Doveri di buona fede e diligenza nell’adempimento delle obbligazioni e somministrazione dei mezzi necessari all’esecuzione del contratto di mandato.

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1. Il fatto ed i problemi
 
A seguito del decesso del proprio coniuge, una signora aveva affidato ad un’agenzia, che si occupava dello svolgimento di pratiche amministrative, il compito di porre in essere, per proprio conto, tutti gli adempimenti del caso.
Una volta presentata la denunzia di successione, l’Ufficio del Registro competente determinò l’ammontare delle imposte e notificò, al domicilio della vedova, un avviso che le intimava di effettuare il versamento di quanto dovuto entro sessanta giorni.
Gli eredi consegnarono l’avviso alla titolare dell’agenzia conferendole, inoltre, l’incarico di procedere al relativo pagamento, ma non le fornirono alcun apporto di ordine economico così che, questa, non pagò mai né chiese agli eredi la provvista necessaria per farvi fronte. Dunque, nessuno  si attivò per il pagamento del debito e l’Ufficio del Registro, scaduti i termini, addebitò agli eredi una penale pari a Lire 11.916.900.
L’agente fu, allora, citata in giudizio dalla vedova e, ritenuto dal giudice concluso tra le parti un contratto di mandato avente ad oggetto il pagamento delle imposte, fu condannata al pagamento della somma e dei relativi interessi in quanto considerata inadempiente per aver fatto scadere inutilmente i termini, senza aver nemmeno richiesto alla mandante le somme necessarie.
La soccombente, dapprima impugnò la sentenza, ma, a seguito della conferma in appello del giudizio di primo grado, ricorse alla Suprema Corte di Cassazione. In quest’ultima sede il suo ricorso fu, inaspettatamente, accolto e la causa rinviata ad un nuovo giudizio.
 
Il tratto più significativo del ragionamento che hanno seguito i giudici di legittimità, nell’accogliere il ricorso della mandataria, fu il riconoscimento della violazione, da parte della mandante, dei doveri di diligenza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione dedotta in contratto ai sensi degli artt. 1175, 1176 e 1719 c.c. Quest’ultima norma, in particolare, tende a limitare la responsabilità per inadempimento del mandatario qualora il mandante non somministri i mezzi necessari all’adempimento.
Nella sentenza (Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 2003, n. 15273) si attribuisce, quindi, una parziale responsabilità dell’inadempimento in capo alla mandante, perché quest’ultima, da un lato, aveva incaricato la mandataria del pagamento di quanto dovuto all’erario, ma, dall’altro, non le aveva fornito i mezzi necessari per l’esecuzione dell’obbligazione, posto che, comunque, la mandataria non era tenuta ad anticipare in proprio la somma da versare. Non ha trovato, quindi, conferma quanto affermato dai giudici di merito che, nei due precedenti gradi di giudizio, considerarono la questione esclusivamente ex parte debitoris, basando l’inadempimento sulla mancata richiesta dei fondi necessari per adempiere all’obbligazione.
 
I problemi che si profilano nell’analisi di questa decisione sono molteplici; procedendo con ordine pare opportuno occuparsi, preliminarmente, di un’indagine volta a qualificare i contenuti del dovere di buona fede e di diligenza nell’adempimento e, successivamente, della questione connessa alla necessaria cooperazione del mandante all’attività solutoria del mandatario.
 
 
 
2. I doveri di buona fede e di diligenza nell’adempimento
 
La sentenza ci offre l’opportunità, come detto, di definire i doveri di buona fede e di diligenza nell’adempimento così come sono stati intesi dalla Suprema Corte nella sentenza in commento. Innanzitutto, occorre considerare l’art. 1175 c.c. il quale postula che il debitore ed il creditore devono comportarsi secondo buona fede nell’adempimento dell’obbligazione. Detto richiamo al principio generale della buona fede nella normativa codicistica non è unico, ma ricorrente; esso, espressamente, figura anche negli artt. 1374 e 1375 c.c. in tema di disposizioni generali sugli effetti del contratto. Le norme che sanciscono il richiamo a questo generale, quanto fondamentale, obbligo[1] non sono solo quelle sopra citate, ma anche quelle di cui agli artt. 1227, 1337, 1358, 1366, 1375, 1460, II comma, e 1467 c.c., pur con diverse sfumature.  
L’art. 1175 c.c., tuttavia, rappresenta l’unica norma di contenuto programmatico che possa fungere da clausola generale imponendo alle parti vincolate da un rapporto obbligatorio (quindi non solo di fonte contrattuale) un generico dovere di correttezza[2], che, però, non trova una precisa definizione nel codice. Il legislatore ha preferito lasciare alla dottrina il compito di elaborarne il contenuto ed al giudice quello di dargli concreta applicazione.
La buona fede prevista da tutte le norme richiamate è da intendersi in senso oggettivo e non soggettivo; quest’ultima accezione, infatti, trova spazio come presupposto normale nel diverso ambito nella disciplina dell’errore o dell’ignoranza di fatti o norme ed implica[3] la convinzione di attenersi ad un comportamento conforme al diritto.
 
