Diritti politici e libertà nella relazione del ministro Genro sul caso Battisti

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La relazione del Ministro Genro, in ordine alla concessione dello status di rifugiato politico per l’ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo Cesare Battisti[1], può essere letta secondo diversi punti di vista. Da quello squisitamente giudiziario, essa è in replica alla richiesta delle autorità italiane e alla domanda avanzata dal ricorrente, che già trovavasi nel territorio dello Stato: un passaggio endo-macro-procedimentale, che però non delimita definitivamente lo spazio d’azione degli altri organismi competenti (come del resto suggerisce il regime delle notifiche in calce all’atto[2]). Da un punto di vista politico, il ragionamento è altrettanto aperto: in Sud America, i partiti socialisti stanno attraversando una fase di ristrutturazione programmatica piuttosto significativa, e, secondo uno schema tipicamente novecentesco, la linea riformista e moderata va divaricandosi da quella massimalista, centralista ed indigenista. Lula, consapevole di rappresentare più la prima tendenza che non la seconda, coadiuvato dal suo governo, si sta spendendo per rilanciare il tema dei diritti di libertà: lo sta facendo anche dal punto di vista programmatico, visto che il tema in esame non è stato sempre al centro dell’agenda politica dei partiti operai. Ma un’altra lettura ancora sembra poter essere più suggestiva e, sino a questo momento, più appagante: quella della teoria del diritto. La relazione del ministro Genro infatti rileva quattro passaggi salienti ed è bene individuarli prima di analizzarne i meriti o le eventuali contraddizioni interne:
-presenta una prospettiva tenacemente critica sulla legislazione emergenziale italiana, quella concepita ed attuata con disinvoltura e certi parossismi per sedare le agitazioni eversive ed autonome degli anni Settanta;
-pone a confronto il tema del contrasto alla criminalità politica con quello, tipicamente comunicativo e propagandistico, della difficile accettabilità delle misure di prevenzione (qui intese, nel senso atecnico, di “strumenti di controllo in assenza di reato”)[3];
-dimostra la capacità della legislazione d’emergenza e dello stato d’eccezione nel legittimare formazione di contropoteri istituzionalmente organizzati secondo lo schema del lobbismo economico e politico;
-ridefinisce l’eredità di Norberto Bobbio nel costituzionalismo latinoamericano[4].
Si tratta a ben vedere di quattro aspetti che insistono sulla stessa istanza di fondo: l’affermazione di un diritto al dissenso che, anche sfociante in manifestazioni ed espressioni di violazione di norme, non può essere devoluto alla prevenzione generale o una repressione da prevenzione generale travestita.
In ordine al primo elemento individuato, oltre alle note critiche sistemiche, che misero in crisi il concetto stesso di riserva di legge assoluta nel Diritto Penale -difatti essa dovrebbe operare in quanto riserva (anche) formale e sostanziale, limitando l’uso di decreti[5], recentemente tornati in “voga”-, si può altrettanto agevolmente notare che il riferimento, scoperto, è alle leggi n. 15/1980 (cd “legge Cossiga”) e n. 304/1982 (primo organico provvedimento legislativo sul “pentitismo”, dagli spiccati profili premiali)[6]. Sul piano giuridico è nella critica radicale ai due atti de quibus che trova forza l’argomentazione del ministro brasiliano: quelle leggi, con la loro indiscutibile vis draconiana, determinarono allarmismo e sensazionalismo ulteriori sul fenomeno del terrorismo di matrice politica, sottraendo alla discussione pubblica temi come la corruzione amministrativa e l’emergenza della criminalità dei “colletti bianchi” e il possente riarmo delle organizzazioni mafiose su tutto il territorio nazionale[7]. Come si individuano gli interessati a evenienze giuridico-distorsive di questo tipo? Il ministro Genro fa riferimento alla teoria del criptogoverno elaborata da Bobbio[8]. Il criptogoverno, governo materiale “nascosto” ai principi che dovrebbero informare lealmente le attività politiche ed amministrative (in specie, “trasparenza” e “buon andamento”).
Alla relazione forse manca un atteggiamento critico anche verso certe soluzioni giurisprudenziali che, difettando del sostrato del principio personalistico della responsabilità penale, apertamente consideravano i dirigenti dell’organizzazione armata comunque responsabili degli atti commessi in relazione alla vita associativa del nucleo sovversivo da parte dei singoli adepti (teorema “Caselli”)[9].
È invece più che apprezzabile che la relazione non si soffermi sulla condizione dei familiari delle vittime di crimini commessi da esponenti dei PAC, né in via di discredito -ad esempio argomentando che la pena del reo non restituisce l’integrità del bene offeso, né come addebito -ad esempio sostenendo che l’individuazione del reo ha una valenza psicologica ed esistenziale spiccata per i congiunti di un ucciso.
E qual è il connettivo tra queste, pur valide, argomentazioni di carattere generale e l’obbligo, internazionalmente riconosciuto, d’applicare lo Statuto dei Rifugiati del 1951 a un concreto individuo, ritenuto colpevole per lo Stato italiano di rapine ed omicidi? L’esegesi, esteticamente inappuntabile, dell’art. 1 della legge brasiliana 9474/97 secondo un itinerario di soggettivizzazione del fumus persecutionis[10] e la considerazione che i regimi costituzionali di formazione recente -cioè, non originatisi a seguito del secondo conflitto mondiale- non possono non prescindere dalla considerazione dell’asilo politico quale profilo determinante nell’organizzazione della giustizia[11], quella interna e quella che si cerchi di realizzare in contesti di cooperazione internazionale[12].
 
