Danno punitivo e diritto naturale nell’età tecnologica

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Indice 1. La tutela del privato nella società del rischio 2. I punitive damages 3. La sentenza 16601/2017 4. I punitive damages servono? L’efficacia del rimedio civilistico messa alla prova 5. Conclusioni, prospettive de jure condendo alla luce della nuova sensibilità comune 6. Indice delle fonti.

1. La tutela del privato nella ‘‘società del rischio’’

L‘articolo 2043 del codice civile funge da recipiente potenzialmente infinito: basta che il danneggiato provi la colpa (almeno) del danneggiante e il nesso di causalità tra fatto e danno, perché la funzione secolare di ripristino delle situazioni svolta dall’ordinamento venga assolta. Si è parlato di ordinamento, e non subito di responsabilità civile, perché questo è solo uno degli strumenti (seppur il più idoneo dal punto di vista satisfattivo) che lo Stato mette a disposizione del cittadino davanti al lamento di un danno subito. Al giorno d’oggi, inoltre, il 2043 è diventato da fulcro a periferia del modello aquiliano. Ad esso si è affiancato un uso sempre più frequente della responsabilità per attività pericolose, o del danno non patrimoniale.

Per quest’ultimo bisogna fare una menzione particolare: nell’inerzia del legislatore, la Suprema Corte per valorizzare questo strumento si è spinta sino ad un’interpretatio abrogans della riserva di legge contenuta nel 2049, per poter concedere tale risarcimento in una più vasta serie di casi1. Sul versante del diritto penale, la valorizzazione del concetto di negligence nel panorama internazionale ha fatto sì che diventassero branche autonome, oggetto di studio e di attenzione, fattispecie come il reato commissivo o, addirittura, omissivo colposo. Curiosamente, se si fa una valutazione crimino-ponderale, queste ultime due fattispecie risultano vincenti. Soprattutto se si pensa che fino a qualche tempo fa l’ambito concettuale di danno era associato perlopiù al reato commissivo doloso, o alla sua variante molto meno frequente colposa. Le fonti non si esauriscono nel codice.

La legislazione speciale, su propulsione dell’UE, si inserisce anch’essa nel panorama dell’illecito civile (ex multis, la disciplina sul consumo e quella sulla privacy). Con l’enorme progresso industriale in corso, si moltiplicano ogni giorno i comfort, ma anche le possibilità di danni, che il legislatore del secolo scorso non poteva lontanamente prevedere.

Così, quando Beck parlava di società del rischio, oggi (ma anche domani) come si può dargli torto? Per superare tale riflessione, restano due questioni da chiarire:  Quali siano le funzioni che l’ordinamento previamente assegna ai mezzi che fornisce al cittadino, in ossequio al principio di legalità;  Come si adattino gli strumenti civilistici ora a disposizione per non far rimanere l’ordinamento troppo indietro rispetto alla società. Con riguardo alla prima questione, la responsabilità civile trae certamente origine dallo studio della compilazione giustinianea e, a priori, dalla lex aquilia de damno. Per esemplificare, si veda il primo comma del plebiscito: ‘‘Ut qui, servum servamve alienum alienamve quadrupedem vel pecudem iniuria occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum aes dare domino damnas esto’’ L’epoca in cui la legge fu promulgata non aveva a disposizione i mezzi di prova di oggi (consulenze tecniche, qualificate valutazioni di mercato, ecc.), così per generalizzare la stima del danno cagionato si utilizzava il valore massimo dell’ultimo anno del bene. Ma questa osservazione preliminare ne conduce ad un’altra di più ampia portata: l’unica preoccupazione del legislatore è quella di compensare lo squilibrio tra i rapporti creatosi a seguito dell’illecito, senza alcuna finalità retributiva, generalpreventiva o di altro genere. A questo proposito, viene in aiuto anche l’etimologia di ‘‘risarcire’’, che si situa nel latino ‘‘in iure sarcire’’. Il verbo latino richiama volutamente l’ambito tessile, ossia del ricucire uno ‘‘strappo’’. Tutto ciò fa comprendere come tutta la scienza giuridica nazionale fino ad oggi si sia concentrata sull’ampliare il novero delle situazioni meritevoli di tutela, nonché avere una stima del danno più conforme possibile al vero.

