Corte Costituzionale, Ordinanza n. 97/2021
Abstract: La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 97/2021 depositata l’11 maggio 2021, si pronuncia sul tema dell’ergastolo ostativo, da tempo oggetto di pronunce sovranazionali e di costituzionalità. L’attenzione della giurisprudenza a questo tema riguarda la compatibilità dell’istituto stesso con il principio costituzionale della rieducazione del condannato, di cui all’art. 27 Cost.
SOMMARIO: 1. La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione – 2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 253/2019 – 3. La sentenza della CEDU Viola c. Italia – 4. L’ordinanza della Consulta e il monito al legislatore.
La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione
La Corte Suprema di Cassazione, I° Sez. Penale, ha sollevato in riferimento agli artt. 3, 27 III° e 117 I° della Costituzione, questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 4-bis I° comma e art. 58-ter della legge 354/1975[1], nonché dell’art. 2 del d. l. n. 152/1991[2], nella parte in cui si esclude che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste che non abbia collaborato con la giustizia.
A titolo di mera premessa, utile al lettore per comprendere la vicenda de qua, risulta necessario aprire una breve parentesi in merito alla concessione della liberazione condizionale per i detenuti condannati alla pena dell’ergastolo (in particolare, all’ergastolo ostativo).
La pena dell’ergastolo, sancita nel nostro codice penale all’art. 22 c.p.[3], è da sempre oggetto di pronunce sovranazionali e di costituzionalità, in relazione al principio della rieducazione del condannato e della funzione stessa della pena, principio cardine sancito all’art. 27 II° Cost.[4] In particolare, per i detenuti condannati per delitti di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario[5] in regime di ergastolo ostativo, possono usufruire del beneficio della liberazione condizionale[6] solamente attraverso la collaborazione con la giustizia.
Il beneficio sancito dall’art. 58-ter[7] dell’ordinamento penitenziario legittima l’applicazione della pena dell’ergastolo, visto che l’art. 22 c.p. è una norma presente nel nostro ordinamento giuridico a partire dal Codice Rocco[8], emanata precedentemente all’entrata in vigore della Costituzione.
La norma in esame, secondo i giudici del Supremo Consesso, presenterebbe dei presunti profili di incostituzionalità, in quanto non beneficerebbero della liberazione condizionale i detenuti sottoposti alla condanna dell’ergastolo qualora non decidessero di collaborare con la giustizia.
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Il presente testo affronta in modo completo e approfondito la disciplina del processo penale, permettendo uno studio organico e sistematico della materia. L’opera è aggiornata alla L. n. 7 del 2020 di riforma della disciplina delle intercettazioni, al D.L. n. 28 del 2020 in tema di processo penale da remoto, ordinamento penitenziario e tracciamento di contatti e contagi da Covid-19 e alla più recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Giorgio SpangherProfessore emerito di procedura penale presso l’Università di Roma “La Sapienza”.Marco ZincaniAvvocato patrocinatore in Cassazione, presidente e fondatore di Formazione Giuridica, scuola d’eccellenza nella preparazione all’esame forense presente su tutto il territorio nazionale. Docente e formatore in venti città italiane, Ph.D., autore di oltre quattrocento contributi diretti alla preparazione dell’Esame di Stato. È l’ideatore del sito wikilaw.it e del gestionale Desiderio, il più evoluto sistema di formazione a distanza per esami e concorsi pubblici. È Autore della collana Esame Forense.
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La sentenza della corte Costituzionale n. 253/2019
Fatta questa breve premessa, la Corte Costituzionale con ordinanza n. 97/2021, a seguito della questione di legittimità sollevata dalla Prima Sezione Penale della Cassazione, si sofferma su due pronunce giurisprudenziali: in primis la sentenza della medesima Corte n. 253/2019[9] e successivamente la sentenza della CEDU (Viola contro Italia) del 7 ottobre 2019[10].
Prima di entrare nel merito del giudizio di costituzionalità, la Corte dichiara fondata la questione sollevata dal Supremo Collegio, dopo aver superato il vaglio del giudizio di rilevanza e di non manifesta infondatezza. Superato il giudizio di ammissibilità e dichiarata la questione fondata, la Corte apre il giudizio di merito di costituzionalità.
