Decreto crescita: misure per l’accelerazione dei tempi delle giustizia

Redazione 06/06/12
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Anna Costagliola

Nella bozza del decreto sulla crescita dedicato a «Misure urgenti per il riordino degli incentivi, la crescita e lo sviluppo sostenibile», al vaglio del Consiglio dei Ministri nei prossimi giorni, un capitolo importante è dedicato alle misure indirizzate ad accelerare i tempi della giustizia. L’obiettivo è quello di ridurre il tempo entro il quale una sentenza civile diviene definitiva e, al contempo, quello di deflazionare gli uffici giudiziari.

Ai fini indicati è stato pensato ad un vero e proprio filtro all’appello, rimettendosi al giudice di secondo grado il compito di effettuare una sorta di prognosi di accoglibilità dell’impugnativa in base alla quale verrà deciso se andare avanti o meno. Nella convinzione che uno dei principali elementi che compromette la ragionevole durata di un processo è proprio l’abuso delle impugnazioni, lo strumento indicato dovrebbe disincentivare dal proporre impugnazioni pretestuose e portate avanti solo per prendere tempo.

Pertanto, ai sensi di un nuovo art. 348bis da introdursi nel codice di rito, fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibilità dell’appello, l’impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ravvisi ragionevole probabilità che questa possa essere accolta. Tecnicamente si aggiunge una valutazione di ammissibilità dell’appello. Non solo il giudice di secondo grado deve vagliare se l’appello è ammissibile o procedibile, ma dovrà anche fare una prognosi di accoglibilità dell’impugnativa: se la prognosi sarà favorevole il processo va avanti; se, invece, il giudice valuterà che l’appellante non abbia chance di vincere non si passerà a valutare il merito dell’impugnazione.

Nessun filtro di ammissibilità è tuttavia previsto nelle seguenti ipotesi:

a) nei giudizi in cui è previsto l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero, in considerazione dell’accentuata rilevanza pubblica di tali controversie;

b) nei processi sommari di cognizione.

Contro la pronuncia di inammissibilità del giudice dell’appello è in ogni caso sempre possibile proporre ricorso per cassazione nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello.

La spinta all’accelerazione delle cause perviene anche dalla previsione, sempre inserita nella bozza del decreto legge, che fissa in 6 anni complessivi la durata massima di un processo, ritenendosi rispettato il termine ragionevole di durata di un processo qualora siano osservate le scadenze dei singoli gradi fissate in 3 anni per il primo, 2 per il secondo e 1 per la cassazione. Il decreto introdurrebbe, dunque, il «processo breve» ai fini del riconoscimento dell’equo compenso spettante a causa delle lungaggini procedurali (Legge Pinto), per cui se il processo non si chiude in 6 anni, compresa la Cassazione, scatta l’indennizzo. I 6 anni valgono anche per il processo fallimentare, ma per le esecuzioni la durata scende a 3 anni. Spetta al giudice la determinazione della misura dell’indennizzo, potendo liquidare a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Qualora, poi, la domanda per equa riparazione dovesse essere dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, il giudice può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000.

Nell’ottica del legislatore, le nuove previsioni mirano a realizzare un saldo positivo per la finanza pubblica riducendo sensibilmente, da un lato, la durata media dei processi civili e, dall’altro la possibilità di indennizzi impropri rispetto alle previsioni della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

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