Con questa premessa, si può guardare alla seconda questione. Il corso del tempo ha rivelato tanti passi avanti, tutti nelle direzioni precedentemente individuate. Si pensi al normale parametro risarcitorio del 1223: danno emergente e lucro cessante sono una scomposizione del danno molto utile a comprenderne l’effettiva entità. La responsabilità obiettiva, altro grande traguardo, ha lo scopo di agevolare il danneggiato, che si troverebbe in una situazione processuale di squilibrio con il danneggiante, ad ottenere la cifra compensativa della sua doglianza.

Anche la valutazione equitativa del giudice solo apparentemente sembra non convergere con tali finalità. È più verosimile immaginare una corte che -davanti a un risarcimento da assegnare in maniera equitativa- si concentri sulla diminuzione patrimoniale del danneggiato piuttosto che su idee come la pena da infliggere al danneggiante. È il danno al centro dell’orbita processuale. Come osserva autorevole dottrina, nel diritto italiano la responsabilità da atto illecito non prevede l’imposizione del pagamento di somme di denaro in mancanza di danno ed in funzione puramente punitiva 2.

In questo panorama si affaccia un nuovo strumento, sconosciuto all’ordinamento italiano, chiamato ‘‘punitive damages’’. Si cercherà innanzitutto di esaminare i caratteri di tale istituto, per poi verificare in seguito la sua compatibilità con l’intricato tessuto giuridico italiano.

2. I punitive damages

L’istituto dei punitive damages trova la sua ratio nella gestione degli illeciti cagionati con malice o reckless indifference. Sul significato di malice viene in aiuto il civ. code americano, che al punto 3294 spiega: ‘‘Malice means conduct which is intended by the defendant to cause injury to the plaintiff or desplicable conduct which is carried on by the defendant with a willful and conscious disregard of the rights or safety of others’’. Vi è pacifica opinione che tale qualificazione sia assimilabile, nell’ordinamento italiano, alla figura del dolo. Riguardo alla reckless indifference, non sembrerebbe sufficiente qualificarla come mera colpa. Essa presenta anche un elemento soggettivo oltre alla obiettiva negligenza, che la rende un ibrido tra colpa grave e colpa cosciente, species conosciute dal nostro ordinamento. Da questo corollario ne discende che, in casi come la responsabilità oggettiva (c.d. strict liability), l’attore dovrà assolvere un più gravoso onere probatorio allorquando volesse pretendere, oltre al mero risarcimento, anche i danni punitivi.

Vediamo ora un tanto noto quanto esemplificativo caso di applicazione di punitive damages. Nel 1990, il dr. Gore acquista un autoveicolo BMW in Alabama, per il valore di circa 40.000 dollari. Dopo poco tempo, portando l’auto dal meccanico per renderla più attraente, si accorge incidentalmente che il veicolo gli era stato venduto ridipinto. La perizia dimostrava come il valore del veicolo a causa del secondo intervento di verniciatura fosse del 10% inferiore a quello di listino, che in concreto significa una pretesa risarcitoria di 4000 dollari. L’attore, tuttavia, deduceva in giudizio altri elementi. In primis, la deplorevole reticenza di BMW che al momento della vendita non aveva informato l’acquirente circa l’intervento di manutenzione subito dal prodotto, vantandolo come nuovo. In secundis, provava di non essere l’unico ad avere subito tale frode, dato che BMW aveva venduto tanti altri modelli riverniciati pur avendola sempre scampata.

Tanto ciò premesso, l’attore chiedeva non solo il risarcimento per il danno subito, ma anche l’irrogazione del danno punitivo per la scorrettezza della condotta della controparte. Il convenuto replicava che la policy d’impresa, legalmente riconosciuta in molti Stati, permetteva che per situazioni come quella gli autoveicoli venissero venduti come nuovi dopo il piccolo intervento di manutenzione prima della vendita, non costituendo quindi alcuna fraud.

Quid iuris? La giuria, nonché l’appello, condannava BMW al pagamento di:
– 4000 dollari, a titolo di danni compensativi – 4 milioni di dollari, a titolo di punitive damages. Il quantum venne stabilito stimando che il convenuto avesse commesso tale illecito impunemente per mille volte, sicché il danno compensativo cagionato fu moltiplicato per il numero di tutti gli altri acquirenti danneggiati dalla condotta di BMW.

