E’ colpevole il datore di lavoro che espone a rischi inutili i propri dipedenti

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Nei casi di infortunio sul lavoro il dipendente non ha responsabilità se le azioni imprudenti sono una consuetudine nota all’azienda.

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 12562 depositata il 04/06/2014, rileva la responsabilità del datore di lavoro per non aver adottato tutte le misure di sicurezza atte ad evitare il verificarsi di un infortunio che ha provocato la morte di un dipendente.

Il lavoratore N.C., dipendente della C.S. s.p.a., subiva un infortunio mortale in data 06/05/1991, cadendo in una “vasca contenente il pietrame”, nel tentativo di sbloccare un macchinario. Gli eredi di N.C. proponevano ricorso al Tribunale di Matera. Anche l’Inail presentava separatamente ricorso di regresso nei confronti della società in riferimento alle spese sostenute per l’assegno funerario e per la rendita ai familiari.

Il Giudice del lavoro condannava la società al risarcimento del danno e accoglieva il ricorso dell’Inail procedendo alla liquidazione della “rivalutazione monetaria e degli interessi legali dal dovuto al soddisfo”. La Corte d’appello di Potenza, riformando parzialmente il giudizio di primo grado, condannava la società C.S. s.p.a.  al pagamento degli importi già liquidati dal primo giudice, “oltre agli  interessi legali sulle somme devalutate dalla data dell’infortunio e rivalutate annualmente sino alla data di pronuncia della sentenza, aggiungendo gli interessi al tasso legale sul capitale rivalutato da tale momento sino al soddisfo”.

Contro la decisione la società proponeva ricorso in Cassazione.

Il ricorso è articolato su tre motivazioni di fondo:

  • omesso riconoscimento di una colpa in capo al dipendente, per aver compiuto, nell’atto di sbloccare il macchinario,operazioni inusuali, rischiose e non conformi alle mansioni affidate;
  • violazione dell’articolo 112 c.p.c. ex art. 360 n. 4 c.p.c., per avere la Corte territoriale , riformando la sentenza di primo grado,  condannato il ricorrente al pagamento degli importi indicati nella sentenza stessa con la maggiorazione degli “interessi legali sulle somme devalutate dalla data dell’infortunio e rivalutate annualmente fino alla pronuncia della sentenza e gli interessi al tasso legale sul capitale rivalutato da tale momento fino al soddisfo”;
  • violazione da parte della Corte territoriale degli artt.1916 c.c., 11 e 12 D.p.r. n.1124/65 in relazione all’articolo 360 comma 1 n.3 c.p.c. per avere liquidato in favore dell’Inail l’importo di euro 292.730,03 senza che l’istituto ne avesse dimostrato l’effettivo fondamento.

Con riferimento al primo motivo, il ricorrente lamenta l’errata ricostruzione dell’accaduto, evidenziando una lacuna interpretativa del Giudice territoriale, il quale non ha tenuto conto del comportamento imprudente del dipendete che ha operato senza applicare le dovute precauzioni. In particolare il lavoratore non ha fermato l’impianto prima di procedere con il tentativo di sblocco del macchinario inceppato. La conseguente caduta accidentale nella vasca gli ha provocato la morte.

Da parte sua, la Corte rifiuta tale ricostruzione, perché priva di fondamento. Secondo una giurisprudenza ormai consolidata (Cass. 3 luglio 1997 n.5961, Cass. 17 luglio 1995 n.7768, Cass. 29 marzo 1995 n.3738, Cass. cit. 30 agosto 2004 n.17314) compito del datore di lavoro è quello di garantire l’integrità fisica e morale del dipendente in ossequio a quanto stabilito dall’articolo 2087 c.c. e artt. 31 e 41 della Costituzione.

Pertanto, secondo la Cassazione “ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio subito dal dipendente o per la tecnopatia contratta, grava quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, dell’infortunio o della malattia ed il nesso causale tra l’utilizzazione del macchinario o la nocività dell’ambiente di lavoro e l’evento dannoso, e grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare dì aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta nonchè di aver adottato, ex art. 2087 cod.civ., tutte le misure che – in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica – siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, mentre il comportamento del lavoratore è idoneo ad escludere il rapporto causale tra inadempimento del datore di lavoro ed evento, esclusivamente quando esso sia autosufficiente nella determinazione dell’evento, cioè se abbia il carattere dell’abnormità per essere assolutamente anomalo ed imprevedibile (cfr. Cass. 28 luglio 2004 n.14270, cui adde Cass. 13 agosto 2008 n.21590, Cass. 17 febbraio 2009 n.3788, Cass. 26 giugno 2009 n.15078)”. Spetta, dunque, al datore di lavoro dimostrare in modo inequivocabile l’avvenuto rispetto di tutte le norme di sicurezza poste a tutela dei luoghi di lavoro e vigilare affinché le norme stesse vangano rispettate. Nel caso di specie, l’attività di controllo è venuta a mancare e l’appurata latitanza, oltre che negligenza, del datore di lavoro non ha evitato il verificarsi dell’infortunio che ha cagionato la morte dell’ operaio.

Orbene, nel luogo dell’infortunio, lungo i bordi della vasca contenete il pietrame, doveva essere presente, secondo le previsioni di legge (articolo 242, comma 1 e comma 2 del D.p.r. n. 547 del 27/04/55), una recinzione (o parapetti), di altezza non minore a 90 cm, il cui fine era quello di proteggere i dipendenti da eventuali cadute; contrariamente, il luogo di lavoro era sprovvisto di detta recinzione. Lo stesso luogo era anche privo di cartelli con le relative indicazioni di pericolo. Ciò a dimostrazione, secondo la Corte, della consuetudine diffusa all’interno dell’azienda di operare lo sblocco del macchinario in questione, sostando ai bordi della vasca senza l’utilizzo di alcuna misura precauzionale, senza procedere allo spegnimento del macchinario stesso e con l’approvazione del datore di lavoro. Pertanto, non v’è dubbio, secondo la Corte, sul fatto che il titolare fosse ben a conoscenza dello svolgimento delle descritte operazioni secondo le modalità illustrate, con abituale sistemazione dei tondini di ferro da utilizzare per lo svolgimento della attività descritta nelle adiacenze dell’imbocco della vasca, e con la macchina in movimento, era desumibile dal fatto che l’impianto era ben visibile dagli uffici amministrativi, come confermato dalle univoche acquisizioni testimoniali in atti”. La Corte, pertanto, scagiona il lavoratore da ogni addebito.

Circa la valutazione del danno, secondo quanto sostenuto dalla Cassazione, è necessario prendere come punto di partenza il momento in cui è avvenuto l’infortunio, procedendo poi ad una rivalutazione monetaria e al calcolo degli interessi fino alla data della sentenza definitiva; o meglio, “in caso dì mora nella liquidazione di crediti di lavoro, ivi compresi quelli di natura risarcitoria, gli interessi legali devono essere calcolati sulle somme via via rivalutate e non sull’importo originario del credito (vedi fra le tante, Cass. 4 maggio 2009 n.10236, Cass.2 marzo 2004 n.4255, Cass. 2 dicembre 2002 n. 17071)”.

Da ultimo, l’obiezione sollevata con il terzo motivo del ricorso, circa l’importo di euro 292.730,03 liquidato all’Inail senza che l’istituto ne avesse dimostrato l’effettivo fondamento, la Corte rammenta che l’Ente agisce mediante atti amministrativi che godono della presunzione di legittimità; pertanto, in assenza di obiezione specifiche, come nel caso in esame, si presume che la liquidazione sia avvenuta nel pieno rispetto delle norme.

Frandina Vincenzo

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