La Corte costituzionale dichiara non illegittimo costituzionalmente l’art. 385, co. 3, c.p.: l’evasione dagli arresti domiciliari vale anche per l’indagato. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon. Per un ulteriore approfondimento, invece, consigliamo il volume “Manuale operativo delle misure cautelari personali – Guida pratica all’applicazione delle misure personali coercitive”, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.
Indice
- 1. Il caso concreto sottoposto al Tribunale di Pisa
- 2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 385, terzo comma, del codice penale, per contrasto con l’art. 25 Cost.
- 3. La soluzione adottata dalla Consulta: l’evasione dagli arresti domiciliari vale anche per l’indagato
- 4. Conclusioni: è infondata la questione di legittimità costituzionale suesposta
- Vuoi ricevere aggiornamenti costanti?
1. Il caso concreto sottoposto al Tribunale di Pisa
Il Tribunale ordinario di Pisa, sezione penale, in composizione monocratica, era chiamato a giudicare nei confronti di una persona imputata del reato di cui all’art. 385 cod. pen. di evasione dagli arresti domiciliari.
Ciò posto, a fronte del fatto che, nei confronti dell’imputato, con riferimento al procedimento penale per il quale il pubblico ministero aveva disposto gli arresti domiciliari in attesa del giudizio di convalida, al momento dell’evasione non era stata ancora esercitata l’azione penale, essendo stata fissata, in un momento successivo, l’udienza di convalida innanzi al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Pistoia per i reati oggetto del suddetto arresto in flagranza e nessun decreto di vocatio in ius era ancora stato emesso.
Sottolineava, dunque, il giudice pisano che la posizione di tale accusato, nel procedimento per il quale era stato ristretto, al momento dell’evasione, era quella di «persona sottoposta alle indagini preliminari» e non di «imputato», deducendo al contempo che, in base al diritto vivente, il terzo comma dell’art. 385 cod. pen. viene applicato anche all’evasione dagli arresti domiciliari della persona sottoposta alle indagini preliminari, pur se la disposizione parla unicamente di «imputato». Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon. Per un ulteriore approfondimento, invece, consigliamo il volume “Manuale operativo delle misure cautelari personali – Guida pratica all’applicazione delle misure personali coercitive”, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.
2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 385, terzo comma, del codice penale, per contrasto con l’art. 25 Cost.
Orbene, alla luce della situazione suesposta, il Tribunale pisano sollevava questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 25 della Costituzione, dell’art. 385, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede, secondo il diritto vivente, che l’indagato possa essere punito per l’evasione dal regime degli arresti domiciliari, nonostante la lettera della norma faccia riferimento esclusivamente all’imputato.
In particolare, l’organo giudicante a quo osservava prima di tutto che che il censurato terzo comma è stato sostituito dall’art. 29 della legge 12 agosto 1982, n. 532 (Disposizioni in materia di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale e dei provvedimenti di sequestro – Misure alternative alla carcerazione preventiva), in epoca antecedente alla riforma del codice di rito che ha introdotto la figura della persona sottoposta alle indagini preliminari, prima di allora non esistente. L’art. 78 del codice di rito previgente, infatti, stabiliva che «[a]ssume la qualità di imputato chi, anche senza ordine dell’autorità giudiziaria, è posto in stato di arresto a disposizione di questa ovvero colui al quale in un atto qualsiasi del procedimento viene attribuito il reato».