La corte suprema dell’Alabama riduceva della metà il quantum del danno punitivo. BMW si rivolgeva, in ultima istanza, alla Corte Suprema USA. E qui avviene l’incredibile: la Corte cassa la sentenza enunciando una sorta di principio di diritto sull’irrogazione dei danni punitivi. Se, da un lato, essi sono familiari all’ordinamento americano e costituzionalmente ammissibili, dall’altro non devono risultare ‘‘grossly excessive’’, altrimenti darebbero luogo ad una sanzione iniqua, estranea ai principi del giusto processo, anch’esso costituzionalmente garantito3.

La vicenda in esame fa emergere bene i punti salienti dell’istituto dei punitive damages. Un paese che più di ogni altro confida nei privati, più di ogni altro aborra le loro malefatte. Per questo motivo innesta nel giudizio civile uno strumento che svisa la sua natura prettamente risarcitoria. Sicuramente, l’ordinamento non vuole che succeda un’altra volta un caso del genere, di qui la finalità special-preventiva, ma anche general-preventiva. Le pronunce in Alabama mostrano anche lo sdegno popolare nei confronti delle microviolazioni seriali: è vero che il danno per il Dr. Gore era di soli 4000 dollari, ma BMW applicando puntualmente tale comportamento aveva incassato 4 milioni di dollari indebitamente. Tuttavia, la Corte Suprema USA rinviene anche un aspetto retributivo, commisurato all’entità del singolo fatto, alla luce del quale la sanzione irrogata è reputata contra ius. Il dibattito è squisitamente giuspubblicistico, investe questioni di politica di prevenzione, repressione e retribuzione. Se non fosse che il tutto nasce da una questione civile tra due privati. Il che non è indifferente, considerando che le pene tra privati che unanimemente conosciamo sono contenute non nelle costituzioni, ma in clausole contrattuali.

Le questioni relative alla natura pubblicistica dei punitive damages, come si suol dire, escono dalla porta ed entrano dalla finestra, di un non troppo lontano 1995. Stavolta si dibatte sulla disponibilità del remedium. Data la finalità politica dell’istituto e la sua tutela di pubblici interessi, ci si chiede: se le parti si sottraggono alla giustizia pubblica per adire quella privata, può l’arbitro condannare l’eventuale convenuto soccombente anche ai punitive damages? La Corte Suprema, con la sentenza Mastrobuono, risolve la questione affermativamente. Tuttavia, è possibile escludere la liquidazione dei danni punitivi se così stabilito negozialmente nel patto di arbitrato o nella clausola compromissoria.

Se sembrano esserci delle problematiche di applicazione dello strumento dei punitive damages, d’altri canto esistono nell’ordinamento statunitense altre norme che fanno apprezzare la funzione da esso svolta. Ad esempio, la american rule, che addebita le spese processuali a chi le ha sostenute (e quindi anche al vincitore!), senza alcun aggravio per il soccombente. Di conseguenza, è ovvio che il risarcimento del danno liquidato sarà superiore alla mera stima della doglianza. Tuttavia, non è ancora abbastanza. C’è qualcosa in più che in qualche modo fa capire le potenziali aspre punizioni verso i danneggianti. Se si parlasse del forte potere di lobbying che le multinazionali esercitano nella legiferazione su materie piccanti, si parlerebbe di politica. Ma l’introduzione della preemption defense è tangibile diritto. Ogni giorno sono precluse tantissime azioni risarcitorie contro i produttori, potendo questi dimostrare in giudizio di aver rispettato gli standard federali vigenti per esonerarsi da qualsiasi responsabilità in merito alla presunta difettosità dei loro prodotti. La preemption rule copre gran parte dei settori economici statunitensi, salvo coloro che, invece, sono assoggettati al più pretenzioso sistema della strict liability. I produttori di farmaci, ad esempio, dovranno dimostrare non solo la conformità dei loro prodotti agli standard, ma anche (per citare il nostro 2050 c.c.) di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.

Di certo, la preemption rule ha reso più efficiente l’economia, dando la possibilità agli operatori di preventivare molto meglio i costi di gestione, escludendo la possibilità di piogge di contenziosi a sorpresa. Tuttavia, un simile regime rende più comprensibile un maggior (seppur non eccessivo) rigore nei confronti di coloro che comunque agiscono da spregiudicati o da ‘‘furbetti’’.
Se la preemption rule è riuscita a transitare oltreoceano, lo stesso discorso non si può fare per i punitive damages. Ciò almeno fino a luglio 2017, quando la Cassazione ha riaperto il dibattito sul tema.