Per qualificare un comportamento rispondente a criteri di buona fede oggettiva, invece, deve farsi riferimento a generali regole di condotta valutando il contegno assunto tanto dal debitore quanto dal creditore nell’esecuzione della prestazione. In questo senso la buona fede oggettiva si configura come un atteggiamento “onesto, corretto, leale”[4] e, conseguentemente, deve rispondere, oltre che a parametri tecnico-giuridici, anche a criteri di ordine etico-sociale.
 
Nell’ambito del significato oggettivo della buona fede possono essere distinti due ulteriori aspetti che, a loro volta, costituiscono il frutto di elaborazioni storiche e giuridiche diverse: da un lato vi è la buona fede contrattuale di impostazione romanistica, dall’altro la buona fede feudale di matrice germanistica che, per comodità e sintesi, potrebbe ragionevolmente identificarsi con la “fedeltà”.[5]
 
La prima descrive il comportamento di soggetti posti sullo stesso livello, paritari, la seconda, invece, trae la propria origine dal rapporto medioevale del feudatario con i propri vassalli, coinvolgendo parti tra le quali esiste un rapporto di subordinazione.
L’enunciato dell’art. 1175 c.c. palesemente integra la buona fede oggettiva di derivazione romanistica, benché l’originario riferimento alla solidarietà corporativa, presente nella prima  formulazione della norma, possa aver, inizialmente, provocato delle incertezze.[6] Detto richiamo venne, comunque, abrogato appena due anni dopo l’entrata in vigore del codice civile dal Decreto legislativo luogotenenziale del 14 settembre 1944 n. 287. Dalla lettura dei lavori preparatori del codice civile, inoltre, si evince abbastanza chiaramente che la solidarietà corporativa costituiva un riferimento prevalentemente formale, reso necessario dal regime allora vigente, e non un enunciato normativo tale da determinare la configurazione della buona fede oggettiva in senso germanistico.
Questa, tuttavia, pare essere stata ispiratrice di alcune altre norme del codice che rivelano una visione organicistica dell’impresa descritta come una comunità fondata sul dovere di collaborazione e di fedeltà, pur nell’eterogeneità dei fini delle componenti che la costituiscono.[7]La bipartizione, peraltro, non deve intendersi come assoluta ed antinomica; essa costituisce unicamente il riflesso di una diversa ascendenza dei principi di cui si sta trattando, tanto che, nelle elaborazioni più recenti della dottrina, è possibile riscontrare una progressiva convergenza tra le due posizioni.
Al fine di definire in termini più precisi il contenuto del dovere di buona fede espresso dall’art. 1175 c.c., potrebbe giovare porre attenzione a quanto fu scritto nella Relazione al Re ove si legge: ”il dovere di buona fede consiste nel comportarsi in modo da non ledere l’interesse altrui fuori dai limiti della legittima tutela dell’interesse proprio.”[8]
 
Connaturata al rapporto obbligatorio vi è la soggezione del debitore nei confronti del creditore che è nella posizione, giuridicamente tutelata, di esigere una prestazione per il soddisfacimento di un proprio interesse patrimoniale; questa superiorità, però, potrebbe spingere il creditore ad assumere atteggiamenti vessatori ed eccessivamente onerosi per la controparte. In relazione a queste circostanze il principio di buona fede raggiunge la sua pienezza programmatica, il suo più alto significato giuridico e la sua giustificazione applicativa imponendo un contegno leale ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio. Per via ermeneutica, il generale obbligo di correttezza di cui all’art. 1175 c.c., potrebbe identificarsi con l’imporre al debitore di non profittare di situazioni che gli consentano di sottrarsi ingiustamente all’adempimento e di comportarsi affinché questo mantenga un’utilità per il creditore; mentre a quest’ultimo si richiederebbe di non rendere l’adempimento troppo gravoso e di astenersi dal pretenderlo quando divenga eccessivamente oneroso per la parte obbligata, viste le circostanze del caso concreto.[9]
 
