Fatto di lieve entità: illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza attenuante sulla circostanza aggravante della recidiva

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È costituzionalmente illegittimo l’art. 69, quarto comma, del codice penale nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.

Il fatto

All’esame della Corte di Cassazione vi era un ricorso avverso la sentenza della Corte di Assise di appello di Bari, che, in un contesto processuale più ampio (di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti), aveva in particolare accertato la penale responsabilità di cinque imputati, per aver concorso nel delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, ai sensi dell’art. 630 cod. pen., con l’aggravante di cui all’art. 112, primo comma, numero 1), cod. pen., per il numero dei concorrenti nel reato.

In particolare, la Corte di Assise di Appello, diversamente dal giudice di primo grado, aveva riconosciuto in favore degli imputati la circostanza attenuante del fatto di lieve entità, introdotta a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 68 del 2012, atteso che il sequestro si era protratto solo per poche ore nei confronti di un associato al fine di costringerlo a versare la somma di 1.400 euro, quale ricavato della vendita di una piccola quantità di stupefacente affidatagli, e a restituire una pistola appartenente al sodalizio criminale.

Però, nella determinazione della pena nei confronti dei cinque imputati, la Corte territoriale aveva diversificato le loro posizioni in quanto, mentre l’attenuante predetta era stata ritenuta prevalente sull’aggravante del numero di persone per due imputati, ai quali non era stata contestata la recidiva, con conseguente rilevante diminuzione della pena complessiva rispetto a quella inflitta in primo grado, per gli altri tre imputati, invece, la diminuente era stata ritenuta solo equivalente all’aggravante della recidiva reiterata, stante la preclusione posta dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., con conseguente conferma della pena finale di anni venti di reclusione, inflitta dal giudice di primo grado.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Corte di Cassazione, prima sezione penale, sollevava, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza dell’attenuante del «fatto di lieve entità» – introdotta dalla sentenza n. 68 del 2012 della Corte costituzionale, in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 cod. pen. – sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..

Quanto alla non manifesta infondatezza, la rimettente Corte di cassazione sottolineava che nella sentenza n. 68 del 2012 la Consulta aveva affermato che la funzione dell’attenuante del «fatto di lieve entità» è quella di mitigare una risposta punitiva improntata ad eccezionale asprezza «e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale» tenuto conto altresì del fatto che sempre il giudice rimettente aveva ravvisato la violazione dell’art. 27, comma terzo, Cost., «nel suo valore fondante, in combinazione con l’art. 3 della Costituzione, del principio di proporzionalità della pena al fatto concretamente commesso, sul rilievo che una pena palesemente sproporzionata – e, dunque – inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato – vanifica, già a livello di comminatoria legislativa astratta, la finalità rieducativa».

La rimettente passava poi in rassegna le plurime sentenze di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, e, in primo luogo, richiamava la sentenza della Consulta n. 251 del 2012 che – nel dichiarare costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. – aveva rimarcato come due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offensività, siano ricondotti alla medesima cornice edittale con conseguente violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e del principio di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.) deducendosi al contempo come il divieto di prevalenza di cui alla norma censurata impedisca il necessario adeguamento della pena, connotando la risposta punitiva come pena palesemente sproporzionata, avvertita come ingiusta dal condannato, nonché contrastante con la finalità rieducativa della stessa.

La rimettente si soffermava, altresì, sulle successive decisioni del giudice delle leggi, tutte parimenti dichiarative dell’illegittimità costituzionale della stessa disposizione attualmente censurata, in riferimento ad altrettante specifiche ipotesi di reato.

Anche nella fattispecie – concludeva la Corte di Cassazione – è costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del «fatto di lieve entità» nel reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, pur trattandosi di una diminuente comune, che però ha una necessaria funzione di riequilibrio dell’eccezionale asprezza del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 630 cod. pen.

In definitiva, l’impossibilità per il giudice di ritenere prevalente, sulla recidiva reiterata, la diminuente del «fatto di lieve entità» comportava – secondo la Corte rimettente – la violazione degli artt. 3, 25 e 27 Cost. fermo restando che tali questioni di legittimità costituzionale sarebbero state, inoltre, rilevanti in quanto decisive al fine dell’accoglimento, o no, dei motivi di ricorso per cassazione che censuravano la misura della pena inflitta ai tre imputati.

Le argomentazioni sostenute dall’Avvocatura generale dello Stato

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni fossero dichiarate non fondate.