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3. La sentenza 16601/2017

È dell’anno scorso una importante pronuncia della Corte di Cassazione in materia di delibazione di sentenze straniere, in cui emerge il problema della compatibilità del danno punitivo col nostro ordinamento. Analizzando il principio di diritto, enunciato dalla Suprema Corte, assieme alla periferia fattuale del caso concreto, si cercherà di comprendere quale sia effettivamente la posizione attuale dell’ordinamento nei confronti dei punitive damages. Di qui, spogliato l’argomento de jure della veste mediatica immediatamente successiva alla pronuncia, nonché del forse eccessivo zelo di alcune testate4, si tenterà di rispondere al quesito: stante l’overruling degli ermellini nel loro ultimo dictat, quanto si può stimare il suo peso specifico?

Vediamo i fatti. La Società Nosa ottiene presso la Corte d’appello di Venezia l’esecutività di tre sentenze americane, che la autorizzano a escutere dalla Società Axo la cifra di un milione di euro, indennizzo transattivamente corrisposto. La Società Axo, infatti, era stata ritenuta responsabile dei danni cagionati da un suo prodotto difettoso (in specie, un casco per motociclette) in seguito ad un sinistro che coinvolse un consumatore che utilizzava il prodotto de quo. La cifra della transazione era nettamente minore rispetto a quella che il difensore della vittima aveva chiesto in giudizio (in Florida), invocando anche la corresponsione dei danni punitivi, per una pretesa totale oscillante tra i dieci e i trenta milioni di dollari. La Axo, tuttavia, si rivolge alla Suprema Corte per la cassazione del provvedimento di delibazione. Il ricorso verte su tre motivi, due dei quali inerenti alla legittimità della transazione stipulata non dalla parte ricorrente, ma da Nosa, sua garante. La terza doglianza di Axo riguarda vizio di motivazione e violazione dell’art. 64 l. 218/95 in materia di violazione di ordine pubblico ostativa alla delibazione di sentenze straniere. Lamenta infatti la parte ricorrente che la transazione accettata dal motociclista fissava l’importo ‘‘a titolo di composizione integrale di tutte le pretese risarcitorie del sig. D., comprese quelle per punitive damages’’. Tale menzione risulterebbe contra legem e pertanto renderebbe censurabile la delibazione.

Tanto ciò premesso, la Corte di Cassazione si pronuncia, il 5 luglio, con sentenza. Essa è suddivisibile in due parti: nella prima, si espongono le motivazioni dell’inammissibilità del ricorso di Axo; nella seconda, ai sensi dell’art. 363, terzo comma c.p.c., partorisce un nuovo principio di diritto, in materia di punitive damages.

La prima parte della sentenza nega le pretese dell’attore. In breve, ecco le osservazioni della Corte:
– La Axo denuncia che, nella delibazione, la Corte d’appello non abbia obiettato sul fondamento della domanda di garanzia, legittimante la Nosa a transigere col motociclista. Il motivo è inammissibile, in quanto ‘‘la parte non può attestarsi a mo’ di trincea sul fronte dell’exequatur, se non ha fatto valere i propri diritti nel corso del giudizio a quo svoltosi nello Stato in cui sia stata evocata in giudizio’’; – La parte ricorrente rinviene una finalità punitiva del risarcimento ammesso, in conseguenza della sua abnormità. Tuttavia, la liquidazione di un milione di euro su base transattiva, a fronte dell’originaria pretesa nettamente più alta nel processo a quo, non può ritenersi abnorme, né tantomeno sanzionatoria. Ciò anche a fronte del grave pregiudizio alla persona del motociclista, in quanto ‘‘al calcolato silenzio del ricorso.

Ancorché si sia detto ciò nella prima parte della sentenza, id est un rigetto totale del ricorso, la Corte di Cassazione si avvale della facoltà di cui all’articolo 363 c.p.c., terzo comma, che le concede di pronunciare il principio di diritto anche d’ufficio, quando il ricorso è inammissibile, se ritiene che la questione decisa è di particolare importanza. Il caso de quo ha offerto il destro alla Corte per esercitare la sua nomofilachia strictu sensu, per giunta al fine di superare il suo precedente orientamento sui danni punitivi. Ciò da un lato conferisce particolare rilevanza alla pronuncia, proprio per l’attenzione mostrata dal collegio giudicante. C’è anche un’altra faccia della medaglia però: i precedenti in materia, che saranno a breve esaminati come prevede il modus operandi della Corte, sono soltanto due. Insomma, esprimere il proprio parere adesso significa non solo volerlo fare ora, ma anche non voler aspettare un tempo indeterminato che potrebbe essere di anni.