Proprio la norma contenuta nell’art. 1175 c.c., costituendo il nucleo più vivo della questione, permette all’interprete l’elaborazione di un’ulteriore categoria di obblighi detti, appunto, di protezione e ne consente la legittima cittadinanza all’interno dell’articolato sistema normativo.
La dottrina ne ha previsti della più svariata natura, ma, per brevità, si darà conto soltanto dei più rappresentativi; si parla di obblighi di custodia, di informazione, di salvataggio, di sicurezza, il cui inadempimento è causa di responsabilità civile a carico dell’obbligato.[10]
Tali obblighi, in talune circostanze, sono già espressamente previsti dal dettato normativo, ma, il più delle volte, debbono essere individuati dal giudice che ne ricerca la fonte, come si è detto, direttamente nel disposto dell’art. 1175 c.c.
Allo stato attuale la loro presenza all’interno del nostro ordinamento non desta più alcuna perplessità, né fomenta particolari dubbi di legittimità, al punto che è possibile registrare un indirizzo univoco in tal senso sia nella dottrina che nella giurisprudenza. La fonte viene, dunque, riconosciuta, pressoché unanimemente, nel generale principio di buona fede come fonte integrativa del regolamento negoziale.[11] In sede di giudizio, generalmente, laddove il giudice ricorra ad una ricognizione dei doveri di correttezza strumentali all’adempimento, dedotti in via di specificazione dal contenuto dell’art. 1175 c.c., finisce con l’attribuire al dovere di buona fede tale forza da farne la prevalente ratio decidendi. A tutti gli effetti, esso viene considerato un obbligo accessorio dedotto in via principale quale oggetto della prestazione, che, se disatteso, è idoneo a costituire fonte di inadempimento e di responsabilità contrattuale.[12] Trovandosi a giudicare secondo i principi di cui sopra il giudicante difficilmente applicherà precise norme imperative, preferendo ricorrere ad un ragionamento di tipo analogico, in considerazione della qualità di “serie aperta”, in quanto emanazione di una clausola generale, degli obblighi di protezione.
In sintesi il giudice, quando rilevi un’esigenza di protezione della persona o del patrimonio di una parte, si serve della norma di cui all’art. 1175 c.c. nel caso che non disponga di norme specifiche, né di usi a cui riferire la propria decisione.[13]
 
Questa particolare forma di obblighi, la cui violazione conduce ad ipotesi di responsabilità contrattuale,[14] deriva dall’elaborazione dei giuristi tedeschi; in questa sede, basterà ricordare che la teoria che ne costituisce la base dottrinale si è sviluppata, per l’appunto, in Germania nella prima metà degli anni trenta e che la nostra dottrina ha iniziato ad occuparsene solo alla fine degli anni cinquanta. Tuttavia, per esigenze di completezza, sembra opportuno proporre anche un breve cenno alla scuola francese che ha formulato, nei medesimi anni, l’analogo concetto delle obligation de sécurité.[15]
Queste rappresentano una categoria logico-giuridica sorta al fine di attrarre nell’ambito della responsabilità contrattuale ipotesi per le quali il diritto civile vigente tendeva a riconoscere solamente una responsabilità di tipo extracontrattuale. Lo scopo era di evitare al danneggiato l’onere di fornire la prova della colpa del danneggiante (regola generale questa in tema di onere della prova quando si tratti di responsabilità aquiliana), potendo limitarsi a dimostrare che la lesione si era verificata durante l’esecuzione del contratto.
Si ritenne, infatti, contrario ad un principio generale di tutela attribuire in capo al danneggiato il compito di provare la colpa della controparte, qualora l’evento dannoso fosse accaduto in occasione dell’esecuzione di un rapporto obbligatorio preesistente.[16]
 
