alle questioni sollevate dall’inseminazione eterologa. Il pregevole ragionamento della Corte bresciana, invece, preferisce riconoscere la qualità di principi generali alla tutela della verità della filiazione e alla indisponibilità degli status, dimenticando di portare ad ulteriori, e forse più convincenti conseguenze, proprio le argomentazioni svolte in tema di adozione le quali certamente sono in grado di lumeggiare l’effettiva portata del c.d. interesse del minore. La Corte, in verità, dinanzi ad un vuoto normativo non se la sente di interpretare il sistema vigente portando alle più logiche conseguenze il proprio ragionamento; afferma infatti che (…) la possibilità che il rapporto di filiazione legittima prescinda da un conforme rapporto biologico si riconnette a scelte del legislatore od a sentenze additive del giudice della legge. Questo esclude una supplenza del giudice ordinario, che non potrebbe, senza stravolgere i suoi compiti istituzionali, introdurre una limitazione prevista dal favor veritatis, attraverso il riconoscimento della rilevanza giuridica del consenso prestato dal marito all’inseminazione artificiale eterologa della moglie.
Su questa linea interpretativa si pongono le considerazioni del Tribunale di Napoli che dopo aver compiuto una lucida analisi delle questioni in esame e recuperate le istanze etico-sociali sottolineate dalla dottrina, ritiene fondata la questione di legittimità costituzionale. Analizzate le impostazioni dei pochi precedenti giurisprudenziali, il Tribunale si fa carico delle obiezioni mosse dalla dottrina, per poi affermare l’assoluta mancanza di una idonea regolamentazione in materia, posto che l’attuale ordinamento giuridico è basato, in effetti, sulla procreazione con metodi naturali, senza alcuna previsione delle varie ipotesi di fecondazione assistita che hanno comportato una vera e propria rivoluzione degli schemi giuridici tradizionali di paternità e maternità(…). Nel caso in esame non siamo in presenza di una vera e propria lacuna legislativa sulla base dei principi espressi in casi simili o in materie analoghe, poste che l’ipotesi concreta integra perfettamente i presupposti della fattispecie giustificativa dell’azione di disconoscimento della paternità ex art. 235 n. 2 c.c. (status di figlio legittimo e impotenza del marito). Manca quindi qualsiasi supporto normativo in base al quale fondare l’esclusione dell’azione di paternità nel caso di consenso prestato dal padre, perché così si introdurrebbe un ulteriore requisito negativo dell’azione previsto dalla legge.

La sentenza della Corte Costituzionale 347/98.
Tutti i dubbi del Tribunale partenopeo, legittimi non solo per l’immediata incidenza sul piano sociale ma anche per i delicatissimi profili interpretativi sollevati, sembrano chiariti in poche battute dalla Corte Costituzionale. Si sostiene, infatti, che la portata dell’art. 235 riguarda esclusivamente la generazione che segua ad un rapporto adulterino, ammettendo il disconoscimento della paternità in tassative ipotesi, ossia quando le circostanze indicate dal legislatore facciano presumere che la gravidanza sia riconducibile, in violazione del dovere di reciproca fedeltà, ad un rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge. In linea di massima, quindi, è pur vero che ipotesi nuove, non previste dalla norma, possano essere disciplinate dalla stessa ma ciò non è certamente possibile nel caso dell’equiparazione dell’ipotesi di disconoscimento di paternità a quelle dissimili disciplinate dall’art. 235 c.c., mancando in assoluto omogeneità di elementi essenziali e identità di ratio. La Corte, quindi, ritiene la questione sollevata inammissibile, visto che l’estensione della portata normativa dell’art. 235 c.c. al caso in esame si risolverebbe in arbitrio. Il giudice delle leggi, così, sembra mostrarsi pronto a consegnare l’ultimo tassello di un mosaico che una interpretazione letterale non aveva mai consentito di chiudere. Ma così non è. La dichiarazione di inammissibilità della questione non consente di prendere posizione nel merito alla Consulta, di tal modo che l’effetto desiderato, l’enucleazione di un principio di diritto vincolante per il giudice della controversia e non solo, viene del tutto frustrato. In questa sede ci si può chiedere se una sentenza additiva, che muovendo da un’interpretazione dei principi costituzionali, individuando nell’interesse del figlio un principio fondamentale della disciplina dei rapporti familiari, interesse che sarebbe eluso se solo fosse accolta l’azione di disconoscimento, avrebbe meglio composto gli interessi in gioco.
Il vero nodo gordiano da sciogliere è, quindi, costituito da “quanto” la sentenza della Consulta vincoli il giudice chiamato a decidere sulla esperibilità dell’azione di disconoscimento di paternità da parte di chi abbia prestato il proprio consenso alla fecondazione eterologa della moglie. In punto di diritto tre sono le soluzioni ipotizzabili:
– la prima è di ritenere la completa vincolatività dell’interprete;
– la seconda è quella della irrilevanza dell’interpretazione fornita;
– la terza è di ritenere la vincolatività dell’interprete ma solo limitatamente ad una interpretazione idonea ad assicurare la protezione dei beni costituzionali della persona nata a seguito di fecondazione eterologa, ma non dell’interpretazione data dell’art. 235 c.c.;
La prima linea interpretativa, che pone come propria base la vincolatività della interpretazione della Corte, sembrerebbe impraticabile visto che il giudice delle leggi non è intervenuto con una pronuncia di merito (anche solo interpretativa, sia di accoglimento che di rigetto).
