Egoismo e Responsabilità

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Vi è nella responsabilità un “dovere” di risposta coniugato ad una “libertà” di scelta che si risolve in ambito giuridico, nella “imputabilità” al singolo delle azioni e delle sue conseguenze, in ambito morale in un obbligo di valutazione correlato agli altri del proprio agire.

Max Weber a fronte della tragedia della Grande Guerra parla di una “etica della responsabilità”, dell’agire tenendo conto degli effetti delle proprie azioni, contrapponendola a quella che lui chiama l’ “etica della convinzione”, in cui si giudica sulla base dell’intenzione fornendo un giudizio morale sul movente e non sugli effetti.

Nell’impossibilità di sostenere un “libero arbitrio assoluto” senza la presenza di alcun determinismo si deve introdurre una “responsabilità della riflessione”, ossia la necessità della presenza di una valutazione adeguata alle conseguenze, di un controllo razionale dei mezzi impiegati e delle loro conseguenze in cui i “valori” costituiscono premessa e coordinate dell’agire.

Questa etica della responsabilità è da Hans Jonas estesa anche a coloro che non sono ancora nati fino a ricomprendere l’intera biosfera, infatti vi è un dovere per chi ha potere di agire per il bene di coloro che da lui dipendono, un dovere essere fatto che nel proiettarsi supera la semplice rendicontazione di ciò che è stato fatto, in questo completando e saldandosi con la “sostituzione vicaria” richiamata da Bonhoeffer, nella quale vi è attraverso l’assunzione di responsabilità nei confronti degli altri il tratto distintivo dell’uomo rispetto agli altri esseri animati, tuttavia questo può risolversi in arbitrio senza il riconoscimento delle altre responsabilità proprie dell’uomo.

Ne discende una particolare responsabilità per il politico il quale deve agire “per” anziché “su” gli amministrati, con una responsabilità che investe ogni aspetto dell’esistenza in una costante continuità nel tempo tale da rinsaldare l’identità collettiva.

In quest’opera nasce l’esigenza per il politico di sviluppare le potenzialità dell’uomo anziché renderlo un semplice lacchè o automa, ma tale necessità può realizzarsi solo creandone le condizioni, ossia l’ambiente idoneo per la collettività futura, ciò non può accadere tuttavia in senso deterministico attraverso una precisa consequenzialità di atti predeterminati, ma sarà la responsabilità per gli effetti dei singoli atti a dare luogo al complesso imprevedibile del futuro, si passa pertanto da un’etica kantiana individuale ad una collettiva politica nella quale il tempo, quale tensione verso il futuro, assume una propria autonoma dimensione.

La necessità del valutare la collettività dell’essere umano proiettata nel futuro evidenzia il tessuto della comunicazione linguistica quale substrato nella relazione intersoggettiva ( Habermas), da cui ne deriva una “comunità ideale di comunicazione” quale misura di responsabilità e moralità sulla natura consensuale delle norme che devono guidare l’agire pratico anche sulla valutazione dell’impatto tecnologico ( Apel), ma proprio la complessità delle valutazioni fa sì che tale “comunità ideale” non sia che una galassia di un insieme di comunità ideali differenziate tra loro, nel quale solo una comunicazione politica può costituire l’interconnessione.

In questo processo, sebbene Sartre assolutizzi la responsabilità di ciascun individuo, Derrida nega la possibilità di una “imputabilità” giuridica assoluta per il singolo se non ci si riferisce al contesto del suo agire, tuttavia bisogna evitare di giungere ad automatismi comportamentali in cui venga archiviato quello che Arendt definisce il “gesto del pensare”, anticamera per una deresponsabilizzazione che giustifichi qualsiasi arbitrio derivante dalla manipolazione delle coscienze, infatti solo dalla “facoltà di giudizio” può provenire quel nesso tra morale e diritto che costituisce la responsabilità personale giuridica da calarsi nella più ampia “etica della responsabilità” descritta da Jonas.