Premesso ciò, per il giudice remittente, pur reputandosi consapevole del fatto che il diritto vivente summenzionato si ispiri ad una ratio storica e risponda a esigenze di continuità della norma, in difetto di modifiche della disposizione a seguito dell’introduzione della figura dell’indagato, dirimente sarebbe, però, a suo avviso, la considerazione che la lettera della disposizione censurata precluderebbe un’interpretazione estensiva in quanto essa non prevede quale soggetto attivo anche l’indagato, ingenerando in tal modo una distinzione tra le due posizioni (imputato e indagato), con riferimento alle quali non apparirebbe plausibile il ricorso all’interpretazione estensiva atteso che, nell’ambito della portata semantica del concetto di imputato, non potrebbe essere incluso anche quello di indagato, fermo restando che né tali sostantivi («indagato», «imputato») potrebbero affondare il loro significato nel linguaggio comune o in mutevoli esegesi semantiche essendo, propriamente ed esclusivamente, definiti dal linguaggio tecnico del codice di procedura penale, facendosi al riguardo presente che, dal momento che l’art. 60, comma 1, del vigente codice di procedura penale dispone che assume la qualità di «imputato» colui nei confronti del quale è esercitata l’azione penale e, di conseguenza, prima di tale momento, il soggetto nei cui confronti sono svolti accertamenti penali ricopre il ruolo di «indagato»; questa differenziazione, pertanto, imporrebbe che il significato dell’elemento costitutivo «imputato», quale soggetto attivo del reato di cui all’art. 385, terzo comma, cod. pen., debba essere rinvenuto nella normativa processuale vigente, la quale distingue nettamente tale figura da quella dell’«indagato», determinando, letteralmente, l’irrilevanza penale dei fatti commessi dall’indagato in ragione dell’assenza di una espressa previsione normativa, giungendosi alla conclusione secondo la quale, in un contesto semantico come quello rappresentato, il fare rientrare nella categoria di «imputato» anche la figura dell’«indagato» configurerebbe un’operazione analogica in malam partem.
Né – proseguiva il rimettente nel suo ragionamento decisorio – la prospettazione potrebbe essere smentita dall’obiezione secondo cui, in base alla normativa penale sostanziale, vi sarebbe identità tra imputato e indagato, e ciò in quanto si tratterebbe non di concetti comuni, ma di concetti tecnici, chiaramente ed esclusivamente definiti dal codice di procedura penale vigente, che non trovano altre definizioni né nel codice penale, né in altre «branche del sapere», così come non potrebbero nemmeno essere equiparati a quei concetti, ugualmente tecnici, ma utilizzati dal legislatore penale sostanziale in senso atecnico, in quanto le categorie di imputato e di indagato sarebbero nettamente ed esclusivamente definite dal codice di rito e, al di là di tale collocazione, non si rinverrebbero altrove altri significati.
D’altronde – sempre ad avviso del Tribunale di Pisa – l’equiparazione tra imputato e indagato, voluta dall’art. 61, comma 2, cod. proc. pen., non sarebbe traslabile a fini sanzionatori, trattandosi di una previsione espressamente in favore del reo visto che tale disposizione avrebbe una finalità di garanzia, come si evince non solo dalla rubrica della norma («Estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato»), ma soprattutto dai lavori preparatori – i quali segnalano l’intento «di superare agevolmente il problema tecnico, di non scarso rilievo, rappresentato dalla necessità di fare esplicito riferimento all’indiziato o alla persona nei cui confronti vengono compiuti atti d’indagine ogni volta che, non trattandosi di diritti o garanzie, non fosse risultata applicabile inequivocamente la disposizione estensiva di cui al comma l» (così testualmente, la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, pag. 29) – e dalla stessa legge-delega, evidenziandosi, per di più, sotto tale ultimo profilo, che l’attribuzione di una portata sfavorevole al reo potrebbe integrare un’ipotesi di eccesso di delega atteso che la legge delega ammetteva unicamente estensioni in bonam partem giacché l’art. 2, comma 1, numero 36), della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), nel determinare i criteri direttivi, fa riferimento all’«assunzione della qualità di imputato da parte della persona cui è attribuito un reato nella richiesta del giudizio immediato o direttissimo o per decreto, dell’udienza preliminare, ovvero nella richiesta di una misura di coercizione personale o reale, o comunque nei cui confronti viene formulata una imputazione; estensione delle garanzie previste per l’imputato alla persona nei cui confronti vengono compiuti atti suscettibili di utilizzazione probatoria nell’udienza preliminare, nel giudizio o comunque a fini decisori».