Innanzi tutto la difesa statale poneva in rilievo il carattere facoltativo della recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..

Nel dettaglio, si osservava che, una volta caduto il presupposto dell’obbligatorietà della recidiva reiterata, come ritenuto nelle sentenze n. 145 del 2018 e n. 120 del 2017 della Consulta, il giudice, ad avviso della difesa statale, è tenuto ad applicare l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga che il nuovo episodio delittuoso sia concretamente significativo in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo sicché non c’è alcun automatismo nell’effetto preclusivo di tale circostanza aggravante.

Comunque – osservava l’Avvocatura – l’attuale formulazione dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa dei criteri di bilanciamento delle circostanze non omogenee, aggravanti e attenuanti.

La disposizione censurata, in particolare, risponde all’esigenza di assicurare una sanzione più rigorosa per un fatto caratterizzato da un grado di pericolosità e di lesività più intenso proprio in ragione della recidiva reiterata, che comporta un aumento di pena, in considerazione di un comportamento addebitabile al condannato, il cui effetto è proporzionato alla gravità oggettiva e soggettiva dello stesso.

Secondo l’Avvocatura, inoltre la disposizione censurata, tesa ad offrire una risposta ad un fenomeno che genera allarme sociale, non appariva essere in contrasto con il principio di eguaglianza, né comportava una misura sproporzionata della pena in quanto tendeva ad attuare una forma di prevenzione generale inasprendo il regime sanzionatorio per gli imputati recidivi. 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

In via preliminare, veniva osservato come sussistesse la rilevanza delle questioni in quanto, come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, i motivi di ricorso per cassazione attengevano esclusivamente alla determinazione della pena inflitta dal giudice di appello.

Difatti, veniva a tal proposito rilevato che, se è vero che – come sottolineato dall’Avvocatura generale dello Stato – la circostanza aggravante della recidiva reiterata ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen. è facoltativa e non già obbligatoria, come affermato da questa Corte (sentenza n. 120 del 2017 e ordinanza n. 145 del 2018) e tale è divenuta anche la recidiva di cui al quinto comma dello stesso art. 99 cod. pen. a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 185 del 2015, dovendosi ribadire che, in generale, il giudice è tenuto ad applicare «l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (sentenza n. 120 del 2017) e quindi al giudice è sempre consentito «negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza, non applicando il relativo aumento della sanzione» (sentenza n. 185 del 2015), è altrettanto vero che ciò, però, non revoca in dubbio la plausibilità del presupposto interpretativo dal quale muove la Corte di cassazione rimettente che era investita con il ricorso con cui i tre imputati recidivi contestano solo la misura della pena e non censuravano invece la sentenza della Corte di Assise d’Appello nella parte in cui aveva ritenuto applicabile tale aggravante, pur non obbligatoria.

Sussisteva, quindi, per il giudice delle leggi, la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

Premesso ciò, i giudici di legittimità costituzionale rilevavano come, nel merito, le questioni fossero fondate con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, terzo comma, Cost..

Si premetteva a tal riguardo che, originariamente, il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione era punito con la pena della reclusione da otto a quindici anni, oltre che con la pena pecuniaria della multa.

A seguito dell’allarme sociale provocato, negli anni Settanta, da numerosi episodi di sequestro di persona per conseguire il riscatto per la liberazione – posti in essere da pericolose organizzazioni criminali, spesso con efferate modalità esecutive e connotate di norma dal rischio della perdita della vita per il sequestrato, non di rado con l’esito della morte di quest’ultimo – il legislatore ha quindi adottato plurimi interventi di contrasto (artt. 5 e 6 della legge 14 ottobre 1974, n. 497, recante «Nuove norme contro la criminalità»; art. 2 del decreto-legge 21 marzo 1978, n. 59, recante «Norme penali e processuali per la prevenzione e la repressione di gravi reati», convertito, con modificazioni, in legge 18 maggio 1978, n. 191) – normativa questa avente «i tratti tipici della legislazione “emergenziale”» (sentenza n. 68 del 2012) – e infine si è determinato a innalzare notevolmente le pene edittali, sia nel minimo, sia nel massimo, sostituendo interamente l’art. 630 cod. pen. (art. 1 della legge 30 dicembre 1980, n. 894, recante «Modifiche all’articolo 630 del codice penale»), ma lasciando immutata la descrizione della fattispecie del reato.

In tale nuova formulazione, l’art. 630 cod. pen. ha previsto al primo comma – e prevede tuttora – che chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni.