Per quanto riguarda, invece, i doveri di diligenza nell’adempimento dell’obbligazione, l’art. 1176 c.c. si richiama, genericamente, a quella del buon padre di famiglia.
Questa norma, dall’apparenza così lineare, nasconde una lunghissima elaborazione. Per diligenza del buon padre di famiglia s’intende l’impegno adeguato di energie e di mezzi utili al soddisfacimento dell’interesse del creditore, tipico dell’uomo medio. Tuttavia, l’art. 1176 c.c., che si presenta come il riferimento normativo del dovere di diligenza persegue l’ulteriore fine di indicare i criteri di valutazione della colpa.[17]
Il legislatore, nell’enunciare la nozione di colpa, si richiama alla definizione che ne dà l’art. 43 c.p. qualificandola come “negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”; mediante il confronto tra la norma generale dell’art. 43 c.p. e l’art. 1176 c.c., emerge chiaro il collegamento, oltre alla portata, quasi di specificazione, della seconda rispetto alla prima. Ulteriore e forse più importante relazione della norma di cui all’art. 1176 c.c. è quella con l’art. 1218 c.c. che, in tema di inadempimento, prevede la responsabilità del debitore quando l’impossibilità sopravvenuta sia derivante da causa a lui imputabile.
 
Secondo un certo orientamento dottrinale e giurisprudenziale il criterio dell’imputabilità si identifica con quello della colpa[18], benché l’idea della colpa come fondamento della responsabilità per inadempimento sia stata oggetto, in dottrina, di accesi dibattiti.
Un’ampia parte di studiosi ha, in passato, sostenuto la tesi cosiddetta soggettiva, secondo la quale la norma dell’art. 1176 c.c. avrebbe una portata sistematica in quanto indica la diligenza dovuta in caso di adempimento fondando, indirettamente, la responsabilità per inadempimento sulla violazione di tale obbligo. Il codice, infatti, presenta una serie di norme che richiedono la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c. che, se violate, sono fonte della responsabilità. A mero titolo di esempio, si considerino le norme relative alla gestione degli interessi altrui, al mandato, all’esecutore testamentario, alla gestione di affari altrui, all’amministrazione di società.
Ultimamente, la dottrina ha preferito, di contro, fornire un’interpretazione oggettiva degli artt. 1176 e 1218 c.c., tale da considerare l’inadempimento come un fatto oggettivo attribuendo quindi alla norma dell’art. 1218 c.c. un ruolo prevalente rispetto a quella dell’art. 1176 c.c.[19]   
Il diritto applicato avrebbe, sostanzialmente, abrogato la norma dell’art. 1176 c.c. procedendo all’applicazione esclusiva della norma di cui all’art. 1218 c.c. nella misura in cui, questa, attribuisce un fondamento oggettivo alla responsabilità del debitore.[20]
 
3. Onere di cooperazione del mandante 
 
Ultimo spunto di riflessione che ci offre la sentenza in commento è quello relativo agli oneri di cooperazione del mandante nell’adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto.
L’art. 1719 c.c. postula che il mandante è “tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che a tal fine il mandatario ha contratte in proprio nome”.
L’onere di cooperazione del mandante, e conseguentemente la necessità che quest’ultimo fornisca mezzi idonei, deriva dalla natura stessa del contratto. Il dominus dell’affare è sempre il mandante, le utilità economiche, in linea di massima, saranno a suo vantaggio, e per questo egli è tenuto ad una certa collaborazione con il mandatario, che, al contrario, persegue interessi non propri (tranne il particolare caso del mandato in rem propriam ove rileva anche l’interesse economico del mandatario).[21]
 
L’art. 1719 c.c. contiene due norme distinte: da una parte impone al mandante di fornire al mandatario i mezzi necessari all’esecuzione del contratto e, dall’altro, finalizza la somministrazione all’adempimento delle obbligazioni che il mandatario ha assunto in proprio nome.
La prima disposizione appare più ampia, capace di ricomprendere anche la seconda, realizzando quasi un rapporto di genus ad speciem. Questa interpretazione ha portato la dottrina a dedicarsi prevalentemente alla prima parte, considerandola come fonte principale degli oneri di cooperazione del mandante, e ad interrogarsi sull’effettiva utilità della seconda previsione.[22]
Sembra, comunque, acquisito che i doveri del mandante si fondino in gran parte sulla prima sezione dell’art. 1719 c.c.; il problema che questa visione ingenera, tuttavia, è quello di definire la natura di quei mezzi che il mandante sarebbe tenuto a fornire. Si è autorevolmente affermato che, in linea con i comuni riferimenti interpretativi, il mandato, come qualunque altro negozio, deve poter realizzare quegli effetti in considerazione dei quali è stato programmato.[23]
Potremmo, dunque, affermare che l’espressione mezzi necessari vada intesa nel suo significato più ampio comprendendo tutto quanto sia necessario e funzionale all’adempimento; senz’altro il riferimento alla provvista economica è di primo piano quantunque non esaurisca la portata della norma che, invece, intende riferirsi anche quanto risulti materialmente e giuridicamente necessario in considerazione delle effettive condizioni nelle quali si trovano le parti.[24]
La norma non indica un preciso dovere, non ne fornisce i lineamenti qualitativi, si limita a prospettare l’onere del mandante di cooperare dal punto di vista finalistico e strumentale all’esecuzione del contratto.[25]
 