Precisato ciò, si considerava, infine, che, pur a voler attribuire alla norma di cui all’art. 61, comma 2, cod. proc. pen., una portata generale, anche in malam partem, la sua estensione al di là della sfera processuale e, quindi, anche nella dimensione sanzionatoria, in assenza di una espressa previsione, profilerebbe deficit di tassatività e determinatezza.
E, dunque, il rimettente – pur convinto, da un lato, che il diritto vivente sia correttamente ispirato alla ratio del legislatore storico e al ragionevole ed evidente intento pratico di equiparare la posizione dell’indagato a quella dell’imputato, anche in una razionale prospettiva di continuità, e, dall’altro lato, che la mancata espressa previsione debba essere ricondotta ad una mera svista del legislatore, la cui volontà sarebbe invece stata quella di equiparare le due figure – affermava che, in un sistema di legalità formale, di tassatività e determinatezza, volto a tutelare la libertà di autodeterminazione, la svista del legislatore, che determina una estensione della punibilità, «non può mai ricadere sull’individuo».
Chiarito ciò, il rimettente sosteneva, infine, la superabilità anche della possibile ulteriore obiezione secondo cui la dizione di cui all’art. 385, terzo comma, cod. pen., nella parte relativa all’evasione dagli arresti domiciliari, sarebbe da intendersi come norma meramente ricognitiva, in quanto tale fattispecie sarebbe già ricompresa nella portata semantica di cui al primo comma, essendo vero che le espressioni normative «legalmente arrestato» e «detenuto», contenute nel primo comma della disposizione, ben potrebbero − secondo un’interpretazione estensiva sorretta dal senso comune, che potrebbe equiparare arrestato e detenuto perché entrambi privati della libertà personale – ricomprendere anche le ipotesi di evasione dell’indagato dagli arresti domiciliari; tuttavia – obietta il giudice a quo –, la previsione di cui al primo comma dell’art. 385 cod. pen. dovrebbe essere necessariamente letta in combinato disposto con quella di cui al terzo comma che, per l’appunto, prevede l’ipotesi di evasione domiciliare, tenuto conto che una tale enucleazione espressa di evasione dagli arresti domiciliari, in virtù del principio di conservazione del significato degli enunciati normativi, impedirebbe di attribuire, alla disposizione di cui al primo comma, il significato estensivo sopra ipotizzato; in altri termini, per il giudice a quo, sarebbe proprio la presenza del terzo comma a rendere applicabile il primo esclusivamente ai casi di “evasione dalle sbarre”, senza tra l’altro non potendosi ignorare che, pur a non voler condividere tale impostazione, e a voler attribuire al terzo comma valore meramente ricognitivo, la lettura coordinata dei commi primo e terzo determinerebbe un’incertezza normativa atteso che, secondo l’ottica estensiva rappresentata, il primo comma si applicherebbe a ogni evaso (anche all’indagato in regime di arresti domiciliari), mentre il terzo comma soltanto all’imputato, determinandosi in tal guisa un cortocircuito del principio di tassatività e determinatezza e, in ogni caso, «vi sarebbe sì la previsione del reato, ma non nelle forme espresse», come, invece, viene «richiesto dal principio di legalità formale».
Potrebbero interessarti anche:
3. La soluzione adottata dalla Consulta: l’evasione dagli arresti domiciliari vale anche per l’indagato
Il Giudice delle leggi – dopo avere respinto le eccezioni formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri (parte costituita per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato) – stimava la questione suesposta infondata.
Nel dettaglio, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano innanzitutto che l’art. 385 cod. pen., al primo comma, dispone che «[c]hiunque, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade, è punito con la reclusione da uno a tre anni», mentre il censurato terzo comma stabilisce che «[l]e disposizioni precedenti si applicano anche all’imputato che essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato nel provvedimento se ne allontani, nonché al condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale».