Ecco quindi l’orientamento precedente della Cassazione.

Nel 2007, la Corte si pronunciava per non delibare una sentenza estera con esplicita condanna ai punitive damages, stante l’estraneità al nostro ordinamento dell’idea di punizione ovvero di sanzione, oltre al rilievo della condotta del danneggiante nella dosimetria risarcitoria, poiché l’unica funzione dell’istituto aquiliano è quella di ‘‘restaurare la sfera patrimoniale’’ del soggetto leso5. Si ribadiva con forza la matrice romanistica dell’illecito extracontrattuale, che doveva rimanere incorruttibile e illesa dalle invasioni straniere.

Nel 2012 la Corte di Cassazione è chiamata ad esaminare una sentenza di merito, sempre in materia di delibazione.

La Corte d’appello aveva riconosciuto un provvedimento straniero, ma in ultima istanza l’exequatur venne cassato in quanto la sentenza a quo, pur non contenendo esplicita menzione di punitive damages, condannava il convenuto al pagamento di un ingente risarcimento del danno. Stavolta si tratta di tutelare l’ordine pubblico in senso sostanziale, superando il limite del nomen juris, per espungere dal diritto un carattere ritenuto sanzionatorio in ossequio alla ‘‘verifica di compatibilità con l’ordinamento italiano della condanna estera al risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale’’6.

Infine, arriva il punto attuale. Stavolta la Corte muta il suo parere nei confronti dei punitive damages. Alla base del ragionamento, alcune fonti sono rimaste uguali al tempo in cui furono citate nelle pronunce di diniego: l’art. 23 Cost. che appone una riserva di legge sulla richiesta dello Stato di ottenere prestazioni patrimoniali da un cittadino; l’art. 25 comma 2, che raccomanda la tipicità e l’irretroattività della pena. Tuttavia, se ne è data una rilettura diversa, pur sempre costituzionalmente orientata ma anche adattabile con i tempi. Ad esempio con la fiducia nell’ordinamento straniero che applica tali principi, anche se a degli istituti di diritto sostanziale sconosciuti alla Repubblica. Ciò, d’altronde, trova un riscontro nel riconoscimento delle astreintes, un istituto di diritto civile belga. Seppur riconoscendo la sua natura sanzionatoria, al fine di coazione indiretta all’adempimento, nel 2015 ancora la Corte ci teneva a differenziare tale istituto dal danno punitivo, poiché le astreintes, fuori dall’ambito del risarcimento del danno, sono una tecnica di ‘‘induzione all’adempimento mediante una pressione (…) a tenere il comportamento dovuto’’7.

Si pensi invece a fonti come il concetto di ordine pubblico ex art. 64 l. 218/95. L’elasticità del concetto ne implica necessariamente, col passare del tempo, una ridisegnatura. Intanto, è stato constatato che accanto al concetto di ordine pubblico nazionale coesiste quello europeo, anch’esso mirato alla tutela e alla promozione dei diritti fondamentali. Ciò premesso, si è riconosciuta l’inefficacia della ‘‘ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani. Non avrebbe utilità chiedersi se la ratio della funzione deterrente della responsabilità civile nel nostro sistema sia identica a quella che genera i punitive damages’’. Ciò che si intende è la volontà di spogliare il dibattito di tutti i suoi aspetti non squisitamente giuridici. Per arrivare a tale risultato, occorre esclusivamente una verifica, una sussunzione del diritto ai principi fondamentali, perché non vi sia aperta contraddizione con essi. La sentenza straniera, quindi, ‘‘quand’anche non ostacolata dalla disciplina europea, deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell’apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l’ordinamento costituzionale’’.