Sembrano meritevoli di segnalazione due pronunce giurisprudenziali nelle quali si identifica detto onere con la prestazione di un’attività di controllo e di supervisione, oltre che di avviso al mandatario di possibili pericoli; in tali sentenze della Suprema Corte pare richiedersi al mandante quasi una vigilanza gestoria.[26] Tale collaborazione del dominus si concretizza, tuttavia, in un semplice onere; non si configura come una reale obbligazione e, nell’eventualità che non venga prestata, il codice prevede unicamente le conseguenze proprie della mora credendi secondo il disposto di cui all’art. 1206 c.c., e non già quelle proprie dell’inadempimento.[27] Ne consegue che il mandatario non è responsabile per l’inesattezza della prestazione causata dalla mancata cooperazione del mandante, salvi i consueti limiti imposti dai doveri di diligenza di cui agli’artt. 1176 e 1710 c.c.[28] Detti oneri del mandante si sostanziano dunque in un concorso all’adempimento che può avere carattere preliminare, integrativo, e finanche successivo all’attività solutoria del debitore e “deve essere prestato in relazione alle necessità, e quindi, se del caso, anche sin subito dopo la conclusione del mandato”.[29]    
 
L’ambito specifico in cui opera l’art. 1719 c.c non tragga, però, in inganno; la norma non fa che ripetere il contenuto del già citato art. 1206 c.c., e prova ne è che proprio la mora del creditore costituisce l’effetto giuridico previsto nel caso della mancata collaborazione del mandante. E’ opinione diffusa, infatti, che l’art. 1719 c.c., nella sua prima parte, sia sostanzialmente ripetitivo di quanto già previsto in ordine ai principi generali delle obbligazioni.[30]
 
Ben diversa portata, invece, paiono assumere le norme previste dalla seconda parte dell’art. 1719 e dagli artt. 1720, 1721, c.c. che meglio delineano la precipua caratteristica del congegno negoziale in esame: il suo essere orientato alla realizzazione di interessi diversi rispetto a quelli del mandatario con la conseguente scelta del legislatore di porre in carico al mandante gli oneri ed i pesi che, nell’esecuzione del contratto, si possono concretizzare.[31] L’art. 1719 c.c., comunque, fa salvo il patto contrario e permette alle parti di stabilire in termini differenti le obbligazioni nascenti dal contratto con piena validità. Si tratta, in definitiva, di una norma derogabile in forza della quale le parti possono accettare o modificare l’assetto degli interessi divisato dal legislatore.[32]
 
Se, da un lato, si pone il problema di definire gli oneri di cooperazione del mandante che, come si è visto, possono assumere diversi aspetti e nessuna opera può esserne astrattamente esclusa a priori; dall’altro, pare ragionevole chiedersi se non siano da ricercare dei casi nei quali sia lo stesso mandatario a dovere provvedere, in proprio, a recuperare i mezzi necessari per l’adempimento.
Il rischio che potrebbe profilarsi, in mancanza di un esame sul punto, è quello di concepire il contratto di mandato quale un congegno negoziale dal contenuto eccessivamente solidaristico, il che contrasterebbe con le esigenze pratiche in considerazione delle quali vi si fa ricorso.
Si potrebbero, in vero, creare delle ampie zone grigie in forza delle quali il debitore della prestazione principale sarebbe posto nella condizione di invocare, anche a torto, la mancata cooperazione della controparte come giustificazione della propria negligenza. Già s’è detto, a tal proposito, dell’obbligazione accessoria che grava sul mandatario ex art. 1710 c.c. e del richiamo alle norme generali di cui agli artt. 1175 e 1176 c.c., tuttavia, in relazione all’opportunità di tenere un dato comportamento – consistente nell’opera del mandatario finalizzata al reperimento dei mezzi necessari – sembra che l’unico percorso interpretativo accettabile sia rappresentato dall’analisi delle effettive circostanze, della fattispecie e dalla natura stessa della prestazione.[33] Vi sono casi in cui è la legge stessa a individuare la parte che ha l’onere di attivarsi per determinare una certa situazione di fatto. Per legge non intendiamo riferirci esclusivamente ad una norma di carattere civilistico, ben potendo essa rivestire una rilevanza pubblicistica. Si tratta, infatti, di casi, specie per quanto attiene alla materia societaria o valutaria, nei quali l’esigenza di regolamentazione è percepita dal legislatore come talmente stringente da giustificare la previsione di un intervento della Pubblica Amministrazione, dotata di poteri di intervento e di controllo, come fonte idonea di doveri per le parti del contratto.[34] Il comando può derivare tanto da una precisa disposizione, quanto dalla sistematica della normativa e, pertanto, spetterà all’interprete operare i dovuti richiami ermeneutici.[35]
 