Orbene, una volta preso atto che il rimettente si doleva del fatto che il terzo comma, per come interpretato dal diritto vivente, sia applicato anche alla persona sottoposta alle indagini preliminari nonostante la disposizione faccia espresso riferimento al solo imputato, la Corte costituzionale notava come l’articolo censurato abbia subito diverse modifiche e, per quello che qui interessa, il terzo comma, da ultimo, è stato sostituito dall’art. 29 della legge n. 532 del 1982, che ha aggiunto la previsione relativa all’imputato «in stato di arresto nella propria abitazione o altro luogo designato nel provvedimento», acquisendo la formulazione attuale, denotando al contempo che, all’epoca della sostituzione del terzo comma dell’art. 385 cod. pen., era vigente il vecchio codice di procedura penale del 1930, che non contemplava la figura della «persona sottoposta alle indagini» posto che era previsto unicamente lo status di imputato.
Tuttavia, dal momento che, a norma dell’art. 78 del previgente codice di rito, «[a]ssume[va] la qualità di imputato chi, anche senza ordine dell’Autorità giudiziaria, è posto in stato d’arresto a disposizione di questa ovvero colui al quale in un atto qualsiasi del procedimento viene attribuito il reato», imputato era, dunque, colui il quale fosse risultato indiziato di reità in qualsiasi fase del procedimento, compresa quella delle indagini, tenuto conto che l’assunzione dello specifico status richiedeva dati conoscitivi, anche non particolarmente qualificati, idonei a farE ipotizzare il coinvolgimento dell’individuo nei fatti per i quali era stato aperto un procedimento.
In particolare, ad avviso del Giudice delle leggi, tale assetto derivava, naturalmente, quale premessa logico-sistematica, dall’inesistenza di una scissione tra la fase delle indagini preliminari e quella successiva all’esercizio dell’azione penale, cui è correlata l’attuale distinzione tra indagato e imputato fermo restando che, quando ha introdotto la disposizione censurata, il legislatore del 1982 non poteva che fare riferimento alla nozione di imputato prevista, nel codice di rito del 1930 all’epoca vigente, essendo del tutto sconosciuta la figura della persona sottoposta alle indagini.
Invece, è solo con il codice Pisapia-Vassalli del 1988 che si introduce tale figura, correlata alla distinzione, in quella riforma, tra la fase delle indagini preliminari, tesa a verificare la configurazione di un reato e la sua attribuzione a uno o più soggetti, e la fase processuale in senso stretto, in cui il pubblico ministero esercita l’azione penale chiedendo l’accertamento giurisdizionale mediante formale imputazione nel senso che, nell’attuale impianto codicistico, la «persona sottoposta alle indagini preliminari» (detta più comunemente «indagato») è il soggetto nei cui confronti vengono svolte indagini a seguito dell’iscrizione di un fatto a lui addebitato nel registro delle notitiae criminis, considerato che tale qualifica permane fino a che il pubblico ministero non eserciti l’azione penale o fino a che, su iniziativa del pubblico ministero, il procedimento relativo non venga archiviato dal giudice.
Ciò posto, i giudici di legittimità costituzionale notavano oltre tutto che, attualmente, la figura dell’imputato è definita dall’art. 60 cod. proc. pen., a mente del quale tale qualifica si acquista con l’esercizio dell’azione penale.
Il comma 1 di tale articolo, invero, dispone che «[a]ssume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena a norma dell’art. 447, comma 1, nel decreto di citazione diretta a giudizio e nel giudizio direttissimo», facendosene conseguire da ciò che il legislatore del 1982, con il termine «imputato» utilizzato nel censurato terzo comma dell’art. 385 cod. pen. – mutuato, per quanto sopra detto, dal codice di rito del 1930 –, indicava, quale soggetto attivo del reato, una specifica figura, delimitata in un preciso arco procedimentale, vale a dire un arco procedimentale che, per quanto si evince dall’art. 78 del predetto codice, partiva dal primo atto («qualsiasi») del procedimento con il quale gli veniva attribuito il reato per cui si procedeva.
