Digital Marketing: Instagram, pubblicità e Influencer

Irene Marullo 30/06/21
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Se avete un profilo Instagram e seguite i più importanti Influencer, avrete sicuramente notato che, all’interno delle didascalie dei loro post o nelle stories in cui mostrano un qualche prodotto, di una qualche azienda, inseriscono spesso gli hashtag #ad o #suppliedby.

Ebbene, non si tratta di semplici hashtag decorativi, ma di un obbligo giuridico, per cui gli Influencer sono chiamati ad indicare in maniera chiara ai loro Follower che, tramite quel post, stanno effettuando una vera e propria pubblicità del prodotto di cui parlano.

Tale obbligo serve a distinguere i post che gli Influencer pubblicano in cui vengono ritratte semplici scene di vita quotidiana o in cui, semplicemente, consigliano spassionatamente ai propri Follower un prodotto che stanno provando e che gli piace particolarmente, da tutti quei contenuti che, invece, effettuano in virtù di un rapporto economico con un’azienda e dalla quale, quindi, sono pagati o omaggiati di un prodotto.

Con la nascita dei social network abbiamo assistito, dunque, alla nascita del Web Influencer Marketing, fenomeno di marketing che ha spopolato a tal punto da ricevere un riconoscimento dalla stessa Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale ne ha anche riscontrato i probabili profili di illiceità, prevedendo, in un comunicato del 24 luglio 2017, che “l’Influencer marketing consiste nella diffusione su blog, vlog, e social network (come Facebook, Instagram, Twitter, Youtube, Snapchat, Myspace) di foto video e commenti da parte di “bloggers” e “Influencers” (ovvero di personaggi di riferimento del mondo online, con un numero elevato di Follower), che mostrano sostegno o approvazione (endorsement) per determinati brand, generando un effetto pubblicitario, ma senza palesare in modo chiaro e inequivocabile ai consumatori la finalità pubblicitaria della comunicazione”.

Questo fenomeno da pratica commerciale in gran voga tra le Aziende di tutte le dimensioni e di per sé assolutamente appropriata come qualsiasi altra attività di marketing, è arrivato a prendere una deriva di illiceità, andandosi a configurare quale pratica commerciale scorretta, che ritroviamo nel codice del consumo negli articoli 21, 22 e 23, i quali delineano i profili di ingannevolezza delle pratiche commerciali: le pubblicità vengono considerate, appunto, ingannevoli quando deviano il comportamento economico del consumatore, nonché quando vìolano il principio sancito dall’art. 1, comma 2, del Decreto Legislativo 145/2007, per cui la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta.

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Più precisamente, la condotta illecita che si delinea sui social network è la pubblicità occulta, la quale si concretizza ogni qual volta gli Influencer autori delle comunicazioni non palesino “in modo chiaro e inequivocabile ai consumatori la finalità pubblicitaria” delle stesse.

La definizione di pubblicità occulta non si trova esplicitamente all’interno del codice del consumo, ma si può desumere da una pronuncia del Consiglio di Stato (sez. VI, 12/03/2012, n.1387), per cui nella pubblicità viene occultata la natura promozionale del messaggio e tale occultamento è “di per sé idoneo a determinare un falso convincimento nel consumatore e a condizionarne le scelte”, per cui il concetto di ingannevolezza va ricondotto anche alla pubblicità occulta “in base al principio secondo cui la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale e che è vietata ogni forma di pubblicità subliminale: la pubblicità ingannevole, infatti, è insita in un qualsiasi messaggio che possa indurre in errore i soggetti a cui è rivolto e in tale ambito rientra la pubblicità occulta” la quale “si sostanzia in una condotta insidiosa fondata su un’informazione apparentemente neutrale e disinteressata, che può portare un pregiudizio economico al mercato dei consumatori […]”.

La pubblicità occulta, quindi, è idonea ad indurre in errore i consumatori – delineando così una delle principali caratteristiche della pubblicità ingannevole – in quanto non esplicita la finalità promozionale della comunicazione e può deviare in questo modo il comportamento economico dei consumatori.