Ulteriore fonte di obblighi può essere individuata negli usi negoziali e normativi.[36] 
In definitiva, è proprio in tutte queste fonti – il contratto, la legge, gli usi, l’atto amministrativo – che deve essere ricercato il precetto che pone in capo al mandante o al mandatario l’obbligo di fare quanto sia necessario affinché il mandato possa essere adempiuto. [37]
 
Per concludere, l’enunciato dell’art. 1719 c.c. pone un’ampia gamma di problemi, senza darne una soluzione adeguata, nulla dispone in merito alla qualità dei “mezzi necessari” né, tanto meno, stabilisce quando il mandante debba somministrarli al mandatario e quando, invece, debba essere quest’ultimo a procurarseli; è una norma che, rinviando ai principi generali o ad altre, eventuali, fonti, implicitamente denuncia il proprio limite.
 
4. Considerazioni conclusive
 
Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha attribuito in capo alla mandante l’onere di fornire quanto necessario all’adempimento liberando la mandataria dalla contestata violazione degli obblighi di buona fede e di diligenza.
I giudici di merito, invece, interpretarono i doveri di correttezza ex art. 1175 c.c. unicamente in relazione al contegno della mandataria, mentre il disposto della Suprema Corte ne ha esteso la portata anche in relazione al comportamento della mandante, la quale, proprio in violazione di detti doveri, non pretese la prestazione nel termine, noto ad entrambe le parti, di sessanta giorni e non somministro la somma necessaria per effettuare il pagamento.
Sembra potersi affermare, quindi, che i giudici di legittimità hanno proposto una lettura oggettiva del dovere di buona fede ravvisando nell’incuria della mandante una fonte di responsabilità stante la violazione di quel nucleo di articolati doveri di correttezza ai quali si sarebbe dovuta attenere in qualità di soggetto obbligato.
Può, in conclusione, sostenersi che la buona fede e la correttezza non impongono un “comportamento a contenuto prestabilito[38] bensì una serie di atteggiamenti differenti tra loro, positivi od omissivi in considerazione della effettiva fattispecie e finalizzati alla reciproca tutela degli interessi; anche a prescindere dagli specifici obblighi contrattuali. In virtù della buona fede le parti sono impegnate “a mettere tutte la proprie forze al servizio dell’interesse della controparte nella misura richiesta dal tipo di rapporto obbligatorio di cui si tratta[39]
In questo modo, la buona fede opera, e deve operare, anche ex parte creditoris regolando la prestazione del debitore in relazione alla necessaria cooperazione del creditore, con l’effetto di attribuire, di volta in volta, all’una o all’altra parte l’onere di certe prestazioni che in astratto potrebbero essere adempiute da entrambe.[40]
La Suprema Corte, inoltre, ha stabilito che il comportamento della mandataria non fu colpevolmente negligente, così da integrare il disposto dell’art. 1176 c.c., in quanto causalmente riconducibile alla violazione, da parte della mandante, dei doveri di correttezza previsti dall’art. 1175 c.c.
Al termine di tale percorso interpretativo non può non riconoscersi alla buona fede un ruolo centrale nell’ambito del diritto delle obbligazioni in generale e nel caso di specie in particolare; essa ha rappresentato l’unico riferimento certo nel definire, in combinato disposto con l’art. 1719 c.c., l’effettivo e concreto contenuto del dovere di cooperazione del mandante.
 