Il minimo della pena detentiva (venticinque anni di reclusione) è stato, di conseguenza, più che quadruplicato, risultando essere addirittura più elevato – e non di poco – di quello previsto per l’omicidio volontario (punito, nel minimo, con ventuno anni di reclusione: art. 575 cod. pen.). Inoltre, il massimo della pena (trenta anni di reclusione) è stato raddoppiato e portato al limite estremo della pena detentiva (art. 78 cod. pen.), ben oltre il limite massimo di durata della reclusione stabilito in via generale dall’art. 23, primo comma, cod. pen., in ventiquattro anni.

La Corte costituzionale, a sua volta, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., non ha mancato di osservare che si è trattato di «una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza» (sentenza n. 68 del 2012), che finiva per trovare applicazione anche a condotte di assai minore gravità rispetto a quelle che la richiamata normativa emergenziale intendeva contrastare, ma non di meno rientranti nella fattispecie del reato di sequestro a scopo di estorsione, pur potendo trattarsi di «episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore dell’emergenza»; episodi che non vedono il pericolo di vita per la persona sequestrata e che non si inseriscono in un contesto associativo criminale mirato proprio a perpetrare tali condotte delittuose.

Basti pensare che la giurisprudenza riconosce la sussistenza di tale reato anche nell’ipotesi di sequestri di breve o brevissima durata o quando l’autore persegue l’intento di ottenere dalla persona sequestrata una prestazione patrimoniale alla quale ritiene di aver diritto (Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 dicembre 2003-20 gennaio 2004, n. 962) o finanche l’intento di conseguire un vantaggio non patrimoniale, seppur ingiusto (Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sentenza 13 gennaio-1° marzo 2016, n. 8352).

La possibilità di ricomprendere nella fattispecie di reato anche fatti di minore gravità, rilevava la Consulta nella decisione qui in commento, è la ragione dell’introduzione dell’attenuante ad opera dell’art. 3, terzo comma, della legge 26 novembre 1985, n. 718 (Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979), in riferimento al delitto – previsto dal medesimo art. 3 – di sequestro di ostaggi: attenuante (ad effetto speciale) in forza della quale «[s]e il fatto è di lieve entità si applicano le pene previste dall’articolo 605 del codice penale aumentate dalla metà a due terzi».

L’art. 311 cod. pen. stabilisce, poi, che le pene comminate per i delitti previsti dal Titolo I del Libro II del medesimo codice – vale a dire, i delitti contro la personalità dello Stato, tra i quali rientra il sequestro terroristico o eversivo (art. 289-bis cod. pen.) – «sono diminuite quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».

Muovendo proprio dalla comparazione con tale ultima fattispecie di reato, punita anch’essa con la reclusione da venticinque a trenta anni, la Consulta (sentenza n. 68 del 2012) ha ritenuto ingiustificato il trattamento sanzionatorio differenziato e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen. nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita «quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità» rilevandosi al contempo come sia significativo, in particolare, che la medesima Corte costituzionale abbia posto in rilievo che la funzione di tale attenuante, pur comune e non già ad effetto speciale, «consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale» trattandosi di conseguenza di un’attenuante che, ove ricorra il presupposto del «fatto di lieve entità», svolge una necessaria funzione riequilibratrice di una pena particolarmente elevata, introdotta per una specifica ragione di politica criminale in un determinato momento storico ma rimasta immutata in seguito nella stessa cornice edittale.

Orbene, terminato questo excursus normativo/giurisprudenziale, veniva altresì fatto presente che, quando la circostanza attenuante del «fatto di lieve entità» concorre con l’aggravante della recidiva reiterata prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., si ha che il giudice, nel bilanciamento delle circostanze, non può ritenere prevalente tale diminuente, rimanendo possibile, a favore dell’imputato, solo il giudizio di equivalenza dato che la legge n. 251 del 2005 ha riformulato il quarto comma dell’art. 99 cod. pen., introducendo il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante sulla recidiva reiterata, precludendo così in modo assoluto al giudice di applicare, in tal caso, la relativa diminuzione di pena fino a un terzo.

In generale, come più volte rilevato dalla medesima Consulta, deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato dall’art. 69 cod. pen., sono sì costituzionalmente legittime e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore ma sempre che non «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenze n. 205 del 2017 e n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019) non potendo in alcun caso giungere «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (sentenze n. 73 del 2020 e n. 251 del 2012).

