Deontologia: espressioni sconvenienti o offensive

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Assume l’art. 89 cpc che negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti ed anche i loro difensori non devono usare espressioni offensive o sconvenienti fatte salve le imprescindibili esigenze difensive. Per espressioni sconvenienti od offensive si intendono quelle frasi, attinenti o meno all’oggetto della controversia, che abbiano superato il limite della correttezza e convenienza processuale, espresse nei riguardi dei soggetti presenti nel giudizio, violando tutti i principi posti a tutela del rispetto e della dignità della persona umana e del decoro del procedimento. Offensività e sconvenienza sono posizioni distinte:

–        SCONVENIENZA è una lesione di grado minore, afferente al contrasto delle espressioni usate con le esigenze del processo e della attività difensiva (ad esempio: insinuare subdolamente in merito alla correttezza delle condotte avversarie)

–        OFFENSIVITÀ è la lesione dei meriti e del valore di qualcuno (ad esempio: la controparte è un poco di buono);

Delle offese contenute negli scritti difensivi, risponde sempre la parte, anche quando provengono dal difensore, sia perché gli atti sono redatti per conto della parte, sia perché la sentenza può contenere statuizioni, solo nei confronti della parte in causa. In buona sostanza, vi è carenza di legittimazione passiva, con riferimento al profilo risarcitorio di cui all’art. 89 cpc, dell’avvocato che non è anche parte nel giudizio

Si evidenzia che ai fini della valenza della disposizione in commento, la Cassazione ha ratificato la circostanza per cui le espressioni devono riguardare solo le parti e non i terzi estranei al processo, anche perché la sentenza può contenere statuizioni solo nei confronti delle parti in causa.

Ulteriormente, con l’espressione “scritti presentati” la norma codicistica si riferisce unicamente alle memorie e documenti ritualmente presentati in causa. Non verranno prese in considerazione, offese contenute in memorie non depositate nei termini processuali concessi. Ai sensi dell’art. 89 cpc, il giudice, in ogni stato e grado della causa (dunque anche in Cassazione) può disporre la cancellazione di espressioni sconvenienti e offensive. Il provvedimento con cui si dispone la cancellazione ha la forma della ORDINANZA ed è esercitabile d’ufficio. Ed infatti l’istanza di cancellazione presentata dalla parte non è una domanda giudiziale ma una semplice sollecitazione al magistrato ad esercitare il proprio potere officioso.

Ulteriormente, in ipotesi in cui le espressioni offensive non riguardino il thema decidendum, il giudice ai sensi e per gli effetti dell’art. 89 co. 2 cpc, può riconoscere alla parte offesa una somma a titolo di risarcimento del danno patito. La competenza a conoscere del danno per utilizzo di espressioni sconvenienti negli atti del giudizio è funzionale ed inderogabile e spetta al Giudice incaricato di conoscere del procedimento in cui sono stati redatti o depositati gli atti contenenti le “espressioni incriminate”. Detta competenza funzionale è suscettibile di deroga solo in 4 ipotesi:

A) quando si tratta di atti o dichiarazioni rese nel procedimento esecutivo perché l’azione di cognizione non si attaglia con la natura del procedimento in parola;

B) quando, pur trattandosi di processo di cognizione, questo non si conclude con un provvedimento decisionale, ma, ad esempio, con un’ordinanza di estinzione;

C) quando dette espressioni sono contenute in atti depositati in una fase processuale che non consente di farli valere per intervenuta produzione delle decadenze di rito (ad esempio la comparsa conclusionale);

D) quando la condotta illecita è attribuita al difensore e non alla parte

La cancellazione di espressioni offensive e il risarcimento del danno di cui all’art. 89 cpc sono sanzioni autonome e distinte:

–        la CANCELLAZIONE ha finalità preventiva e può sussistere anche in mancanza di risarcimento;

–         Il RISARCIMENTO ha finalità risarcitoria e non è subordinato alla preventiva cancellazione della frase offensiva.

Quanto all’avvocato, l’art. 52 co. 1 del CDF assume che egli “deve evitare espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell’ esercizio dell’ attività professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi”; la violazione del divieto di cui al comma 1 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura. Recenti pronunce del CNF, in materia di frasi sconvenienti e offensive, affermano però che “L’esercizio del diritto di difesa prevale sul diritto all’onore ed al decoro, con l’eccezione dell’ipotesi in cui le espressioni utilizzate non abbiano relazione con l’esercizio di detto diritto e siano oggettivamente ingiuriose; fermo comunque il limite dettato dal rispetto dei doveri di probità e lealtà, non essendo dato trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza”.

Roberto Giannini

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