In primis, la Corte Costituzionale si sofferma sulla pronuncia n. 253/2019[11], che aveva già precedentemente affrontato la materia de qua, dichiarando l’illegittimità costituzionale del divieto di accordare permessi premio in caso di condanna alla pena dell’ergastolo per reati “ostativi”, sottolineando che il giudice, superando questa presunzione, possa in concreto valutare ed eventualmente valorizzare situazioni di sicuro ravvedimento.
In particolare, sempre nella medesima sentenza, la Corte sottolinea che: «Tale necessità si manifesterebbe nei casi in cui la probabilità di seri e profondi mutamenti della personalità del detenuto è resa elevata dalla rilevante durata del percorso carcerario e dal lungo tempo trascorso dal fatto[12].» Inoltre, aggiunge la Corte: «La collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali[13].»
La posizione della Consulta appare fondamentale, visto che attraverso questa sentenza[14] si è introdotta la possibilità di concedere permessi premio ai condannati per reati ostativi anche quando non abbiano collaborato con la giustizia.
Un opposto orientamento giurisprudenziale si ha con la pronuncia n. 135/2003[15], dove la Consulta ha affermato che: «L’inaccessibilità alla liberazione condizionale, per il detenuto che non collabora, non è frutto di un automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità prevista dalla disposizione censurata. L’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale è insomma una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis, primo comma, l. n. 354/1975, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo[16].»
Salvo questa pronuncia minoritaria, già a partire dalla sentenza n. 306/1993[17], la stessa giurisprudenza costituzionale maturata sulla disciplina “ostativa” converge, tuttavia, verso un diverso un orientamento.
3. La sentenza della CEDU Viola c. Italia
In seconda analisi, come affermato in apertura di questo contributo, la Corte Costituzionale richiama anche la giurisprudenza sovranazionale europea, in particolare la pronuncia della CEDU (Viola c. Italia).[18] A partire della sentenza della Grande Camera del 12 febbraio 2008 (Kafkaris c. Cipro)[19] fino alla più recente (Viola c. Italia) del 2019, la Corte di Strasburgo ha affermato che la compatibilità delle previsioni di una pena perpetua con la CEDU, ed in particolare con l’art. 3 della stessa Convenzione[20], che fa divieto di sottoporre a chiunque a tortura, a pene o trattamenti inumani e degradanti, è subordinata al ricorrere di determinate e specifiche condizioni.
La CEDU ha infatti affermato che: «L’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante (oltre che eventualmente inumano), a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società[21].» In particolare, afferma la Corte di Strasburgo: «Considerare la collaborazione con le autorità quale unica dimostrazione possibile della dissociazione del condannato conduce a trascurare gli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, non è escluso che la dissociazione con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia[22].»
Terminata la breve analisi di queste due pronunce giurisprudenziali, è necessario entrare nel merito nella questione di legittimità sollevata dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione.
4. L’ordinanza della Consulta e il monito al legislatore
L’ordinanza di rimessione censura le norme sopra indicate, in quanto introducono a carico del condannato per siffatti reati “ostativi” che non collabora utilmente con la giustizia, una presunzione di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata. In virtù di tale presunzione assoluta in quanto non superabile se non per effetto della stessa collaborazione, il complesso normativo censurato comporta che le richieste del detenuto di accedere alla liberazione condizionale siano dichiarate in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del giudice di sorveglianza.
Per il condannato all’ergastolo non collaborante, la pena perpetua de iure si trasformerebbe, di conseguenza, in una pena perpetua de facto[23].
Nel presente giudizio si tratta di sottoporre a scrutinio la norma di cui all’art. 58-ter l. n. 354/1975, nella parte in cui non consente che un soggetto condannato all’ergastolo, il quale non collabori utilmente con la giustizia, possa chiedere, dopo un lungo tempo di carcerazione, una valutazione in concreto circa il suo ravvedimento, premessa per l’accesso alla libertà condizionale e quindi per l’estinzione della pena.