La seconda che lascia del tutto svincolato il giudice, che, quindi, potrà continuare a seguire la ferma, se pur esigua, interpretazione della giurisprudenza di merito o, forte delle indicazioni, non vincolanti della Consulta, potrà dichiarare la non ammissibilità dell’azione di disconoscimento per mancanza di presupposti e costituire un leading case di un nuovo filone giurisprudenziale, sembra, in punto di diritto, la più corretta. Ma, se il giudice a quo decidesse per l’applicazione dell’art. 235 c.c., opterebbe per quella alternativa che nell’ordinanza di rimessione aveva qualificato del tutto irrazionale, applicando così la norma di legge nel senso da lui stesso già ritenuto non compatibile con superiori precetti costituzionali.
La terza, ad avviso di chi scrive, rappresenta invece la più ragionevole. Infatti, il giudice che dovrà pronunciarsi nel merito, sulla questione in esame, potrà certamente non ritenere vincolante l’interpretazione data dalla Corte dell’art. 235 c.c., in rapporto alla quale, alcuni dubbi sono legittimi, se solo si ricorda che, secondo una parte della dottrina, il legislatore ha attribuito distinta rilevanza alla violazione del dovere di fedeltà nella previsione di cui al numero 3 rispetto al numero 2, dove, per integrare le condizioni previste è sufficiente l’impotenza del marito, rimanendo del tutto irrilevante il modo attraverso cui si è giunti al concepimento. La Consulta, infatti, sul punto, ha omesso di indicare, visto la delicatezza dei problemi sollevati, con motivazione più completa, la via da seguire. Più arduo sarebbe invece l’argomentare circa la presunta non vincolatività delle indicazioni della Corte sulle garanzie da riconoscere al nuovo nato, visto che sono di natura costituzionale, quindi, immediatamente precettive: preminenti sono in proposito le garanzie non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti per la sua formazione, in particolare dagli art. 30 e 31 della Costituzione, ma ancor prima – in base all’art. 2 Cost. – ai suoi diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità. Compito di specificare suddette garanzie è del legislatore ma, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali. Pieni poteri, quindi, al giudice del merito nell’attuare la tecnica dell’interpretazione adeguatrice o del ricorso ai precetti costituzionali come criteri di integrazione del contenuto delle clausole generali (nel nostro caso, l’interesse del minore).
Ai fini pratici, però, la sentenza della Corte una sua immediata incidenza certamente la provocherà: consentirà al giudice del merito, a patto che questi lo voglia, di superare agevolmente la barriera della interpretazione letterale, che, or è poco, sembrava invalicabile, senza dover indicare esatti criteri interpretativi, ma limitandosi ad indicare i dicta del Giudice delle Leggi: (…) il giudice rimettente – pur rilevando la mancanza di una puntuale disciplina legislativa che stabilisca la legittimità o meno ed i limiti della fecondazione assistita, regolando inoltre i rapporti fra i soggetti coinvolti nelle relative vicende, tra cui la posizione del minore – parte dal presupposto che il caso particolare sul quale è chiamato a decidere (nascita di un bambino mediante fecondazione assistita eterologa, in costanza di matrimonio, col consenso di entrambi i coniugi) rientri nella portata dell’art. 235, primo comma, numero 2, cod. civ., ma solleva dubbi di legittimità costituzionale, considerate le conseguenze che egli ritiene di dover trarre da questa disposizione. Sennonché questa norma riguarda esclusivamente la generazione che segua ad un rapporto adulterino, ammettendo il disconoscimento della paternità in tassative ipotesi, quando le circostanze indicate dal legislatore facciano presumere che la gravidanza sia riconducibile, in violazione del dovere di reciproca fedeltà, ad un rapporto sessuale con persona diversa dal coniuge. La possibilità che ipotesi nuove, non previste al tempo dell’approvazione di una norma, siano disciplinate dalla stessa non è da escludersi in generale. Ma tale possibilità implica un’omogeneità di elementi essenziali e un’identità di ratio; nella cui carenza l’estensione della portata normativa della legge si risolverebbe in un arbitrio. È quanto accadrebbe una volta che, ai fini dell’esperibilità dell’azione di disconoscimento di paternità, l’ipotesi in esame fosse equiparata, a quelle, tanto dissimili, previste dall’art. 235 del codice civile.
L’intervento della Consulta, però, (che certamente fuoriesce dalla classica tipologia delle decisioni costituzionali) non ha certamente contribuito, stante la non vincolatività di una pronuncia di inammissibilità, a chiarire in maniera esaustiva tutti i dubbi irrisolti legati al disconoscimento di paternità a seguito di fecondazione eterologa e ad indicare in maniera vincolante la via da seguire aldilà delle mere petizioni di principio.
In dottrina la pronuncia, da una parte, è stata aspramente critica sulla base di questo presupposto: la Corte Costituzionale ove avesse ritenuto fondati i profili di costituzionalità manifestati dal giudice di merito non poteva che dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, primo comma, n. 2 c.c. nella parte in cui consente al marito, affetto da impotenza all’epoca del concepimento, e che ha dato il proprio consenso alla inseminazione artificiale eterologa della propria moglie, di disconoscere il figlio da questa partorito. Diversamente, ove avesse ritenuto insussistenti i dubbi di illegittimità costituzionale, non doveva far altro che dichiarare la questione non fondata.
D’altro canto, invece, si è sostenuto che la declaratoria di inammissibilità che richiami l’autorità rimettente all’assolvimento del compito suo proprio di esegesi della legge conforme a Costituzione, evita sovrapposizioni e contaminazioni tra il livello della interpretazione della norma ordinaria demandato ai giudici comuni (fino al vertice della nomofilachia) e quello ablatorio o correttivo riservato appunto alla Corte Costituzionale. Più in particolare, si è affermato, in rapporto al caso in esame, che la conclusione ermeneutica di inapplicabilità della disciplina sul disconoscimento di paternità ex art. 235, n. 2, citata nei confronti di nati mediante fecondazione eterologa da coniugi consenzienti era comunque già a disposizione del giudice procedente; ed il ragionamento che lo ha condotto a sollevare, invece, il quesito di costituzionalità di quella norma non sfugge ad una interna contraddizione, che ancora una volta, purtroppo, riflette quell’atteggiamento di timidezza dei giudici ordinari nei confronti della Costituzione.

