Diritto al silenzio: Consulta su artt. 495 c.p. e 64 c.p.p.

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La Consulta interviene sugli articoli 495 c.p. e 64 c.p.p.: vediamo come
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Corte Costituzionale -sentenza n.111 del 6-04-2023

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Indice

1. Il fatto


Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, si trovava a giudicare, in sede dibattimentale, della responsabilità penale di una persona imputata, tra l’altro, del delitto di cui all’art. 374-bis cod. pen., per avere dichiarato al personale della Questura di Pisa – in sede di identificazione, elezione di domicilio e nomina del difensore nell’ambito di un procedimento penale – di non avere riportato condanne penali in Italia, avendo invece il medesimo già riportato due condanne divenute ormai definitive.
Un tale fatto, osservava il Tribunale, integra in realtà – secondo la costante giurisprudenza di legittimità (sono citate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 26 febbraio-3 maggio 2016, n. 18476; 8 luglio-16 settembre 2015, n. 37571; 9-23 luglio 2014, n. 32741; 6 marzo-15 maggio 2007, n. 18677) – il più grave delitto di cui all’art. 495 cod. pen. (Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri), per il quale l’imputato avrebbe dunque dovuto essere condannato.
Il rimettente dubitava, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disposizione.

2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione


A fronte di quanto sovra esposto, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, sollevava dunque questioni di legittimità costituzionale dell’art. 495 del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, «nella parte in cui si applica alle false dichiarazioni rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta ad indagini o imputata in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p.».
In via subordinata, il medesimo Tribunale sollevava, inoltre, questioni di legittimità costituzionale, in riferimento al solo art. 24 Cost., dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati nei confronti della persona sottoposta alle indagini/imputata prima di qualunque tipo di audizione della stessa nell’ambito del procedimento penale», nonché dello stesso art. 495 cod. pen., e «nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità per il reato ivi previsto in caso di false dichiarazioni – in relazione ai propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. – rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere».
In particolare, il giudice a quo riteneva di dovere ravvisare siffatti profili di criticità costituzionale alla stregua delle seguenti ragioni.
Innanzitutto, come appena visto, il rimettente dubitava – in via principale – della legittimità costituzionale dell’art. 495 cod. pen., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui – secondo il diritto vivente sin qui ricostruito – si applica anche alle false dichiarazioni, rese nell’ambito di un procedimento penale dalla persona sottoposta a indagini o dall’imputato, rispetto ai propri precedenti penali e alla generalità delle circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., poiché, anche rispetto a tali circostanze, opererebbe il diritto al silenzio, riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte come corollario del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. (erano all’uopo citati l’ordinanza n. 117 del 2019 e gli ulteriori precedenti ivi menzionati).
A parere del rimettente, tra l’altro, il legislatore – «se pur non si trattava (forse) di una scelta costituzionalmente o convenzionalmente obbligata» – avrebbe declinato tale diritto riconoscendo, in via generale, che la persona sottoposta a indagini, e poi l’imputato, non solo non hanno l’obbligo di rispondere al giudice o all’autorità che procede, ma hanno anche il diritto di mentire ad essi nell’esercizio della propria difesa, al punto che, come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, dal mero mendacio dell’imputato il giudice non può normalmente trarre conseguenze per lo stesso pregiudizievoli, e in particolare negargli su tale base circostanze attenuanti o benefici (sono citate Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze 17 gennaio-5 giugno 2020, n. 17232 e 14 settembre-28 dicembre 2017, n. 57703; sezioni unite penali, sentenza 24 maggio-20 settembre 2012, n. 36258).
Sarebbe stato pertanto necessario, per il giudice rimettente, valutare se l’eccezione rappresentata dalle false dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagini in ordine alle circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. fosse ragionevole, osservandosi a questo proposito che «molto spesso le informazioni riferite con riguardo alle condizioni familiari ed economiche dell’indagato hanno un’evidente rilevanza ai fini della valutazione delle accuse: si pensi ad esempio alla maggiore o minore verosimiglianza della contestazione di un furto o di altro reato contro il patrimonio a seconda che l’indagato/imputato abbia o meno una regolare fonte di reddito o un consistente patrimonio; o, alla stessa stregua, alla valutazione della detenzione in casa di un quantitativo di stupefacente non irrisorio, come destinata al proprio consumo personale o piuttosto allo spaccio».