 
 
Domenico Bilotti


[1] Il paragrafo 45 spiega in realtà che si accoglie il ricorso di Battisti per riconoscerne: “[…] la condizione di rifugiato […] nei termini dell’art. 1 All. I della Legge 9474/97 […]”.
[2] In merito, paragrafo 46: “[…] al CONARE [Comitato Nazionale per i Rifugiati, nda] per conoscenza del sollecitante, al Dipartimento della Polizia Federale, alla Segreteria Nazionale di Giustizia, per i debiti provvedimenti, così come alla Suprema Corte Federale, per i provvedimenti spettanti (sottolineato mio).
[3] Posto che un classico della critica filosofica alle teorie general-preventive è M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, (ora anche) Torino, 2005, qui potrebbe farsi riferimento non solo alle misure di prevenzione propriamente dette, ma a tutti quegli istituti che presuppongono come necessaria la prevenzione poliziesca della condotta di uno dei consociati. Secondo questa griglia interpretativa, J. MUCCHIELLI, Article 41-bis et prisons italiennes in (a cura di) P. ARTIÈRES, P. LASCOUMES, Gouverner, enfermer –la prison, un modèle indépassable?, Parigi, 2004, 246 e ss. Sulle limitazioni penetranti a indefettibili diritti di libertà, nel caso di forme detentive “speciali”, piace ricordare A. VALSECCHI, L’assistenza spirituale nelle comunità separate in (a cura di) G. CASUSCELLI, Nozioni di Diritto Ecclesiastico, Torino, 2007, in specie 119 e ss.
[4] Ma l’influenza del pensiero bobbiano già nella Costituzione Spagnola (1978) e, almeno in parte, nell’omologa portoghese, dopo la rivoluzione dei “garofani”, nel periodo di storia lusitana compreso tra il 1973 e il 1976.
[5] Sul tema già da richiamarsi il D.L. n°625/79, convertito appunto nella “legge antiterrorismo”. 
[6] Cfr. sul punto A. BERARDI, Il diritto e il terrore: alle radici teoriche della “finalità di  terrorismo”, Padova, 2008, 16 e ss, in specie 16-24. Del resto, (a cura di) ID, Il processo e la conversione del conflitto. Relazioni ed interventi dell’incontro di studi, nel trentesimo anniversario dell’omicidio di Fulvio Croce, Padova, 2009.
[7] Basti osservare che, nel periodo in esame, ciascuna delle principali organizzazioni criminali italiane affrontava momenti di grave conflittualità interna: la ‘ndrangheta, da poco chiusa la prima stagione di sangue degli anni Settanta (ca 1975), si accingeva al secondo conflitto nel Reggino (1985-1991); in Sicilia l’asse affaristico-criminale corleonese soppiantava quello palermitano; nel Napoletano le famiglie storiche, riunite nell’ambiguo cartello della “Nuova Famiglia”, fronteggiavano la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Proprio in Campania, dopo il terremoto dell’Irpinia (1980), si mostravano contaminazioni tra potere politico e malavita organizzata, anche a danno di esponenti della Magistratura comunque intesa. Copiosa la letteratura sull’argomento, si consigliano per i profili qui considerati: M. FORGIONE, ‘Ndrangheta. Boss, luoghi e affari della mafia più potente al mondo. La relazione della Commissione Parlamentare Antimafia, Milano, 2008; S. DI MEO, L’impero della camorra. Vita violenta del boss Paolo Di Lauro, Roma, 2008; P. LEPORACE, Toghe rosso sangue. La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustizia, Roma, 2009.  
[8] Del resto già nel corpo della relazione di Tarso Genro, N. BOBBIO, O futuro da democracia:uma defesa das regras do jogo, Rio de Janeiro, 1989, 104, “[…] l’insieme di azioni compiute da forze politiche eversive che agiscono di nascosto in combutta coi servizi segreti, o con parte di essi, o da questi non ostacolati […]” (traduzione mia).  
[9] Queste applicazioni giurisprudenziali trovavano una qualche (incerta) conferma nella stessa prospettazione della Corte Costituzionale. Attraverso la pronuncia n. 15/1982, a proposito della infondatezza della questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 10 del richiamato D.L. 625/79 sui termini della carcerazione ante iudicium (e perciò praeter criminis certationem), si affermava che “[…] nei procedimenti che hanno per oggetto i delitti commessi per finalità di terrorismo […] l’emergenza giustifica misure insolite […]”.
[10] Il richiamato articolo 1 chiarisce che lo status di rifugiato si riconosce a qualsiasi individuo che: “[…] a causa di fondati timori di persecuzione per motivi di […] opinioni politiche si trovi fuori dal suo paese di origine e non possa o non voglia accogliere la protezione di tale paese […]”. Del resto sulla componente politica dei crimini attribuiti a Battisti, cfr. Prima Corte d’Assise d’Appello di Milano, n°17/90, n°86/89 et, già, n°50/85.
[11] Tuttavia, nella formulazione legislativa, non è particolarmente riuscita la identificazione delle cause a sostegno del rifiuto del beneficio. “[…]Non beneficeranno della condizione di rifugiati gli individui che […] abbiano commesso reati contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini abbietti, partecipato ad azioni terroristiche o traffico di droghe […]”. Cfr. art. 3 l. 9474/97.
[12] La Costituzione Federale del Brasile (1988) stabilisce, all’art. 4, che: “[…] nei suoi rapporti internazionali si regge sui seguenti principi […] concessione di asilo politico […]”.

Dott. Bilotti Domenico

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