Antonio Serpetti
Avvocato, collaboratore presso la cattedra di Istituzioni di diritto privato, Università degli studi di Milano
 


[1] V. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, Milano, 1966, p. 28 e ss.
[2]Cfr. Cannata, Le obbligazioni in generale in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, Utet, 1999, p. 43
[3] Cfr. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Cedam, 1996, p. 83
[4] V. Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Giuffrè, 1968, p. 6.
[5] V. Frezza, Fides bona, in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, p. 2 e ss.
[6]Cfr. Cannata, Le obbligazioni in generale inTrattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, op. cit., p. 43
[7] V. Corradini, Il criterio della buona fede e la scienza del diritto privato, Giuffrè, 1970 p. 46
[8] Cfr. Benatti, I doveri di buona fede e di diligenza nell’adempimento, sub art. 1175, in Codice Civile Commentario diretto da P. Schlesinger, 1990, p. 7
[9] Cfr. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit., p. 85
[10] Cfr. Benatti, Osservazioni in tema di “Doveri di protezione”, in Riv. trim. proc. civ., 1960, p.1342
[11] Cfr. sul tema dell’integrazione del regolamento contrattuale Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, p. 367
[12] V. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit. p. 87
[13] Cfr. per i riferimenti all’indirizzo giurisprudenziale Nanni, La buona fede contrattuale nella giurisprudenza, in Contratto ed impresa, 1986, p. 591 e ss. e p. 516 e ss.; ID., La buona fede contrattuale, nella collana I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale diretta da F. Galgano, Cedam, 1988.
Tra le sentenze ricordiamo come indicative dell’orientamento di cui sopra: Cass civ. 5 luglio 1985, n. 4064, in Foro It. 1985, I, p. 2588 con nota di Pardolesi; Cass. Civ 21 febbraio 1983 n. 1308, in Giust. Civ. 1983, p. 2379, con nota di Costanza; Cass. civ. 10 aprile 1986 n. 2500, in Nanni, La buona fede contrattuale, op. cit., p. 331 e ss.; Cass. Civ. 20 novembre 1990 n. 11206, in Giur. It. 1991,I, 1, p. 1029 con nota di Weigmann; Cass. Civ. 22 gennaio 1991 n. 543, in Riv. inf. mal. Prof., 1991, II, p. 1979 e ss.; Cass. Civ. 23 aprile 1991 n. 4377, in Arch. Giur. circ., 1992, p. 352; Cass. Civ., 18 luglio 1991 n. 7974, ivi, 1992, p. 135. 
[14] Cfr. Castronovo, Obblighi di protezione, in Enc. Giur. Treccani, 1990, Roma
[15] Per un approfondimento sul tema si rimanda a Benatti, Osservazione in tema di doveri di protezione, 1960, op. cit. ed   ai riferimenti dottrinali che l’A. propone nell’ambito della dottrina tedesca e francese.
[16] V. Mengoni, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Riv. dir. comm,, 1954, I, p. 283;
     V. Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, p. 3
     V. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni, Milano, 1953, p. 99
     V. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 91
[17] Cfr. Cannata, Le obbligazioni in generale in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, 1999,op. cit., p. 57 nel quale si dà conto del passaggio logico giuridico che ha visto affermarsi la norma in esame come metro di valutazione della colpa; ID, Dai giuristi al codice, dal codice ai giuristi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, p. 993 e ss.
[18] Il fatto che la colpa rappresenti la base dell’imputabilità per inadempimento è un concetto che ha visto la dottrina estremamente divisa, per avere conto delle posizioni soggettive ed oggettive si consiglia il confronto con: Vivante, Trattato di diritto Commerciale, IV, le obbligazioni, Milano, 1935 p. 132 e ss.; Osti, Revisione critica della teoria dell’impossibilità della prestazione, in Scritti giuridici, I, Milano, 1973. p. 1 e ss. (già in Riv. dir. civ., 1918); Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955; Bianca Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, art. 1218 e 1229, Bologna Roma, 1979; Trimarchi, Sul significato economico dei criteri della responsabilità contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1970, p. 512 e ss.; De Lorenzi, Classificazioni dogmatiche e regole operazionali in tema di responsabilità contrattuale, 1981, Torino.
[19] Oltre a quanto proposto per un valido approfondimento alla nota 22, sembra opportuno, data la vastità delle voci in dottrina, suggerire qualche altro richiamo nel tentativo di fornire un quadro il più completo possibile.