La “libertà” di giudizio che appare alla base della “facoltà” di giudizio sembra premettere a sua volta una “volontà” di giudizio che Nietzsche interpreta come inclinazione al comando, volontà di potenza al di là del semplice desiderio, che viene a risolversi in un piacere di comando e arbitrio, un surplus di forza rimesso all’esclusivo giudizio kantiano del singolo, vi è insito in questo un potenziale difetto di giudizio che aleggia semplicemente su tutti i campi umani del sapere, un errore sempre in agguato anche in qualsiasi norma o regola imposta dall’esterno al comportamento umano ( Arendt).

Solo il principio di una “etica della responsabilità” può essere parametro di giudizio, contraltare all’eccessivo ideologico individualismo sociale (Dumont) tratto comune nella modernità con l’ universalismo (Simmel), una differenza individuale propria delle differenziazioni culturali ed economiche insite nella crescita della società moderna, la quale giustifica sé stessa sulla crescente qualità della forma di vita sociale, ne consegue che l’individualismo deve sfociare nella cooperazione strategica in presenza di obiettivi sociali comuni in un’alternarsi di cooperazione/conflitto, contrapposto alla mera ed esclusiva egoistica competizione di tipo atomistico (Genovese).

Nell’evoluzione vi è la ricerca di una giusta combinazione fra selezione del gene e selezione di gruppo al fine di una continua adattabilità all’ambiente che l’uomo stesso in buona parte ha creato, in questa strategia mista intervengono i “geni culturali” quale eredità culturale nel definire il rapporto ottimale del campo da gioco (Lunsden- Wilson) ; al bagaglio genetico del comportamento si sovrappongono le condizioni generali determinate dai meccanismi della selezione di gruppo, sì ché ad una strategia pura singola di primo livello si aggiunge ed interseca una strategia mista di secondo livello nella quale il gioco è visto nella sua interezza ( Mérò ), anche se vi è sempre uno stato d’animo in qualsiasi ragionamento, un portare all’eccesso un rapporto, un sistema non solo per fini utilitaristici ma quale gioco in cui sfidare ed esaltare il proprio sé contro gli altri, quale volontà di potenza.

Scrive Huizinga, “Il guastafeste è tutt’ altra cosa che un baro. Quest’ ultimo finge di giocare il gioco. In apparenza continua a riconoscere il cerchio magico del gioco. I partecipanti al gioco gli perdonano la sua colpa più facilmente che al guastafeste, perché quest’ultimo infrange il loro stesso mondo…. Perciò egli deve essere annientato; giacché minaccia l’esistenza della comunità “giocante”…. Anche nel mondo della grave serietà, i bari, gli ipocriti, i mistificatori hanno sempre incontrato più facilitazioni dei guastafeste: cioè gli apostati, gli eretici, gli innovatori e i prigionieri della propria coscienza”.” ( p. 15 – Homo ludens, Einaudi 1973).

Bibliografia

  • M. Weber, L’etica della responsabilità, La Nuova Italia 2000;

  • M. Furiosi, Uomo e natura nel pensiero di Hans Jonas, Vita e Pensiero 2003;

  • M. Vergini, Jacques Deridda, Bruno Mondadori 2000;

  • H. Arendt, responsabilità e giudizio, Einaudi 2004;

  • L. Dumont, saggi sull’individualismo, Adelphi 1993;

  • W. Adorno, La crisi dell’individuo, Diabasis 2010;

  • G. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità 1989;

  • R. Genovese, Com’è possibile un individualismo sociale ? , 2011 – web. Kainos-prtale.com;

  • N. Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. III, Utet 1974;

  • L. Mérò, Calcoli umani. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Dedalo ed. 2005;

  • C. J. Lumsden – E.O. Wilson, Genes, Mind and Culture, Harvard University Press 1981.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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