In particolare, però, l’art. 99, quarto comma, cod. pen., nel testo risultante dalla legge n. 251 del 2005, è stato oggetto di numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale che hanno restituito al giudice la possibilità di ritenere, nell’ambito dell’obbligatorio giudizio di bilanciamento delle circostanze eterogenee, la prevalenza, rispetto all’aggravante della recidiva reiterata, di singole circostanze attenuanti, che sono state distintamente, di volta in volta, oggetto di verifica di legittimità costituzionale.

Nella maggior parte dei casi, venuti all’esame del giudice delle leggi, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale hanno riguardato circostanze espressive di un minor disvalore della condotta dal punto di vista della sua portata offensiva in quanto riferite alla minore gravità del fatto: così la «lieve entità» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012); la «particolare tenuità» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014); la «minore gravità» nel delitto di violenza sessuale (sentenza n. 106 del 2014); il «danno patrimoniale di speciale tenuità» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017).

Parimenti nella fattispecie in esame del sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cod. pen.) viene in rilievo, come possibile diminuente, una condotta di minore offensività che è tale quando «per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».

Però, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, il parallelismo con le fattispecie oggetto delle citate pronunce non è pieno perché queste ultime hanno riguardato attenuanti a effetto speciale tali essendo quelle che comportano una diminuzione maggiormente significativa della pena, perché superiore ad un terzo (art. 63, terzo comma, cod. pen.) mentre nella fattispecie in esame la diminuente del «fatto […] di lieve entità», che la più volte richiamata sentenza n. 68 del 2012 della Consulta ha inserito, con pronuncia additiva, nell’art. 630 cod. pen., integra una circostanza attenuante ad effetto comune.

In tempi più recenti, però, si rilevava come la Consulta fosse andata oltre dichiarando l’illegittimità costituzionale della stessa disposizione attualmente censurata anche in riferimento a circostanze attenuanti comuni in ragione di altri concorrenti profili di specialità.

In particolare, la diminuente del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. era stata ritenuta espressiva della ridotta rimproverabilità derivante dal minor grado di discernimento dell’autore della condotta e quindi – secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 73 del 2020) – l’inderogabile divieto di prevalenza di tale diminuente sulla recidiva reiterata non è compatibile con l’esigenza, di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo.

Altresì analoga dichiarazione di illegittimità costituzionale ha avuto ad oggetto il divieto di prevalenza della diminuente di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen. che, pur essendo anch’essa un’attenuante comune e non già ad effetto speciale, assolve però, per la peculiarità della fattispecie, ad una «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» nel caso in cui, nel concorso di più persone nel reato ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. pen., il reato commesso risulti essere più grave di quello voluto da taluno dei concorrenti (sentenza n. 55 del 2021).

Allo stesso modo, un’analoga «funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio» può ritenersi che ricorra anche nella fattispecie, ora all’esame della Consulta nel caso di specie, dell’attenuante del «fatto di lieve entità» nel reato di sequestro di persona a scopo di estorsione e ciò essenzialmente in ragione dell’esigenza di mitigare la già ricordata risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza (sentenza n. 68 del 2012) prevista da una legislazione emergenziale che ha elevato notevolmente il minimo e il massimo della pena della reclusione per contrastare gravissimi fatti di criminalità organizzata, ricorrenti in passato ma che ha lasciato inalterata la definizione della fattispecie del reato con la conseguenza di ricomprendere – come si è sopra sottolineato – anche condotte assai meno gravi fermo restando che, come già enunciato in precedenza, l’attenuante della lieve entità del fatto nel reato di sequestro a scopo di estorsione ha una connotazione tutt’affatto particolare, non solo perché inserita nell’art. 630 cod. pen. (non già dal legislatore, ma) dalla Corte costituzionale con pronuncia additiva di illegittimità costituzionale, che ha riequilibrato il regime sanzionatorio, ma anche perché trova speciale giustificazione nelle caratteristiche oggettive della fattispecie incriminatrice e nella particolare cornice edittale della pena atteso che la possibilità di riconoscere tale diminuente si riconnette alla «natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo» ed essa quindi – non dissimilmente dalle diminuenti prese in considerazione dalla citata giurisprudenza della Consulta, aventi ad oggetto fatti di minore gravità (sentenze n. 251 del 2012, n. 105 e n. 106 del 2014, n. 205 del 2017) – rileva marcatamente sul piano dell’offensività in quanto presuppone una valutazione riferita al fatto nel suo complesso in rapporto all’evento di per sé considerato e alla natura, specie, mezzi, modalità della condotta nonché all’entità del danno o del pericolo per la persona sequestrata avuto riguardo alle modalità della privazione della libertà personale e alla portata dell’ingiusto profitto perseguito dall’autore della condotta estorsiva.