La sentenza 2315/99 della Cassazione.
In quest’ordine di considerazioni si pone una recente sentenza della Corte di Cassazione, che, anzi, insiste su un punto che costituisce la vera chiave di volta del sistema così delineato e che in poche battute era stato risolto dalla Corte Costituzionale: l’effettiva portata dell’art. 235 c.c.. La Cassazione afferma, infatti, che suddetta norma, se permettesse l’azione di disconoscimento con conseguente privazione per il nato della figura paterna, per mezzo di una statuizione giudiziale resa proprio su istanza del soggetto che abbia determinato o concorso a determinare la nascita con il personale impegno di svolgere il ruolo di padre, eluderebbe i cardini dell’assetto costituzionale ed il principio di solidarietà cui gli stessi rispondono.
Il principio di “responsabilità per la procreazione”, previsto nel primo comma dell’art. 30 della Costituzione esige che chi abbia tenuto un comportamento tale da portare alla nascita di un figlio sia poi responsabile della sua formazione. Perciò, non può dirsi meritevole di tutela l’interesse del padre a pentirsi della propria decisione di accogliere un figlio nato grazie all’inseminazione eterologa. Il principio di responsabilità per la procreazione porta a fondare la legittimità del figlio non sulla derivazione biologica, ma sull’assunzione di responsabilità del marito e della madre e, di conseguenza, ad escludere che sia ammissibile l’azione di disconoscimento promossa dal padre. Inoltre, la disputa sulla indisponibilità degli status viene ad essere superata se si ricorda con autorevole dottrina che le diverse ipotesi di disconoscimento disciplinate dal codice hanno tutte come presupposto l’adulterio della moglie, vale a dire il fatto che il figlio della moglie sia stato da lei generato nel rapporto con un altro uomo. Questa peraltro sembrerebbe l’opzione interpretativa scelta dalla Consulta (ma la Corte Costituzionale si è limitata ad affermare l’estraneità della fattispecie oggetto del giudizio alla disciplina censurata comporta l’inammissibilità della sollevata questione) sul presupposto che, se il fondamento dei diversi casi di disconoscimento e della stessa impotenza del marito è l’adulterio della moglie, allora tale disciplina non risulta applicabile né in via diretta né in via analogica al caso di inseminazione eterologa con il consenso del marito.

Considerazioni conclusive in tema di fecondazione artificiale eterologa.
Tutte le pregevoli argomentazioni della Corte di Cassazione, che hanno portato all’unica delle soluzioni plausibili, non esimono da alcuni residuali dubbi legati alla “chiarezza” del dato letterale fornito dall’art. 235 comma 1, n. 2, c.c. che annovera come presupposto dell’azione di disconoscimento la sola impotenza, anche se soltanto di generare..
In questa sede è opportuno chiedersi se forse la Suprema Corte avrebbe potuto percorrere una via diversa.
a) Infatti, senza negare la possibilità per il marito di disconoscere la paternità del figlio, anche se al momento dell’inseminazione artificiale si era impegnato a non chiedere il disconoscimento, si potrebbe affermare che questi dovrebbe, infatti, continuare ad adempiere all’obbligo di mantenimento del figlio. La dichiarazione con cui il marito si era espressamente obbligato a considerare il bambino nato tramite l’inseminazione artificiale quale proprio figlio legittimo e a non disconoscere la paternità può essere scomposta in due parti: l’impegno a non procedere al disconoscimento e l’impegno di considerare il bambino come figlio legittimo. Il primo impegno non vincola il marito. Ma la sua inefficacia non comporta per forza di cose l’inefficacia anche dell’altro impegno: quello, cioè, di occuparsi del bambino come se fosse suo figlio legittimo. E alla base di quest’ultimo impegno ben potrebbe essere ravvisato un contratto a favore di terzo: un contratto, cioè, in forza del quale il bambino ha acquistato nei confronti del marito lo stesso diritto al mantenimento che di regola spetta al figlio legittimo.
b) Diversamente, la fattispecie in esame potrebbe essere ricondotta nell’alveo dell’art. 2043 c.c., superato l’ancoraggio del concetto di ingiustizia del danno alla sola lesione del diritto soggettivo, essendo stata affermata la regola della risarcibilità di ogni lesione di interesse protetto. La condotta incoerente dell’uomo che revoca il proprio consenso consapevolmente prestato provoca un danno ingiusto che richiede un risarcimento del danno. Oltre alle spese di mantenimento, occorrerebbe risarcire la madre e il bambino di tutti i danni connessi alla condotta incoerente dell’uomo. Tali sarebbero lo sconvolgimento psichico per la madre (derivante da un mutato atteggiamento del marito, dai maggiori compiti e carichi educativi gravanti su di lei per la scomparsa della figura paterna e dalla maggiore difficoltà di inserirsi nei normali rapporti sociali essendo divenuta madre di un “figlio di nessuno”), e la perdita per il bambino di una famiglia con due genitori. In verità a questa seconda ipotesi ricostruttiva si possono muovere due obiezioni. i) Se così fosse, avrebbe il diritto di ottenere il risarcimento di un simile danno anche il figlio di coniugi separati, di ex coniugi divorziati, di ex coniugi che hanno ottenuto l’annullamento del loro matrimonio, nonché il figlio naturale riconosciuto da un solo genitore, o anche convivente con un solo genitore ed unicamente da questi educato; ii) se si parte dal presupposto che il diritto al disconoscimento di paternità è ammissibile anche per il caso di fecondazione eterologa, questo non dovrebbe soffrire preclusione alcuna, né limiti, né condizionamenti; ipotesi che, invece, si verificherebbe se in seguito al suo esercizio venisse riconosciuto un onere risarcitorio a carico di colui che se ne avvale.