Con riguardo poi ai precedenti penali, proseguiva il rimettente nel suo ragionamento giuridico, essi a volte sono addirittura elementi costitutivi del reato (come nel caso della contravvenzione di cui all’art. 707 cod. pen.), e in ogni caso assumono rilevanza ai fini della possibile contestazione della recidiva e del trattamento sanzionatorio ex art. 133 cod. pen., nonché della concessione di benefici, tenuto conto altresì del fatto che, d’altra parte, «la dichiarazione da parte dell’indagato di avere o meno precedenti penali (così come quella di avere un’occupazione lavorativa o di convivere con una persona dotata di un reddito stabile o di avere altro procedimento pendente, magari con una misura cautelare in corso di esecuzione)» potrebbe «incidere sulla valutazione delle esigenze cautelari, diverso essendo chiaramente il significato che assume il delitto per cui si procede in presenza di un soggetto incensurato o, piuttosto, di un soggetto gravato da plurimi precedenti specifici».
Ciò posto, sempre secondo il rimettente, per giunta, dal momento che nel rispondere a tutte queste domande il soggetto si starebbe in effetti già difendendo, «cercando di fornire una propria versione che, anche con riguardo ai precedenti penali e alle altre qualità e condizioni di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p., renda meno verisimili le accuse o faccia apparire meno gravi i fatti o meno stringenti le esigenze cautelari», sarebbe, pertanto, a suo avviso, «eccessivamente formalistico e quindi irragionevole distinguere tra domande preliminari, che non sarebbero coperte dal diritto di mentire, e domande rientranti nell’interrogatorio/esame vero e proprio, alle quali l’imputato potrebbe rispondere liberamente, senza timore di incorrere in ulteriori responsabilità penali» mentre, all’opposto, sarebbe costituzionalmente necessario declinare in modo unitario il contenuto del diritto al silenzio rispetto tanto all’oggetto della contestazione, quanto alle ulteriori domande che possono rilevare, tra l’altro, in relazione alle circostanze del reato, al trattamento sanzionatorio, ai benefici, alle esigenze cautelari, escludendo dunque la responsabilità penale per ogni falsa dichiarazione resa in proposito dalla persona sottoposta alle indagini o dall’imputato.
Chiarito ciò,  il rimettente inoltre sollevava – in via subordinata – pure delle questioni di legittimità costituzionale, questa volta in riferimento al solo art. 24 Cost.:
– dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi previsti debbano essere formulati alla persona sottoposta a indagini e all’imputato prima di qualunque tipo di audizione nell’ambito del procedimento penale – e dunque anche prima delle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. –; nonché
– del medesimo art. 495 cod. pen., nella parte in cui non prevede l’esclusione della punibilità in caso di false dichiarazioni sui propri precedenti penali e in generale in relazione alle circostanze di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., rese nell’ambito di un procedimento penale da chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rispondere.
Laddove, dunque, non fosse ritenuto irragionevole negare alla persona sottoposta a indagini o all’imputato la facoltà di mentire, e conseguentemente prevedere la sua punibilità per il delitto di cui all’art. 495 cod. pen. per il caso di false dichiarazioni alle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., ad avviso del rimettente, sarebbe stato tuttavia necessario assicurare adeguata tutela al diritto al silenzio del soggetto interessato, fondato sull’art. 24 Cost., e ciò mediante – anzitutto – il suo previo ed espresso avviso relativo a tale diritto, ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., in mancanza del quale egli verrebbe di fatto indotto a rispondere, «magari mentendo per difendersi», alle domande che gli vengano poste dall’autorità di polizia o giudiziaria, visto che una tale necessità sussisterebbe tanto nell’ipotesi in cui la persona sottoposta a indagini o imputata sia già assistita da un difensore, quanto – a maggior ragione – allorché non lo sia, non essendovi in tal caso alcuno che possa altrimenti renderla edotta dei suoi diritti.
Al fine poi di garantire effettività all’obbligo di formulare gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. prima delle domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen., occorrerebbe, inoltre, sempre il Tribunale fiorentino, sancire la non punibilità ai sensi dell’art. 495 cod. pen. di chi abbia reso false dichiarazioni in risposta a tali domande senza ricevere gli avvisi medesimi, analogamente a quanto già oggi previsto dall’art. 384, secondo comma, cod. pen. rispetto a chi avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione.
Il rimettente escludeva, infine, che ai risultati auspicati fosse possibile pervenire in via ermeneutica, mediante una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, stante l’ostacolo opposto dal diritto vivente; ciò che avrebbe reso imprescindibile la prospettazione delle odierne questioni.