Ebbene, in tale perimetrazione procedimentale rientrava quindi il soggetto nei cui riguardi venivano svolte le indagini, e, dunque, il medesimo soggetto che, nell’attuale codice di rito, assume la qualifica di «persona sottoposta alle indagini» dato che, nell’originario impianto codicistico, l’assunzione dello specifico status di imputato abbisognava solo di elementi, anche non particolarmente qualificati, idonei a far ipotizzare il coinvolgimento dell’individuo nei fatti oggetto del procedimento.
È quindi palese, per la Corte, che la figura dell’indagato, introdotta dal nuovo codice di rito, rientra in tale nozione e in tale segmento procedimentale, trattandosi, cioè, dello stesso soggetto, individuato con un diverso termine.
Di conseguenza, ad avviso della Consulta, contrariamente a quanto paventato dal rimettente, includere la figura dell’indagato nella fattispecie incriminatrice dell’art. 385 cod. pen. non richiede il ricorso all’analogia, tenuto conto altresì del fatto che ciò sarebbe, del resto, vietato dal nostro ordinamento, che preclude il ricorso all’analogia in malam partem nella materia penale, in applicazione del principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. nonché, a livello di fonti primarie, dell’art. 14 delle preleggi e – implicitamente – dell’art. 1 cod. pen. (sentenza n. 447 del 1998), con la conseguenza che «[i]l divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo, e ciò in quanto, nella prospettiva culturale nel cui seno è germogliato lo stesso principio di legalità in materia penale, è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte» (sentenza n. 98 del 2021).
Nel caso in esame, invece, per il Giudice delle leggi, la disposizione deve essere letta alla luce del codice linguistico tecnico del tempo della sua adozione, attribuendo al termine «imputato» il significato proprio del contesto temporale in cui è stato utilizzato dal legislatore; in altri termini, il codice linguistico conferito al termine «imputato» va contestualizzato e letto tenendo presente che esso all’epoca includeva il soggetto che, sempre sulla base delle disposizioni normative pertinenti, oggi ricomprende anche il soggetto indagato poiché, nel perimetro del termine «imputato», utilizzato all’epoca della formulazione della disposizione e mutuato dal codice di rito allora vigente, rientra – al di là del nomen attribuitogli alla luce del nuovo contesto normativo – il soggetto che, secondo il nuovo codice di procedura penale, assume la denominazione di «indagato», sicché nessuna lesione del principio di legalità nei termini dedotti dal rimettente è rinvenibile nella disposizione censurata e nell’applicazione che correntemente se ne fa.
I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, ritenevano non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento all’art. 25 Cost., dell’art. 385, terzo comma, cod. pen., nei termini suesposti.
4. Conclusioni: è infondata la questione di legittimità costituzionale suesposta
La Consulta, con la pronuncia qui in esame, attraverso una “pregevole” valutazione assai articolata, incentrata principalmente attraverso un raffronto comparativo della figura dell’“accusato” in riferimento a quanto era previsto dal codice di rito del 1930 e quello attualmente in vigore, ossia il “Codice Vassalli”, ha ritenuto l’art. 385, co. 3, cod. pen., che, come è noto, prevede che le “disposizioni precedenti si applicano anche all’imputato che essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato nel provvedimento se ne allontani, nonché al condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale”, riferibile pure all’indagato, senza che ciò comporti una violazione di tale precetto normativo per contrasto con l’art. 25 della nostra Legge fondamentale.
Tale norma incriminatrice, quindi, per effetto di tale decisione, continua ad essere applicabile pure nei confronti dell’indagato.
Questa è dunque la novità che connota la sentenza commentata in siffatto articolo.
Vuoi ricevere aggiornamenti costanti?
Salva questa pagina nella tua Area riservata di Diritto.it e riceverai le notifiche per tutte le pubblicazioni in materia. Inoltre, con le nostre Newsletter riceverai settimanalmente tutte le novità normative e giurisprudenziali!
Iscriviti!
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento