Esternalizzazioni e precarietà: l’assistenza tecnica unificata nel settore della giustizia (*)

Undiemi Lidia 18/06/09
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Tra le diverse forme di gestione ed amministrazione della giustizia esistono le politiche di esternalizzazione, che consistono nell’affidamento a terzi di processi organizzativi riguardanti l’attività giudiziaria.
L’outsourcing dei servizi informatici è un percorso che il ministero della Giustizia segue ormai da diversi anni[1].
Rispetto all’ampio ventaglio di questioni che possono emergere in relazione a tale scelta, lo scopo in questa sede è quello di descrivere brevemente la vicenda dei lavoratori “precari” utilizzati per lo svolgimento del servizio informatico e di affrontare, di riflesso, i rischi derivanti dalla fornitura esterna, che sono stati ben documentati in un recente articolo[2].
 
 
Da circa 15 anni, a fronte di esigenze di ammodernamento della struttura pubblica, il Ministero affida la gestione dell’assistenza informatica giudiziaria, la cosiddetta Assistenza Tecnica Unificata (ATU), a società private.
Tale operazione ha coinvolto centinaia di lavoratori, difficilmente quantificabili in quanto assunti da diverse società operanti nel territorio nazionale, e comunque attraverso svariati contratti di lavoro, talvolta addirittura stipulati presso più società, a seconda dell’affidamento della commessa ad un soggetto giuridico piuttosto che ad un’altro. Circa la metà di essi hanno perso il posto di lavoro.
Ciò non significa che non esistono esperti informatici presso gli organici dell’Amministrazione (strutture DGSIA/CISIA), ma solo che questi non sono sufficienti per lo svolgimento della maggior parte delle attività che sono appunto svolte all’esterno.
Definire l’oggetto dell’outsourcing dei servizi informatici è un compito estremamente difficile, sia per la natura del servizio in sé che per la frammentazione della gestione delle attività informatiche in favore di diverse aziende private esterne.
Il servizio informatico è composto infatti da svariate componenti: gestione di sistemi, elaborazione di specifici software, hosting, progettazione e realizzazione di siti web, accesso alle applicazioni in modalità web, gestione delle postazioni di lavoro e tante altre. Ed è proprio per tale ragione che è possibile affidare la realizzazione del servizio a più società.
Tuttavia, l’eccessiva frammentazione nella gestione delle attività informatiche comporta maggiori difficoltà in termini di azioni di controllo e di interventi correttivi, qualora si verificasse una incongrua gestione da parte dei fornitori esterni. E la situazione si complica in modo esponenziale se si tiene conto che spesso i servizi subiscono ulteriori suddivisioni a causa del ricorso al subappalto.
Sicuramente, uno degli aspetti più importanti di tale politica di outsourcing è il rischio di una notevole perdita di tutela nei confronti della magistratura, dei lavoratori e dei cittadini in generale, proprio in ragione della privatizzazione di parte dell’attività del sistema giudiziario.
Prima di entrare nel merito di tale questione, è necessario ripercorrere brevemente l’evoluzione della terziarizzazione del servizio informatico.
 
 
L’esternalizzazione del servizio informatico di Assistenza Tecnica Unificata presso tutti gli uffici giudiziari ha avuto inizio a partire dal 1989.
Dal 1997 e sino al 2007 il ministero della Giustizia ha affidato l’appalto dell’Assistenza Tecnica Unificata (chiamato così fino al 2008) a singole ditte sparse sul territorio nazionale.
Sulla base di quanto affermato in sede di interrogazione parlamentare[3], i lavoratori di tali società appaltatrici risultano impiegati nella gestione dei dati sensibili e dei server, nell’amministrazione delle reti, nella gestione e manutenzione del parco hardware e software, nel supporto totale degli utenti, nella formazione ed altro, con ciò rappresentando l’unico punto di riferimento per ogni problema di natura informatica di Tribunali e Procure, in rapporto diretto con magistrati, cancellieri ed operatori.
Con bando pubblicato nella G.U. del 29/11/2004 è stata lanciata la gara avente ad oggetto la fornitura di servizi di Assistenza Tecnica Unificata, riferita a vari lotti corrispondenti a diverse aree geografiche.
Nel frattempo è entrata in vigore la legge finanziaria 2005 (l. n. 311/2004), che all’art. 1 dispone una serie di criteri finalizzati al miglioramento dell’efficienza operativa della pubblica amministrazione ed al contenimento della spesa pubblica (commi 192, 193 e 194).
E’ stata prevista inoltre l’attuazione del DPCM del 30/05/2005, finalizzato alla individuazione delle applicazioni informatiche e dei servizi per i quali si rendono necessari razionalizzazioni ed eliminazioni di duplicazioni ecc (art. 1).
Sempre nello stesso anno è stato pubblicato il d.lgs. n. 42/2005 relativo Servizio Pubblico di Connettività (SPC) avente diverse funzioni, fra cui la fornitura di servizi di connettività condivisi dalle pubbliche amministrazioni interconnesse e l’interazione della pubblica amministrazione centrale e locale con tutti gli altri soggetti connessi ad internet (art. 6).
Ad aprile del 2005, intanto, le aziende Ois.Com/GruppoCM&C perdono l’appalto relativo alla gara nazionale che vede il suddetto consorzio al terzo posto, la Getronics al primo e la Ibm/Abaco/Sisge al secondo nei vari lotti. Comincia così un periodo nero per gli informatici che svolgono da anni il proprio lavoro presso le sedi giudiziarie, dato che la sorte dei loro contratti di lavoro è legata alla sopravvivenza nel mercato delle società che hanno perso la commessa. All’orizzonte si prospetta il licenziamento, non essendo nemmeno prevista nei contratti di appalto alcuna <> per il personale già operativo negli uffici giudiziari.
Segue l’aggiudicazione del bando emesso nel 2004 relativo all’Assistenza Tecnica Unificata (D.M. 5/12/2005) da parte del Raggruppamento Temporaneo di Imprese (Ibm, Sisge, ecc), impugnata dinanzi al TAR del Lazio che annulla la gara avendo riscontrato gravi irregolarità nelle procedure seguite dal Ministero[4].
A questo punto, l’Amministrazione, anziché rinnovare il bando di gara per l’affidamento del servizio informatico, decide di separare l’oggetto dell’assistenza aderendo all’SPC e provvedendo diversamente per gli applicativi civili e penali.
Intanto il CNIPA indice una gara a procedura ristretta (n. 1/2006, bando di gara pubblicato nella G.U.C.E. del 6/4/2006) per l’affidamento della progettazione, realizzazione e gestione dei servizi di siti web e conduzioni di sistemi (lotto 1) e dei servizi di interoperabilità evoluta e cooperazione e sicurezza applicativa (lotto 2) in favore della pubblica amministrazione nell’ambito SPC.
La gara relativa al lotto 1 (contratto-quadro 4/2007) è stata vinta dal RTI rappresentato da Telecom Italia Sp.a., Datamat S.p.a., Elsag S.p.a. ed Engineering Ingegneria Informatica S.p.a. Il lotto 2 (contratto-quadro 5/2007) è stato invece affidato al RTI rappresentanto da EDS Electronic Data Systems Italia S.p.A. (mandataria) e Almaviva The Italian Innovation Company S.p.A. (mandante).
Per quanto riguarda gli applicativi, giacché il contratto-quadro 4/2007 non contempla l’essenziale servizio di assistenza applicativa ai sistemi in uso, si è resa necessaria la stipulazione nel 2008 di un apposito contratto con RTI composto da CM Sistema S.p.a., Almaviva S.p.a., Eutelia S.p.a., Ois.Com., ISI Ingegneria dei Sistemi Informativi S.r.l., Sistemi Informativi S.p.a. a Società OIS.Com Consorzio. In questo modo si è riusciti ad assicurare l’erogazione dei servizi applicativi al sistema <<legacy>> in uso negli uffici giudiziari, in attesa del definitivo passaggio ai servizi <<web based>>.
Pare dunque che nonostante il Ministero abbia preso accordi con nuove società, per il momento l’assistenza informatica, precisamente applicativa, continua ad essere svolta dai lavoratori delle aziende che già in passato si sono occupati di tale servizio. Ma questa è ovviamente una fase transitoria, che cesserà di esistere quando sarà attuato il definitivo passaggio ai nuovi sistemi. Le nuove società, intanto, hanno predisposto dei call center.
Che fine faranno i lavoratori legati al vecchio sistema? Non si sa.
 
 
Prima di fare delle considerazioni sulla posizione dei lavoratori ATU nei confronti del Ministero e delle svariate società private che indirettamente o indirettamente decidono le sorti del loro posto di lavoro, è necessario aprire una parentesi sul mercato dell’outsourcing.
In Italia un lavoratore coinvolto in politiche di esternalizzazioni è sostanzialmente un lavoratore precario. Non importa se è stato assunto con un contratto di lavoro subordinato o “a progetto”, perché, in ogni caso, finita la commessa che consente all’azienda appaltatrice di pagare gli stipendi finiscono tutti in mezzo a una strada. E non bisogna nemmeno illudersi se si è stati assunti con un contratto di lavoro <> da una grande impresa con una elevata solidità patrimoniale: lo strumento del trasferimento di ramo di azienda ex art. 2112 c.c. consente all’impresa di trasferire settori della propria attività ad altre imprese, compresi i lavoratori che, secondo quanto stabilito dal suddetto articolo, non possono opporsi al proprio trasferimento. E’ così che sono nate moltissime aziende commessa-dipendenti.
Il meccanismo di base è in effetti semplice, e trae forza da vuoti normativi sparsi nel sistema giuridico e da una notevole disinformazione circa gli strumenti di tutela in favore dei lavoratori messi a disposizione dalla legge in queste specifiche circostanze.
Si pensi ad esempio all’ipotesi in cui l’imputazione di un ramo d’azienda ad una determinata società risulta finalizzata ad un intento fraudolento. Il fenomeno, largamente diffuso, si manifesta essenzialmente attraverso la costituzione di una pluralità di società di capitali, le cui azioni o quote appartengono ai medesimi soggetti, al solo scopo di eludere l’applicazione di norme imperative di legge. Lo schema di creazione delle società fittizie dipende dall’obiettivo che si intende raggiungere. Si può attuare la costituzione di più società, anziché di una sola con un numero rilevante di dipendenti, al solo fine di evitare il raggiungimento della soglia numerica prevista per l’applicabilità della normativa sui licenziamenti collettivi e della tutela reale sancita ex art. 18 della l. n. 300/1970. Oppure, con lo scopo di licenziare un certo numero di dipendenti senza passare per i costi e gli oneri previsti nell’ambito delle procedure di licenziamento collettivo, si decide di trasferire i lavoratori in una società destinata ad essere sciolta. O ancora si può creare artificiosamente una società in prossimità della cessione, controllata dall’effettivo cessionario, per evitare di vestire i panni del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori appartenenti al ramo acquisito.
Quello che si censura in queste ipotesi è evidentemente l’abuso della personalità giuridica, ossia della <>.
 
 
Chiusa questa parentesi, si può adesso entrare nel merito della vicenda degli informatici dell’Assistenza Tecnica Unificata.
Occorre anzitutto specificare qual’è il tipo di rapporto che intercorre tra il Ministero e le società fornitrici del servizio informatico, gli informatici e le società fornitrici del servizio informatico, gli informatici ed il Ministero.
Il Ministero e le società fornitrici stipulano un accordo mediante la sottoscrizione di contratti di appalto. Per l’esecuzione dell’appalto la società deve assumere personale, e dunque stipula un contratto di lavoro con gli informatici che dovranno occuparsi dell’assistenza tecnica presso gli uffici giudiziari. Ne consegue che fra il Ministero ed i lavoratori impiegati dall’appaltatore non intercorre alcun rapporto contrattuale: il Ministero usufruisce dell’assistenza informatica non come prestazione di lavoro, bensì come servizio da parte dell’appaltatore. Tuttavia, se si verifica che l’appalto ha come oggetto reale mere prestazioni di lavoro, la pubblica amministrazione incorre nell’interposizione illecita di manodopera ovvero nella somministrazione di lavoro al di fuori dei casi consentiti dalla legge[5].
Nel caso in cui il committente è un soggetto privato, la principale sanzione prevista in tale ipotesi è la costituzione diretta di un rapporto di lavoro in capo all’effettivo datore di lavoro. Sanzione altamente protettiva se si considera che l’interposizione è finalizzata alla deresponsabilizzare dell’effettivo utilizzatore.
Se invece si riscontra un appalto di mere prestazioni di lavoro nell’ambito della pubblica amministrazione, non è possibile ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato tra essa ed il lavoratore. Ciò in quanto, anche se interviene l’elusione di cogenti norme legislative, si deve tenere conto nel settore pubblico della regola del pubblico concorso di cui all’art. 97 della Costituzione. Tale regola è poi concretamente salvaguardata con una serie di disposizioni legislative, che espressamente richiamano la nullità dell’assunzione effettuata senza l’osservanza delle prescritte procedure selettive. Ne consegue che la nullità dell’atto costitutivo del rapporto di pubblico impiego comporta unicamente la sussistenza di un rapporto di fatto con le conseguenze favorevoli di cui all’art. 2126 c.c. Secondo l’art. 36 del d.lgs. 165/2001, poi, nella fattispecie in questione il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le due norme, sostanzialmente, stabiliscono una duplice tutela, ossia il diritto alla retribuzione ed il diritto al risarcimento del danno (aquiliano).
Detto ciò, è evidente che a prescindere dal tipo di tutela predisposta in favore del lavoratore, la pubblica amministrazione che ricorre all’appalto di mere prestazioni di lavoro viola disposizioni imperative. E la cessazione del comportamento illegittimo diventa un atto dovuto, con l’ulteriore impegno da parte dell’Amministrazione di interessarsi affinché i lavoratori coinvolti trovino un’adeguata collocazione.
Da alcune testimonianze dei lavoratori ATU si evince chiaramente che essi stessi si definiscono <>.
Ma queste sono ovviamente solo supposizioni, e quindi tale circostanza potrebbe essere confermata o smentita soltanto attraverso un eventuale ricorso in giudizio da parte dei lavoratori interessati. E qualunque sia la verità, la speranza è che tutto si risolva con il dialogo tra le parti.
Ma giusto per completare il quadro della situazione, c’è da dire che l’ipotesi di appalto di manodopera potrebbe effettivamente configurarsi qualora il servizio di assistenza informatica si riduca sostanzialmente nell’attività dei prestatori di lavoro presso gli uffici giudiziari, senza cioè che ci siano ulteriori mezzi (materiali ed immateriali) forniti dall’appaltatore. Al contrario, se l’attività comprende anche la realizzazione del software su cui si effettua l’assistenza allora si può quasi certamente parlare di appalto genuino.
Depone a sfavore di quest’ultima ipotesi l’analisi dei costi elaborata dal comitato lavoratori ATU per il contratto relativo all’anno 2006-2007. In particolare, pare che dai contratti di fornitura del servizio di assistenza sistemistica e applicativa unificata per alcuni distretti, il corrispettivo sia calcolato principalmente sulla base delle retribuzioni da corrispondere ai lavoratori. Dal prospetto si evince tra l’altro la convenienza economica della gestione delle risorse all’interno della pubblica amministrazione rispetto all’outsourcing.
E’ necessario infine un accenno all’eventuale subappalto del servizio, nonché dei lavoratori. In questo caso, poiché sia il committente che l’appaltatore sono soggetti privati può applicarsi, nell’ipotesi di appalto di manodopera, la sanzione dell’assunzione diretta in capo all’effettivo utilizzatore. Solo dopo aver ottenuto questo è possibile agire in giudizio per chiedere all’Amministrazione il diritto alla retribuzione e il diritto al risarcimento del danno.
Gli informatici dell’Assistenza Tecnica Unificata meritano di essere stabilizzati e di continuare a svolgere il loro lavoro, anche sui nuovi applicativi.
 
 
La precarietà degli informatici dell’Assistenza Tecnica Unificata si ripercuote negativamente sull’intera collettività.
Frammentazione ed instabilità del posto di lavoro conducono alla dispersione di un patrimonio prezioso di professionalità.
E’ altamente discutibile che i magistrati debbano chiamare uno sconosciuto ad un call center per avere assistenza, quando per anni hanno collaborato fianco a fianco con persone con cui hanno instaurato rapporti di fiducia. Non a caso, alcuni magistrati hanno richiesto un intervento urgente in favore di un lavoratore a causa del mancato rinnovo del suo contratto di lavoro con una delle società appaltatrici.
Come ha giustamente evidenziato un autore al quale si rimanda per approfondimenti[6], ai tecnici sono affidati anche i servizi di backup sia degli applicativi (quindi le banche dati di procure e tribunali) che della documentazione proveniente dagli utenti, magistrati compresi.
L’autore sottolinea inoltre il rischio del system management da remoto: alcuni uffici hanno decisamente rifiutato di fornire le richieste autorizzazioni allegando motivi di sicurezza (si veda ad esempio la nota del Tribunale di Salerno del 31/10/2008).
 
 
di Lidia Undiemi**
 
 
 


*              Relazione all’incontro su <<Tutti i numeri della giustizia – Conoscere per informare>>, Aula Magna Corte di Appello di Palermo, 28 maggio 2009.
[1]              I dati e le informazioni contenuti nel presente scritto sono principalmente quelli elaborati dal comitato dei lavoratori ATU.
[2]              V. Carlo Sarzana, L’assistenza Tecnica Unificata nel settore della Giustizia: informatici usa-e-getta?, in questa rivista. Si farà costante riferimento a questo articolo per la ricostruzione dell’esternalizzazione.
[3]              Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-00608 Atto n. 3-00608 Pubblicato il 11 marzo 2009 Seduta n. 169 Armato, De Luca, Incostante – Ai Ministri della Giustizia e del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali. Si consideri inoltre l’interpellanza presentata da Arturo Scotto il 3 maggio 2007 Seduta n. 151.
[4]              Il ministero ha proposto appello al Consiglio di Stato, ma ha poi rinunziato al ricorso stesso per cui il processo è stato cancellato dal ruolo all’udienza del 23/12/2007.
[5]              L’interposizione illecita di manodopera è stata per anni disciplinata dalla l. n. 1369/1960. Tale normativa è stata modificata in modo sostanziale dal d.lgs. 276/2003 che, abrogando la legislazione precedente, ha dettato una nuova regolamentazione attraverso cui ha ampliato le opportunità di ricorso legittimo alla somministrazione di lavoro (fornitura professionale di manodopera ai sensi dell’art. 2 e dell’art. 20), pur mantenendo un divieto generale di ricorso a tale fattispecie contrattuale al di fuori delle ipotesi previste dalla stessa legge, e comunque sottoponendo gli operatori ad uno specifico regime di autorizzazione amministrativa.
[6]              V. Carlo Sarzana, L’assistenza Tecnica Unificata nel settore della Giustizia: informatici usa-e-getta?, cit.
** Membro dell’Associazione Nazionale dei Lavoratori Esternalizzati (ANLE) e della Lega Italiana dei Diritti Umani. Dottoranda di ricerca presso il Dipartimento di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente dell’Università degli Studi di Palermo.

Undiemi Lidia

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