Le ipotesi ricostruttive sub a) e sub b), pur se presentano un indubbio interesse non consentono una completa tutela del minore. Infatti seguendo queste due linee interpretative, al di là del danno arrecato al minore a livello psicologico, rimarrebbe sempre la lesione delle aspettative successorie e del diritto al nome, inteso come proiezione dell’identità personale e familiare del figlio disconosciuto.

LA FECONDAZIONE ARTIFICIALE POST MORTEM
Premessa sulla fecondazione artificiale post mortem.
Una nuova frontiera del diritto di famiglia, oggetto di recente intervento giurisprudenziale, è costituita dalla fecondazione artificiale post mortem.
Le moderne tecniche sviluppatesi nelle scienze biologiche e mediche hanno consentito la nascita di figli, come visto, senza che un uomo e una donna abbiano alcun rapporto sessuale tra loro, che possano crearsi embrioni dai quali derivi un essere umano dalla fusione di gameti conservati anche per anni, che vengano inseriti nel corpo di una donna embrioni congelati, attraverso la tecnica della crioconservazione, anche quando ormai sono già morti coloro dai quali provengono i gameti stessi.
Recentemente il Tribunale di Palermo si è dovuto occupare di una caso concernente la fecondazione artificiale post mortem: due coniugi danno incarico di procedere alle pratiche di fecondazione medicalmente assistita, ed in particolare all’inseminazione artificiale omologa, ad un Centro di Medicina della Riproduzione, onde ovviare agli ostacoli biofisici che per circa dieci anni avevano loro impedito il concepimento di un figlio. Sopravvenuta la morte del marito, il Centro si rifiuta di eseguire ulteriori tentativi adducendo di non poter accedere alla richiesta per ossequio al Codice di Autoregolamentazione per la Procreazione Medicalmente Assistita che vieta, appunto, all’art. 11 di eseguire la procreazione medicalmente assistita dopo la morte di un partner. Nel caso in esame la richiesta era diretta ad una tutela anticipatoria del proprio diritto all’adempimento del contratto d’opera professionale, attraverso la condanna ad un facere infungibile.

La liceità della inseminazione artificiale post mortem.
L’attenzione in merito alla tematica in esame deve in esame deve certamente soffermarsi sulla liceità del ricorso alle tecniche di procreazione artificiale che superano, per così dire, il limite della vita umana. Dal punto di vista tecnico non vi sono ostacoli insormontabili tant’è vero che l’operazione tecnica procreativa può proseguire anche se sopraggiunge la morte dell’uomo. Il nodo gordiano da sciogliere è, quindi, se tale pratica sia da considerarsi lecita oppure illecita per contrarietà alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume. Recentemente la Corte Costituzionale chiamata a sindacare sulla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 235 del c.c. (nella parte in cui consentirebbe di esperire l’azione per il disconoscimeto di paternità al marito che, affetto da impotenza nel periodo che va dal trecentesimo al centottantesimo giorno prima della nascita del figlio concepito durante il matrimonio, abbia dato il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa della moglie), nel giudicare inammissibile la questione, ha affermato che l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore e, nell’attuale situazione di carenza legislativa al giudice, ricercatore nel complessivo sistema normativo, dell’interpretazione idonea ad assicurare la protezione dei beni costituzionali.
In merito, l’opinione degli studiosi non è pacifica. Da una parte vi è chi insiste sulla portata degli artt. 29 e 30 della Costituzione nel senso della rilevanza costituzionale del figlio ad essere istruito, educato e mantenuto dai <<propri>> genitori, di tal guisa che gli accordi intercorrenti fra i vari soggetti volti a realizzare la fecondazione artificiale dopo la morte del marito debbano essere considerati illeciti, in quanto strutturalmente il nato sarebbe privo della figura paterna. D’altra parte, invece, vi è chi , considerando come indebite le ingerenze dell’ordinamento in questa materia perviene a soluzioni diverse, insistendo sui principi di libertà sessuale e di trasmissione della vita.
Naturalmente l’assolutezza dell’affermazione del diritto di procreare come diritto fondamentale dell’individuo presuppone l’esigenza di un suo contemperamento con altri diritti fondamentali della persona e impone una precisa presa di posizione dell’ordinamento giuridico, che, nell’ambito della procreazione artificiale, deve tradursi in un intervento efficace perché idoneo a conseguire una sistemazione ottimale dei vari interessi coinvolti: quello dei genitori e del figlio, innanzitutto.

L’embrione umano e le iniziate legislative in merito.
Le difficoltà dell’interprete si incentrano sulla definizione di embrione umano conservato nella provetta (in vitro) o in stato di congelamento: non è più parte di un organismo, ma è semplicemente un “progetto uomo” incapace di svilupparsi e di sopravvivere spontaneamente. Ma se dal punto di vista biologico è possibile distinguere l’embrione dal feto (prodotto del concepimento trascorsi tre mesi dalla gestazione), dal punto di vista giuridico ci si trova di fronte a questioni di difficile soluzione. E’ interessante notare come diversi progetti di legge, sulla scia della legislazione e della giurisprudenza straniere sono orientati verso il divieto di ogni forma di sperimentazione dell’embrione, essendo principio fondamentale dell’ordinamento il diritto alla tutela della salute del concepito già nel periodo prenatale. Quindi, tenuto presente che agli embrioni spettano gli stessi diritti fondamentali della persona, essi possono essere sottoposti solo ai medesimi trattamenti ed esperimenti suscettibili di applicazione nei confronti dell’uomo.