Nel caso dell’Influencer marketing, in particolare, il rischio di cadere nelle fattispecie di pratiche commerciali scorrette deriva dall’occultamento della pubblicità, non esplicitando la finalità promozionale delle proprie dichiarazioni, ma non solo.

Si può desumere anche da un fatto insito nell’Influencer Marketing, fenomeno che si basa principalmente sul rapporto che l’Influencer ha instaurato tramite il social con il Follower/consumatore, un rapporto quasi familiare, giocando col fatto che questi potrebbero percepire la comunicazione come un semplice consiglio derivante dall’esperienza personale e non come vera e propria pubblicità; ciò, di conseguenza, abbassa inevitabilmente la soglia di attenzione del consumatore, che sarà influenzato e acquisterà su consiglio del proprio idolo.

La fattispecie così delineata è, dunque, sanzionabile come pratica commerciale scorretta in violazione degli articoli 21 sulle azioni ingannevoli e 22 sulle omissioni ingannevoli e dell’articolo 23 sulle pratiche commerciali considerate in ogni caso ingannevoli, ai sensi del D.Lgs. n. 206/2005 del Codice del Consumo.

In tal senso è intervenuta la stessa AGCM attraverso lo strumento delle moral suasion, nonché con il Provvedimento n. 27787/2019 (vs Alberta Ferretti) e il Provvedimento n. 28167/2020 (vs Barilla) tramite i quali hanno accettato gli impegni dei professionisti ad inserire gli hashtag #adv o #supplied, stilando una lista di best practices per gli Influencer, con la quale si allinea alle disposizioni previste dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e la sua Digital Chart.

Prima ancora dell’Antitrust, infatti, è intervenuto l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, il quale, nel 2016, ha redatto la Digital Chart (inserita poi nel 2019 all’interno dello stesso Codice di Autodisciplina Pubblicitaria) con la quale ha previsto, in primo luogo, che l’Influencer possa realizzare una comunicazione commerciale attraverso la forma dell’endorsement, ossia una forma di accreditamento di un prodotto da parte di una celebrity (un personaggio già noto al di fuori dei social) o di un Influencer (un personaggio che ha acquistato visibilità sui social), che comporti un vantaggio per la visibilità, credibilità e reputazione di un prodotto/brand; tale rapporto solitamente si concretizza con la sottoscrizione di un contratto di sponsorizzazione, tramite il quale l’Influencer si impegna con l’Azienda, a fronte di un corrispettivo, a rispettare determinati obblighi, come la pubblicazione di un numero tot di post e stories col prodotto o la partecipazione ad eventi con il brand.

In secondo luogo, la Digital Chart ha previsto che il fine promozionale deve essere reso noto con mezzi idonei, ossia con l’inserimento di una serie di diciture, alternative tra loro, ma che devono necessariamente essere presenti per non cadere nella fattispecie della pubblicità occulta.

Tali diciture sono quelle che tutti conosciamo, ossia “Advertising” o “adv”, o “Promoted by (nome del brand)” o “Sponsored by (nome del brand)” o “in partnership with (nome del brand)”, tutti preceduti dall’hashtag (#).

L’obbligo di inserire questi hashtag non è previsto solo per quegli Influencer legati all’azienda da un rapporto di natura commerciale, ma anche per quelli che ricevono occasionalmente e gratuitamente (o per un modico valore) i prodotti e, dunque, se decidono di citarli nelle loro stories o nei loro post dovranno comunque segnalare la natura di quell’opinione, inserendo una precisazione o disclaimer in maniera verbale, se parlata, come “Questo prodotto mi è stato inviato da (nome del brand)”, o ben leggibile, se scritta, come “prodotto inviato da (nome del brand)” o i più conosciuti e usati #supplied o #gifted.

L’obbligo è posto anche per le stories, soggette ad una particolare previsione da parte dell’Istituto, poiché si tratta di contenuti “a scadenza”, cioè con una durata complessiva di 24 ore, che poi si eliminano automaticamente; dunque, lo IAP ha previsto che le diciture “devono essere sovrapposte in modo ben visibile agli elementi visivi di ogni contenuto promozionale”, comprese le stories.