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3. La soluzione adottata dalla Consulta


Il Giudice delle leggi riteneva fondata la questione avente a oggetto l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. in riferimento all’art. 24 Cost..
Difatti, a fronte del fatto che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, gli avvertimenti previsti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. non devono necessariamente essere formulati alla persona sottoposta alle indagini o imputata prima che le vengano rivolte le domande di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. e, conseguentemente, non opera rispetto alle dichiarazioni rese dalla persona interessata in risposta a tali domande la regola generale della loro inutilizzabilità, posta dal successivo comma 3-bis, per il caso in cui gli avvertimenti siano stati omessi, per la Corte costituzionale, tale assetto normativo e giurisprudenziale non è conforme alle esigenze di tutela del diritto al silenzio, come riconosciuto dall’art. 24 Cost., che esige invece che la persona sottoposta alle indagini o imputata sia debitamente avvertita, segnatamente, del proprio diritto di non rispondere anche alle domande relative alle proprie condizioni personali diverse da quelle relative alle proprie generalità, e della possibilità che le sue eventuali dichiarazioni siano utilizzate nei suoi confronti.
L’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. era, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 norme att. cod. proc. pen. fermo restando che, per effetto di tale dichiarazione di illegittimità costituzionale, le relative dichiarazioni rese dall’interessato, che non abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. resteranno, ai sensi del comma 3-bis, non utilizzabili nei suoi confronti.
Fondata era altresì, sempre la Consulta, la questione avente a oggetto l’art. 495 cod. pen., anch’essa in riferimento all’art. 24 Cost., giacché la punibilità delle false dichiarazioni relative alle «qualità della propria o dell’altrui persona», ai sensi dell’art. 495 cod. pen., deve ritenersi non in contrasto con l’art. 24 Cost. soltanto ove la persona sottoposta alle indagini o imputata abbia previamente ricevuto l’avvertimento circa il suo diritto a non rispondere ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen.; restando poi libero il legislatore di valutare se estendere la non punibilità anche all’ipotesi in cui l’interessato, avendo ricevuto l’avvertimento, renda comunque dichiarazioni false allo scopo di evitare conseguenze a sé pregiudizievoli nell’ambito del procedimento e poi del processo penale.
Anche l’art. 495, primo comma, cod. pen. era, di conseguenza, dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.

4. Conclusioni


Con la decisione in esame, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimi l’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale, e l’art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.
Di conseguenza, per effetto di questa pronuncia, siffatti precetti normativi, frutto di una lettura costituzionale improntata in questi termini, richiedono adesso, da una parte, per quella procedurale di cui all’art. 64, co. 3, cod. proc. pen., l’imposizione di un ulteriore avvertimento, tra quelli menzionati nell’art. 64, co. 3, cod. proc. pen., nel senso che codesti avvisi devono essere fatti presenti all’indagato o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale (che, come noto, statuisce quanto segue: “Quando procede a norma dell’articolo 66 del codice, il giudice o il pubblico ministero invita l’imputato o la persona sottoposta alle indagini a dichiarare se ha un soprannome o uno pseudonimo, se ha beni patrimoniali e quali sono le sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale. Lo invita inoltre a dichiarare se è sottoposto ad altri processi penali, se ha riportato condanne nello Stato o all’estero e, quando ne è il caso, se esercita o ha esercitato uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessità e se ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche”), dall’altra, per la norma incriminatrice di cui all’art. 495, co. 1, cod. pen. (a norma del quale: chiunque “dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni”),
una particolare ipotesi di esclusione della punibilità allorché, qualora alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato, ove richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen., non li siano stati previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., e costoro abbiano reso false dichiarazioni.
Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione, ove si verifichi una di siffatte situazioni, per la evidente ricaduta che essa comporta sulla portata applicativa di codeste disposizioni giuridiche, seppur in termini giuridici diversi.

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