E’ illecita la loro sperimentazione e commercializzazione per fini industriali e ogni attività diretta all’embrionicidio, indipendentemente dal fatto che non sussiste ancora una sanzione penale che lo punisca. Ma non manca una parte della dottrina, sia pure minoritaria, la quale partendo dal presupposto che la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, nega che il concepito possa essere considerato portatore di interessi da tutelare come quelli alla vita, all’integrità fisica e alla salute. Ma su questo delicato aspetto sarà opportuno, in seguito, svolgere ulteriori considerazioni.
Nelle tecniche di fecondazione in vitro vengono asportati e fecondati più ovociti congelando gli zigoti formati in eccesso da utilizzare nel caso di eventuale fallimento del primo impianto. In questo caso una volta iniziata la gravidanza residuano un certo numero di embrioni. In questo caso secondo una opzione dottrinale vi sarebbe un divieto di soppressione che viene desunto dal riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali alla salute e alla vita del nascituro, ribadito dall’art. 1 della legge del 22 maggio 1978 n. 194, sull’interruzione volontaria della gravidanza (lo Stato… tutela la vita umana fin dal suo inizio). Questa legge riconoscendo il valore sociale della maternità e garantendo il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, ammette l’interruzione della gravidanza per giusta causa nei primi novanta giorni, ossia quando la gravidanza, il parto, la maternità potrebbero arrecare serio pericolo alla salute fisica o psichica della gestante, in relazione al suo stato di salute, alle condizioni economiche, sociali e familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento od, infine, nel caso di anomalie o malformazioni del concepito.
Anche in questo caso, in assenza di una legge che tuteli gli embrioni crioconservati l’intervento del legislatore è indispensabile per rafforzare la protezione del concepito. Alcune proposte attribuiscono alla donna o alla coppia che, per dar corpo al loro progetto procreativo, hanno creato degli embrioni, il potere di decidere in ordine alla loro destinazione e alle modalità di utilizzazione. La conservazione degli embrioni è consentita per un periodo massimo di cinque anni, trascorsi i quali qualora non desiderino utilizzarli per una gravidanza possono consentirne la distruzione o l’utilizzazione al fine di rendere possibile la gravidanza ad una altra donna, assicurando la riservatezza sull’identità di tutti gli interessati e spogliandosi di ogni potere di rivendicare diritti nei confronti dell’embrione donato o, altrimenti, è possibile autorizzarne l’uso per le ricerche scientifiche presso strutture pubbliche, previo parere di un’apposita commissione istituita presso il Ministero della Sanità.
Un’altra proposta prevede che i centri, ove vengono compiute tali operazioni, creino il numero di embrioni strettamente necessario al rimpianto, e la crioconservazione degli eventuali embrioni in sovrannumero fino a cinque anni. Decorso tale termine, la coppia, mediante un’esplicita volontà scritta, può disporne la distruzione o la conservazione per altri cinque anni, al termine dei quali non ne è più consentita la cessione ad alcun titolo né ai donatori, né ad altre persone od istituzioni.
Alcuni più recenti disegni di legge riconoscono in capo alla coppia di coniugi che ha commissionato l’embrione il diritto di chiedere, l’impianto al direttore della struttura [entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge]. Se la coppia “committente” lascia decorrere inutilmente il termine di due anni, oppure prima della scadenza del termine, rinuncia espressamente per iscritto all’impianto, con una dichiarazione che è irrevocabile, l’embrione è ritenuto adottabile e il bambino diverrà figlio legittimo della coppia richiedente. Questa soluzione non è condivisibile perché per procedere all’adozione di un minore è necessaria una dichiarazione di abbandono morale e materiale. Per giungere ad una adozione prenatale, l’accordo dei coniugi dovrebbe riguardare la volontà di non voler procedere all’impianto, realizzando uno stato di abbandono che consentirebbe al Tribunale per i minori di procedere alla scelta dei nuovi genitori. In questo caso è, però, necessario prevedere domande di adozione che abbiano ad oggetto embrioni ed escludere l’affidamento preadottivo.
Un altro progetto di legge vieta la donazione di ovociti, la manipolazione del patrimonio genetico dell’embrione e dei gameti, prevedendo altresì che la conservazione degli embrioni derivanti dalla fecondazione in vitro è consentita per un massimo di cinque anni. Entro questo periodo, la donna, o la coppia, che non desideri utilizzarli per un gravidanza può consentirne o la distruzione o l’utilizzazione, al fine di rendere possibile la gravidanza di un’altra donna o, infine, autorizzare il loro uso per ricerche scientifiche. In questi ultimi due casi è previsto che la donna o coppia donatrice non possa rivendicare alcun diritto nei confronti dell’embrione donato, che l’utilizzazione dell’embrione può avere luogo esclusivamente presso strutture pubbliche che l’embrione sottoposto a sperimentazione non può essere successivamente utilizzato per ottenere una gravidanza.
Sulla stessa linea si muove un altro disegno di legge che, dopo aver affermato che la normativa si riferisce alle pratiche di procreazione assistita nella specie umana definite a) …, b) …, c) impianto di embrioni umani, conservati o no, di qualsiasi provenienza, statuisce la irrevocabilità dell’impegno, che l’uso delle pratiche procreative non possa costituire motivo valido per la separazione e che comporta l’assunzione della responsabilità parentali per il nuovo nato e che il figlio nato è sempre considerato figlio legittimo dei coniugi.
Impostazione dissimile presenta un diverso disegno di legge che, dopo aver affermato che ogni soggetto umano ha diritto alla tutela attiva della vita e della salute dalla fecondazione dell’ovulo alla morte, vieta la tecnica di fecondazione in vitro e più in particolare la FIVET (fecundation in vitro and embryo transfer) consistente nella fecondazione in vitro dell’ovulo della donna mediante spermatozoi del marito e successivo trasferimento nell’utero della donna. Viene vietato altresì il ricorso a metodiche di procreazione medicalmente assistita per fini eugenetici o selettivi tendenti alla predeterminazione dei caratteri del nascituro, qualsiasi sperimentazione su embrioni umani e la loro utilizzazione in procedimenti e tecniche diversi da quelli consentiti [dalla legge esame], ogni sfruttamento commerciale o industriale di gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali e la crioconservazione di embrioni umani
Stessa linea in un ulteriore disegno di legge che vieta qualsiasi intervento sugli embrioni che abbia finalità diverse da quelle diagnostiche o terapeutiche, e quindi la produzione di embrioni umani per le sole finalità diverse da quelle diagnostiche o terapeutiche e la produzione di embrioni umani per le sole finalità di ricerca e ogni forma di sfruttamento commerciale o industriale di gameti, embrioni, tessuti embrionali e fetali, nonché la maternità surrogata e il prelievo post mortem dei gameti.

I problemi sollevati dalla inseminazione artificiale post mortem.
Privilegiando una impostazione de iure condito, è opportuno ricordare che anche nell’ambito della c.d procreazione artificiale post mortem la casistica può prestarsi variegata. Infatti, se l’uomo muore mentre l’operazione tecnica procreativa é già in corso, lo sperma essendo stato prelevato, o si trova in stato di crioconservazione, o é stato impiegato per formare lo zigote conservato con la tecnica del freddo (tecnicamente sarebbe possibile anche il prelievo dei gameti dopo la morte). I problemi si presentano diversamente a seconda se la tecnica di fecondazione impiegata sia la GIFT ( gamets into Fallop’s tubes) o la tecnica della FIVET. Nel caso di inseminazione artificiale o di GIFT, il problema da affrontare é quello relativo all’attribuzione o meno ad una persona già morta del frutto dell’azione biologica dei suoi gameti; invece, nel caso di FIVET, é quello dell’attribuzione o meno degli embrioni già formati, restando fermo sempre il quesito circa la liceità di una operazione siffatta.
I problemi da affrontare nel caso in cui vi sia un preventivo consenso si pongono in questo ordine i) quale sia la posizione dell’embrione nel nostro ordinamento; ii) quali sono gli interessi meritevoli di tutela nella vicenda in esame e come questi vadano selezionati; più precisamente se occorre differenziare l’ipotesi a seconda del soggetto cui l’interesse pertiene (madre-nascituro) o a seconda della meritevolezza dell’interesse stesso (diritto a nascere-diritto a non nascere); iii) se esistono profili di responsabilità in capo alla madre per aver consentito una nascita priva della doppia figura genitoriale; iv) quale sia lo status del nato con i relativi profili di natura successoria.
Punto di partenza per la risposta ai quesiti suesposti è di individuare nel nostro ordinamento giuridico la posizione dell’embrione, se questi, più in particolare, sia titolare di obbligazioni giuridiche e se possa vantare diritti e poteri.
Alcune riflessioni in tema di danni sofferti dal nascituro nella vita prenatale offrono validi spunti anche in merito alla posizione dell’embrione nel nostro ordinamento. L’iter ricostruttivo potrebbe trovare un valido referente proprio nell’art. 32 Cost., che riferendosi alla tutela della salute dell’individuo, si presenta sul piano soggettivo ampio a sufficienza per abbracciare anche l’embrione quale individuo che sta per diventare persona. Del resto tale formula è propria anche della legge del 1978 n. 833 sul S.S.N., la quale parrebbe spingersi ancora oltre annoverando tra le perseguende finalità la riduzione del tasso di patologia e di mortalità prenatale. A ciò si aggiunge sia la legge sui consultori familiari, tutelante direttamente il prodotto del concepimento, sia quella sull’interruzione della gravidanza. Ma questa impostazione che trova una sua validità ricostruttiva in riferimento al concepito non è certo che possa essere ripresa di pari passo anche per l’embrione non ancora impiantato in utero, come nel caso di specie. È noto che dalla combinazione del concetto di capacità giuridica quale attitudine ad essere titolari di diritti e doveri, con quello per cui vi sarebbe una intima connessione tra capacità e soggettività, discenderebbe necessariamente che titolare di diritti e dunque soggetto, è solo chi sia riconosciuto tale dall’ordinamento. Sarebbe la declarata assenza di capacità dell’embrione, come peraltro del concepito, professata dall’art. 1 c.c. ad impedirne l’ingresso nell’ordinamento. Sicché si sarebbe in presenza di una fattispecie a formazione progressiva, ove elemento perfezionativo per l’acquisto della capacità giuridica, e dunque ad essa coessenziale, sarebbe proprio la nascita del soggetto. In merito, quindi, al presunto diritto dell’embrione a nascere emerge, dunque, una certa impossibilità al suo realizzarsi. Infatti, un correlativo obbligo, che si concreta nell’attivarsi al fine di consentire la nascita dell’embrione, non potrà attuarsi che nel momento in cui verrebbe ad esistenza il soggetto beneficiario, ma allora rileverebbe ormai l’assoluta impossibilità di attuarlo, essendo l’individuo già nato. Sicché se prima di tale momento non rileva un obbligo attuale, dopo esso avrebbe oggetto impossibile. Il dominus, quindi, nella scelta se proseguire nei tentativi di inseminazione artificiale sarebbe solo la madre alla quale spetterebbe la decisione in ordine ai due eventi prospettabili (nascita – non nascita). Se in merito alla scelta di non proseguire nei tentativi di inseminazione ulteriori problemi sembrano non porsi, in rapporto alla decisione di segno opposto il panorama delle considerazioni possibili è di più ampio spettro. Nell’ambito della fecondazione artificiale post mortem il vero nodo gordiano da sciogliere è se sia meritevole di tutela la non-nascita o la nascita senza una doppia figura genitoriale.
Non sembra, peraltro, per sgombrare il campo da equivoci, che sia valida l’obiezione che parte dall’assunto che se nell’ambito della procreazione naturale non sussiste nessun divieto nei confronti della donna nubile che autonomamente decide di avere un figlio per soddisfare la propria aspirazione di maternità solitaria, non si vede perché nell’ipotesi di fecondazione artificiale debba essere negata o impedita: infatti, un comportamento che può essere tollerato dall’ordinamento non necessariamente deve assurgere a comportamento meritevole di tutela; anzi, nei casi in cui la condotta possa essere orientata, ma naturalmente in questa sede si prescinde da qualsivoglia presa di posizione che attiene alla discrezionalità del legislatore, è opportuno un intervento che meglio comtemperi i vari interessi in gioco.
Un valido criterio di soluzione del conflitto potrebbe certamente rinvenirsi nella legge sulla adozione (ricca di cautele nei confronti del minore). Anche in questi casi, però, la vicenda concreta che si presenta all’interprete è diversa: nell’adozione il minore ha alle spalle vicende gravi, mancanze di cure, maltrattamenti che spesso hanno segnato profondamente e magari irrimediabilmente la loro personalità e, necessitano pertanto, di un ambiente idoneo al loro sviluppo psico-fisico, hanno bisogno di una famiglia, il cui ruolo genitoriale materno e paterno si svolgano e si completino vicendevolmente proprio perché non hanno mai avuto una famiglia che assolvesse degnamente alle sue funzioni. Nella fecondazione artificiale post mortem l’alternativa è, come dire, secca, ossia fra non nascere e nascere: solo con l’ultima di queste si riceve la vita, bene supremo, che si pone al vertice dei valori costituzionalmente garantiti.
Va ricordato, però, che, pur nel ricevere il dono della vita deve essere sempre salvaguardata la dignità dell’individuo: ci si può chiedere, allora, se la mancanza programmata della figura paterna possa minarla. Nell’unico precedente noto, il Tribunale di Palermo, in verità, non affronta direttamente questo delicato profilo della questione, sicuro della meritevolezza del diritto di procreare, per la madre, e del diritto al conseguimento della vita, per il nascituro: la scelta del Centro di Medicina della Riproduzione contrasta con diritti personalissimi della madre e del nascituro. Appare pertanto conforme a giustizia risolvere il dubbio circa la validità del contratto nel senso della sua conservazione pur a seguito del decesso di ( … ), non essendovi sufficienti ragioni per prestare ossequio ad un precetto extragiuridico (qual è quello contenuto nel codice di autoregolamentazione) contrario ai principi costituzionali, al diritto positivo vigente, ed ai diritti fondamentali dell’uomo – e del nascituro così come delineati dalle raccomandazioni degli organismi sovranazionali ( … ). Tanto, del resto, risponde anche all’esigenza di tutelare la volontà di procreazione «cosciente e responsabile» riconosciuta dal citato art. 1 della L. n. 194 del 1978, che risulterebbe del tutto frustrata ove mai dovesse negarsi valido ingresso al desiderio espresso dalla C. ( … ).
Mutando prospettiva ci si può chiedere se, con la nascita, l’individuo possa chiedere alla madre un risarcimento del danno ex 2043 c.c. per essere, appunto, nato senza l’apporto della figura genitoriale. La legge, d’altra parte, non precisa se sia possibile conferire rilevanza alla lesione di interessi che si assumono danneggiati in conseguenza di un atto dovuto in un periodo di tempo di molto anteriore al verificarsi degli effetti: si deve perciò concludere che sia possibile una divaricazione temporale tra atto illecito e conseguenze dannose e che, ove si ritenga ingiusto il danno lamentato, si conceda il risarcimento del danno. Il punto nevralgico è allora nuovamente capire se la nascita per il nato possa essere in alcuni casi un danno ingiusto sul presupposto che trasmettere attraverso la generazione una condizione non dignitosa, l’essere orfano in maniera programmata, possa trasformare il dono della vita in un fatto illecito contrario al diritto. A tutto voler concedere, il soggetto agendo ex 2043 c.c. chiederebbe il risarcimento del danno per un fatto che a lui ha dato la vita, chiederebbe che gli vengano risarcite le conseguenze di un fatto che è alla base del giudizio risarcitorio: la sua esistenza. E ciò è inconcepibile.

La nascita dell’embrione.
Ulteriori quesiti l’interprete deve porsi a seguito della nascita.
Se il figlio nasce prima che siano trascorsi 300 giorni dalla morte del marito, si ricade nella previsione dell’art. 232, comma 1 c.c., secondo il quale si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando sono trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio e non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. Perciò, in questo caso, l’ufficiale di stato civile, sulla base delle dichiarazioni ricevute, dovrà provvedere a formare l’atto di nascita di figlio legittimo.
Tuttavia, secondo una parte della dottrina la presunzione potrebbe essere vinta, provando il momento in cui l’inseminazione é avvenuta. Grazie ai progressi scientifici che rendono possibile la determinazione della paternità genetica la regola dell’assolutezza della presunzione di concepimento non sarebbe più valida. Anche in passato si sono verificate situazioni nelle quali l’applicazione della presunzione portava a falsi risultati: in tali casi l’opinione unanime era che non la si dovesse applicare, in quanto priva di ogni razionalità. Del resto, con la legge n. 184 del 1983, che ha permesso l’aggiunta di un quarto comma all’art. 244 c.c. e, quindi, il riconoscimento anche al pubblico ministero del potere d’iniziativa per la nomina di un curatore speciale che eserciti l’azione di disconoscimento, la paternità potrebbe essere messa in discussione anche contro la volontà del marito e della moglie per perseguire un obiettivo interesse del figlio.