Entrando nel merito della quaestio iuris sollevata dal Supremo Consesso, la Consulta apre il giudizio di costituzionalità con una breve premessa: «La presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità de suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino.[24]»
Fatta questa breve premessa, la Corte Costituzionale attua lo schema cd. “Cappato”[25], lasciando il termine di un anno al legislatore per intervenire.
Secondo il disposto contenuto nell’ordinanza de qua: «Risulta noto, tuttavia, come il “catalogo” della prima fascia di reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. comprenda ormai reati diversi, relativi alla criminalità terroristica, ma anche delitti addirittura privi di riferimento al crimine organizzato, come i reati contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale. Emerge così l’incerta coerenza della disciplina risultante da un’eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo, senza modificare la condizione dei condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata.[26]»
Inoltre, secondo la Corte: «I condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit., pur se non collaborano utilmente con la giustizia, possono attualmente essere valutati al fine di ottenere uno o più permessi premio[27]. All’esito di una pronuncia di accoglimento delle odierne questioni, i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure alternative – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà[28].»
Per i motivi su esposti dalla Consulta: «Un accoglimento immediato delle questioni proposte, comporterebbe, in definitiva, effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame[29]. Si tratta di tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità, ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti.[30]»
In attesa di un intervento del legislatore in materia, tale da incidere sulla normativa de qua, la Corte rinvia la discussione di tale procedimento all’udienza del 10 maggio 2022, concedendo al parlamento un congruo tempo per affrontare la materia.
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Note
[1]Legge n. 354/1975: Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure provative e limitative della libertà.
[2]D. l. 152/1991: Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzativa e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa.
[3]Art. 22 c.p.
[4]Art. 27 Cost: “[….] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
[5]Legge n. 354/1975, cit.
[6]Art. 50 l. n. 354/1975.
[7]Art. 58-ter l. n. 354/1975: “I limiti di pena previsti dalle disposizioni del comma 1 dell’articolo 21, del comma 4 dell’articolo 30- ter e del comma 2 dell’articolo 50, concernenti le persone condannate per taluno ((dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1quater)) dell’articolo 4- bis, non si applicano a coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”.
[8]L’attuale codice penale italiano è denominato anche “Codice Rocco”, dal nome del guardasigilli (Ministro della Giustizia) dell’ epoca fascista, Alfredo Rocco.
[9]Corte Costituzionale, sentenza n. 253/2019.
[10]Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Viola c. Italia, 7 ottobre 2019.
[11]Corte Costituzionale, sentenza n. 253/2019, cit.
[12]In questo senso, Corte Costituzionale, sentenza n. 253/2019, cit.
[13]In questo senso, Corte Costituzionale, sentenza n. 253/2019, cit., Corte Costituzionale, sentenza n. 306/1993.
[14]Corte Costituzionale, sentenza n. 253/2019, cit.
[15]Corte Costituzionale, sentenza n. 135/2003.
[16]Corte Costituzionale, sentenza n. 135/2003, cit.
[17]Corte Costituzionale, sentenza n. 306/1993.
[18]Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza Viola c. Italia, 7 ottobre 2019.
[19]Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Kafkaris c. Cipro, 12 febbraio 2008.
[20]Art. 3 CEDU.
[21]Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza Viola c. Italia, 7 ottobre 2019, cit.
[22]Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza Viola c. Italia, 7 ottobre 2019, cit.
[23]In questo senso, Corte Costituzionale, ordinanza n. 97/2020, punto 2, cit.
[24]In questo senso, Corte Costituzionale, ordinanza n. 97/2020, punto 9, cit.
[25]Si rinvia, alla vicenda nota di Marco Cappato, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019.
[26]In questo senso, Corte Costituzionale, ordinanza n. 97/2020, punto 10, cit.
[27]In questo senso, Corte Costituzionale, sentenza n. 253/2019, cit.
[28]In questo senso, Corte Costituzionale, ordinanza n. 97/2020, punto 10, cit.
[29]In questo senso, Corte Costituzionale, ordinanza n. 97/2020, punto 10, cit.
[30]In questo senso, Corte Costituzionale, ordinanza n. 97/2020, punto 9, cit.
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