La peculiarità del regime sanzionatorio edittale previsto per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione – che vede una pena detentiva molto elevata, sia nel minimo (venticinque anni di reclusione), sia nel massimo (trenta anni), all’interno di una “forbice” ridotta a soli cinque anni – e la necessaria funzione di riequilibrio della diminuente in esame comportano, per il giudice delle leggi, che la disciplina censurata, nel precludere al giudice, nel bilanciamento delle circostanze, la possibilità di prevalenza della diminuente del «fatto di lieve entità» sulla recidiva reiterata, finisce per disconoscere il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto.

Tra l’altro, sempre ad avviso della Corte costituzionale, l’esigenza di assicurare anche per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, attenuato dalla lieve entità del fatto, una pena adeguata e proporzionata alla differente gravità del fatto-reato diventa più stringente proprio in considerazione di tale particolare cornice edittale.

Sotto questo specifico profilo, pertanto, la disposizione censurata, nel precludere la prevalenza sulla recidiva reiterata dell’attenuante del «fatto di lieve entità», vanifica, per la Corte di legittimità costituzionale, la necessaria funzione mitigatrice della pena, che sempre la Consulta, con la sentenza n. 68 del 2012, le ha riconosciuto, non diversamente da quanto ritenuto per la diminuente di cui all’art. 116 cod. pen., «al di là dell’essere essa un’attenuante comune e non già ad effetto speciale» (sentenza n. 55 del 2021).

La scelta del legislatore, infatti, ad avviso del giudice delle leggi, trova un necessario bilanciamento proprio nella facoltà del giudice, nei casi di sequestro di persona a scopo di estorsione in cui il fatto è riconosciuto di lieve entità, di applicare la diminuzione della pena, fino alla misura massima non eccedente il terzo (otto anni e quattro mesi di reclusione) che, in tale marcata estensione, realizza la finalità di riequilibrio di un trattamento sanzionatorio di particolare rigore.

Veniva quindi ribadito il principio della necessaria proporzione della pena rispetto all’offensività del fatto che risulterebbe vanificato da una «abnorme enfatizzazione» della recidiva (sentenza n. 251 del 2012), indice di rimproverabilità e pericolosità, rilevante sul piano strettamente soggettivo fermo restando come sia stato altresì affermato che la recidiva reiterata «riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo» (sentenza n. 205 del 2017).

Per la Consulta, invece, la norma censurata impedisce in modo assoluto al giudice di ritenere prevalente la diminuente in questione, in presenza della recidiva reiterata «con ciò frustrando, irragionevolmente, gli effetti che l’attenuante mira ad attuare e compromettendone la necessaria funzione di riequilibrio sanzionatorio» (sentenza n. 55 del 2021) e, dunque, il divieto inderogabile di prevalenza dell’attenuante in esame non è compatibile con il principio di determinazione di una pena proporzionata idonea a tendere alla rieducazione del condannato ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost. che implica «un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (sentenza n. 185 del 2015).

Sempre per il giudice delle leggi, era altresì violato anche il principio di uguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) in quanto il divieto censurato vanifica la funzione che l’attenuante tende ad assicurare, ossia sanzionare in modo diverso situazioni differenti sul piano dell’offensività della condotta mentre, invece, per effetto di tale divieto, si ha che fatti di minore entità possono essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell’art. 630 cod. pen., per le ipotesi più gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo i medesimi beni giuridici, sono completamente differenti con riguardo «alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo».

In conclusione – assorbita la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 25 Cost. – veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità – introdotta con sentenza n. 68 del 2012 della Consulta, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 cod. pen. – sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..

Conclusioni

Per effetto di tale pronuncia, l’art. 69, c. 4, cod. pen. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..

Pertanto, fermo restando che, ad avviso dello scrivente, tale decisione è sicuramente condivisibile in quanto munita di una motivazione frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico, alla luce di questo intervento della Consulta, ben si potrà adesso chiedere che venga riconosciuta la prevalenza della circostanza attenuante del fatto di lieve entità sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. allorché i proceda per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, di cui all’art. 630 cod. pen..

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio per le ragioni appena espresse, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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