Ma, vi é anche un altro strumento efficace per far prevalere, addirittura su iniziativa di estranei, il principio di verità sul favore per la legittimità: l’azione di contestazione della legittimità. Questa azione è volta a rimuovere lo stato di figlio legittimo risultante dall’atto di nascita e può essere esercitata sia da chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore, che da chiunque vi abbia interesse (art. 248 comma 1 c.c. ). Tra le persone interessate ad agire si collocano ad esempio gli altri successibili rispetto al nato che altrimenti sarebbero menomati nell’esercizio dei loro diritti successori.
Impostazione diversa dovrebbe darsi nel caso, invece, di nascita oltre i trecento giorni dalla morte del padre.
Anche in questo caso il dato sistematico da cui partire è costituito dagli artt. 231 e seguenti che prevedono, come criterio per l’attribuzione della paternità legittima, che il concepimento sia avvenuto in costanza di matrimonio. Nel caso della fecondazione artificiale post mortem le opinioni non sono unanimi. Si sostiene, partendo dal presupposto che per concepimento (termine più volte richiamato sia dalla disciplina codicistica che dalla legge sull’aborto) debba intendersi l’inizio della gravidanza, nel caso di ricorso alla tecnica dell’inseminazione artificiale o alla GIFT e di nascita avvenuta trascorsi 300 giorni dalla morte del marito, il bambino, essendo evidentemente stato concepito dopo lo scioglimento del matrimonio, non può essere considerato figlio legittimo. La stessa cosa vale nel caso di inseminazione artificiale realizzata mediante l’impiego della tecnica FIVET: seppure viene fornita la prova che la formazione in vitro dello zigote è avvenuta prima della morte del marito, la conclusione non può essere diversa. Si pensi proprio alla vicenda pervenuta al Tribunale di Palermo, in cui la morte del padre è avvenuta dopo la formazione dell’embrione, ma prima del suo impianto in utero; tra questi due eventi può trascorrere un lungo lasso di tempo, anche di anni (prospettiva non estranea al caso in esame). A rigore, applicando le presunzioni dettate per la disciplina della filiazione legittima, sarebbe possibile dare la prova, prevista nell’art. 234 comma 1 c.c., che il figlio é stato generato durante il matrimonio. Il figlio oltre che legittimo sarebbe considerato anche erede necessario, provocando, così, uno sconvolgimento dell’assetto dato alla successione del defunto, dopo un lasso di tempo che può essere anche di lunga durata e, comunque, insuscettibile di previsioni, essendo esclusivamente rimesso alla volontà umana: vi è, quindi, un’assoluta imprevedibilità del lasso di tempo, anche di anni, che può trascorrere tra la morte di una persona e la nascita di un figlio.
Per quanto riguarda, infine, l’eventuale riconoscimento preventivo, fatto, cioé, mentre era ancora in vita, e nel caso in esame la richiesta era stata avanzata concordemente dai coniugi, prima dell’inseminazione o dell’impianto degli embrioni, muovendo dallo stesso dato letterale, non potrebbe avere alcun effetto. Sarebbe privo dell’oggetto, in quanto non solo non esiste ancora un nato, ma neppure un concepito da riconoscere: l’art. 254 comma 1 c.c. richiede, infatti, che sia avvenuto almeno il concepimento anche se non ancora la nascita. Né, a stretto rigore, é possibile una successiva dichiarazione giudiziale di paternità naturale: l’art. 269 comma 1 c.c. non consente la dichiarazione nei casi in cui il riconoscimento non é ammesso. Ma in realtà questa limitazione non ha alcun fondamento nell’ipotesi di procreazione artificiale: le regole vigenti relative al rapporto di filiazione non escludono a priori la possibilità di dichiarare giudizialmente la paternità del bambino per il solo fatto di essere stato concepito dopo la morte. Non si può ipotizzare che il legislatore con la riforma del 1975 avendo ignorato la materia dell’inseminazione artificiale abbia voluto escluderne anche la dichiarabilità giudiziale.
Secondo un’altra impostazione, invece, se il titolare del seme ha autorizzato in vita la fecondazione dopo la morte, essendo il concepimento avvenuto ad opera del marito, il figlio é legittimo. La soluzione normativa adottata dal codice, nell’art. 234 comma 1 c.c., fa esclusivo riferimento alla fecondazione naturale: se la nascita avviene oltre i 300 giorni dallo scioglimento del matrimonio si presume che il marito non é l’autore del concepimento. Con l’avvento della fecondazione artificiale, invece, il concepimento successivo allo scioglimento del matrimonio non esclude che l’autore dello stesso sia il marito della donna. Così riformulata la questione, non si potrebbe nemmeno obiettare che deriverebbe un trattamento privilegiato riservato al figlio concepito dopo lo scioglimento del matrimonio per morte del padre, rispetto a quello concepito dopo l’annullamento del matrimonio o dopo il divorzio (essendo questi considerato figlio naturale). Il vincolo giuridico, è pur vero, si scioglie per mancanza di uno dei membri della coppia, ma nella coscienza sociale la vedova resta sposa del marito defunto sino ad un eventuale nuovo matrimonio. Diversa é, invece, l’ipotesi del concepimento dopo l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio per divorzio, perché dette cause fanno cessare il vincolo coniugale, rendendo gli ex coniugi degli estranei. Tuttavia, per quanto attiene ai profili successori, il nascituro verrà ammesso alla successione del defunto solo se é già stato concepito al momento dell’apertura della medesima. Se, invece, l’embrione viene congelato, secondo l’art. 462 c.c., il nato partecipa alla successione solo provando che al momento della apertura era già stato concepito, anche se non ancora impiantato nell’utero materno e pure essendo nato oltre i 300 giorni. In questo caso, il nascituro dovrebbe essere considerato erede sotto condizione sospensiva, e i beni dovrebbero essere temporaneamente attribuiti ai chiamati successivi.

Redazione

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