Cfr dunque per la teoria soggettiva: Giorgianni, Lezioni di diritto civile (a.a. 1955- 56), Bologna p. 163 e ss.;   Betti, Teoria generale delle obbligazioni, op. cit.; Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Giuffrè, II, p. 235; Barbero, Sistema istituzionale di diritto privato, II, Torino, 1951; Candian, Nozioni istituzionali di diritto privato, Giuffrè, 1953; Scuto, Istituzioni di diritto privato, II, Napoli, 1952; Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, II, Giuffrè, 1962; Bianca, L’autonomia dell’interprete: a proposito della responsabilità contrattuale, Riv. dir. civ., I, 1964 p. 478; ID, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna Roma, 1979, op. cit.; Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, 1969, Milano.
Per la concezione oggettiva cfr: Gorla, Sulla c.d.causalità giuridica: fatto dannoso e conseguenze, in Studi in onore di A. Cicu, I, Giuffrè, 1951; Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Giuffrè, Milano, 1955; Corrado, I contratti di borsa, Utet, 1954; Visintini, La responsabilità contrattuale, Napoli, 1979; Mengoni, voce “Responsabilità contrattuale”, Enc. Dir., Milano, 1988, p. 1072 e ss.; Galgano, La responsabilità contrattuale: i contrasti giurisprudenziali, in Contratto ed impresa, 1989, p. 32 e ss.       
[20] Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni in Commentario del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, op. cit.
[21] Santagata, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, sub art. 1719, 1998, p. 393.
[22] In linea con quanto esposto cfr. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, in Trattato di diritto civile diretto da Vassalli, Torino, 1954 p. 114.
In questa trattazione l’A. identifica le funzioni diverse delle due norme: la prima indica il termine entro il quale il mandatario deve essere posto in condizione di adempiere, la seconda estende l’obbligo del mandante anche a quei casi per cui il mandatario non sarebbe tenuto ad adempiere.
Contra cfr. Bavetta, in voce Mandato nell’Enc.del dir., XXV, Milano, 1975, p. 345
[23] Cfr. Luminoso, Mandato, commissione e spedizione, in Tratt. Dir. civ., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1984, p.   191
[24] Cfr. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Tratt. Dir. civ., diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1974, p. 67
[25]   V. Venosta, Il dovere di cooperazione del mandante, in Banca, borsa e tit. di cred., II, 1985, p. 363
[26] Cass. civ. 23 maggio 1975, n. 2064, in Mass. Giust. Civ., 1975, p. 947Cass. civ. 6 dicembre 1982 n. 6662, in Mass. Giust., civ., 1982, p. 2253.
In entrambi i casi si trattava di rapporti sorti in situazioni di grande complessità, in ordine a queste circostanze, la Suprema Corte ha ravvisato la necessità da parte del mandante di una maggiore vigilanza che, par di capire, non sarebbe ugualmente esigibile in altri, più ordinari, affari.
[27] Cfr. Luminoso, Mandato, spedizione e commissione, op. cit., p. 357 e ss. e nello stesso senso Venditti, Appunti sul mandato, Napoli, 1966, p. 399
[28] V. Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano, 1947, p. 154
[29] V. Luminoso, Mandato, spedizione e commissione op. cit., p 365
[30] Cfr. ancora Luminoso Mandato, spedizione e commissione op. cit., pp. 31, 46, 56, 147
[31] Cfr. in questo senso Dominedò, voce Mandato nel Noviss. Digesto it., X, 1964, Torino
[32] V. Luminoso, Mandato, spedizione e commissione op. cit., p. 362 e nello steso senso cfr. Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, op. cit., p. 116
[33] Per un’approfondita analisi della questione cfr. Cattaneo, La cooperazione del creditore nell’adempimento, Milano, 1964, p. 112 e ss.
[34] Cfr. Sacco, Il contratto, nel Trattato di dir. civ., a cura di Vassalli, Torino, 1975, p. 794 e ss.
[35] Cfr.Venosta, Il dovere di cooperazione del mandante, in Banca, borsa e tit. di credito, op. cit., p. 372
[36] Cfr.Bianca, Il contratto, Milano, 1984, p. 485
[37] V. ancora Venosta, Il dovere di cooperazione del mandante, in Banca, borsa e tit. di credito, op. cit., p. 373
[38] V. Bianca, Il contratto, op. cit., 1984 p. 474
[39] V. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, op. cit., 1953, p. 103
[40] V. Venosta, Il dovere di cooperazione del mandante, in Banca, borsa e tit. credito, op. cit., p. 373
 
 
 
 

Serpetti Antonio

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