Le regole fondamentali della Digital Chart sono, dunque, la trasparenza e la correttezza, indispensabili affinché possa formarsi un rapporto di fiducia serio e leale tra chi effettua le comunicazioni e chi ne risulti spettatore e affinché i consumatori possano svolgere una navigazione sul web e sui social sempre più consapevole.

Allo stesso modo si sono mosse le Autorità Antitrust straniere, prima tra tutte l’americana Federal Trade Commission, la quale ha previsto gli stessi obblighi delineati dalla nostra Digital Chart, nonché il criterio della “connessione materiale” tra Influencer e Azienda, per cui se tra questi sussiste un rapporto oggettivo, che sia d’affari, familiare o personale, è previsto l’obbligo di disclosure dell’endorsement, ossia di segnalare in maniera chiara e palese tale collegamento.

Non solo le Autorità, ma le stesse piattaforme social si sono rese conto dell’importanza di questo fenomeno, tanto che, il 14 giugno 2017 il Team Instagram business ha rilasciato una comunicazione nel suo blog ufficiale, intitolato “Perché la trasparenza è importante: una collaborazione più efficace tra aziende e creatori di contenuti”, con cui comunicava di aver svolto una collaborazione con un gruppo selezionato di aziende e Influencer per testare il nuovo tagPaid partnerhip with” (o, “Pubblicizzato da”), ideato con lo scopo di sottolineare il rapporto di natura commerciale tra i due soggetti, resasi conto dell’importanza fondamentale di rendere le comunicazioni sul social trasparenti e chiare nei confronti degli utenti.

Ebbene, la collaborazione si è rivelata vincente e il Paid partnership with è stato ufficialmente inserito tra gli strumenti che le aziende possono utilizzare come strategia di Influencer marketing per promuovere i contenuti brandizzati sul social.

Dunque, da un paio d’anni a questa parte, gli Influencer hanno il dovere di inserire all’interno dei loro contenuti non solo le diciture previste dalla Digital Chart, ma anche questo semplice trafiletto, con cui rendono palese la loro relazione con l’azienda che gli ha fornito il prodotto o il servizio; sopra la foto o la storia, dunque, viene inserito “Paid partnership with (nome dell’azienda)”.

Inoltre, sulle piattaforme di Instagram e Facebook, a tutti coloro che decidono di aprire un proprio account, è data la possibilità di scegliere se creare un account privato o un account business; il primo viene utilizzato da chi si iscrive al social per diletto e per condividere la propria vita con i propri amici, mentre il secondo è stato all’uopo concepito per essere utilizzato come account tramite il quale poter svolgere un’attività lavorativa.

È consuetudine che gli account che gli Influencer scelgono di aprire sui social network siano account business – al contrario non vi potrebbero lavorare – e tale assunto rafforza ancora di più la previsione per cui questo nuovo tipo di imprenditore debba comportarsi secondo le regole dettate per il professionista dalla disciplina consumeristica e debba, dunque, conformarsi alle disposizioni sulle comunicazioni commerciali previste dal Codice del Consumo, nonché a quelle previste dal Codice di Autodisciplina pubblicitaria e la Digital Chart.

Ma è l’account business a delineare una responsabilità in capo all’Influencer, o basta la notorietà degli stessi a determinare una responsabilità quando non si comportano in linea con le normative di settore?

Gli Influencer hanno acquisito un’importanza notevole ed esercitano un’influenza tale sui loro follower da non determinare solo una deviazione nelle loro decisioni economiche, ma spesso anche nel modo di pensare e di vivere di questi, i quali vogliono somigliare sempre di più ai loro idoli.

Sarebbe lecito, dunque, riconoscere una responsabilità ex se dell’Influencer, soprattutto dei più grandi, quelli che raggiungono milioni di persone in tutto il mondo, ai quali, proprio come un professionista o una grande Azienda, si dovrebbero riconoscere una serie di responsabilità anche nella più semplice e spassionata comunicazione e non necessariamente solo in quella commerciale.

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