Sul piano teorico, la Cassazione riconosce inoltre la polifunzionalità della sanzione civilistica, in una chiave di lettura sistematica. Infatti, non è il caso de quo il pioniere della ‘‘punitivizzazione’’ della responsabilità civile. Si pensi, ad esempio, all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970), il quale prevede che il risarcimento per licenziamento illegittimo del lavoratore sia da un lato equivalente alle mensilità effettive di esclusione dall’azienda (finalità compensativa), ma non potrà in ogni caso essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto (tale predeterminazione del minimo è da considerarsi punitiva). Lo stesso floor sanzionatorio si ritrova anche, sempre in materia giuslavoristica, nell’art. 28, secondo comma, del d.lgs. 81/2015 (Jobs act). Anche qui, in caso di conversione di contratto a tempo determinato in indeterminato, il risarcimento del danno dovuto al lavoratore è di almeno due mensilità e mezzo.

Un esempio più lampante è dato dall’articolo 96 c.p.c., guardato con più attenzione negli ultimi anni nella lunga battaglia del legislatore contro gli abusi del processo. La parte soccombente condannata ex art. 96, ovverosia che ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, oltre a non poter ricorrere per l’indennizzo da processo troppo lungo ai sensi della legge Pinto, deve pagare le spese di giudizio, nonché il risarcimento dei danni alla parte vittoriosa. Non c’è dubbio che la parte possa essere materialmente danneggiata dalla riottosità della futura soccombente, sorge qualche dubbio sulla possibilità di provarlo in giudizio, visto anche il richiamo operato dall’art. 96 agli artt. 2043 e ss. Nel terzo comma emerge la natura sostanziale della disposizione, concedendo al giudice la possibilità di ordinare la liquidazione di una somma equitativamente determinata. Chiamata a decidere sulla conformità a costituzione della norma, la Corte Costituzionale osserva innanzitutto che la natura dell’art. 96 è ‘‘non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive’’8. Con ciò, concorda col legislatore sull’individuazione del destinatario di tale sanzione nella controparte, anziché (come usualmente avviene nelle sanzioni) nello Stato, respingendo la censura del giudice a quo.

Tutto ciò premesso, la Cassazione enuncia il principio di diritto, la nuova regula juris: ‘‘Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscono la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico’’.

Questa è la nuova posizione della magistratura riguardo ai danni punitivi. Sicuramente, essa rappresenta la fine ufficiale dell’ostracismo nei confronti dei punitive damages. Dall’altro, le ‘‘basi normative’’ di cui parla la Corte sono un memento sulla riserva di legge che incombe sulla materia: il provvedimento giudiziale che liquida danni punitivi deve avere una fonte primaria di riferimento che abbia tipizzato e predeterminato sufficientemente tale sanzione.

Questo è il caso della Florida, o del Quebec, così come di molti altri paesi, che vedono dinanzi una strada molto più liscia per l’exequatur in Italia. I paesi che invece affidano la regolamentazione dei danni punitivi alla discrezionalità pura del giudice, oppure ne contengono le indicazioni in precedenti giudiziali autorevoli e vincolanti come se fossero legge (tendenza diffusa in common law, nonché a Strasburgo), vedranno ancora la porta sbarrata dall’insanabile contrasto con l’ordine pubblico. I principi in materia di pene della nostra Costituzione esprimono quella preoccupazione di ogni ordinamento nei confronti della proporzionalità, tra sanzione e fatto commesso. La stessa preoccupazione che ha espresso la Cour de Cassation francese quando riconosceva, nel 2010 e nel 2012, delle sentenze straniere che liquidavano punitive damages, con l’onere per i giudici interni di verificare la loro proporzionalità9.

Il punto è, come si è precedentemente detto, che le richieste transnazionali di riconoscimento sono nettamente poche. Per questo sorge l’ovvio quesito sugli effetti della pronuncia della Cassazione nei tribunali italiani, in altre parole se i punitive damages possano trovare la loro genesi proprio in una sentenza di merito italiana. Ed è qui che decade leggermente l’entusiasmo per la novità della pronuncia, che si pone sicuramente da apripista ma di un tragitto ancora lungo. Se le parti scelgono che si applichi il diritto straniero, nulla quaestio che il giudice possa condannare ai danni punitivi se sono soddisfatti i requisiti legali previsti dal dictat giudiziale. In caso contrario, ossia nella normalità, il giudice italiano non può liquidare danni punitivi in quanto non esiste alcuna disposizione che soddisfa i requisiti di tipicità e determinatezza richiesti dalla Cassazione. L’intervento legislativo dovrà individuare l’esatta portata di tale nuova voce di danno, stabilire il requisito soggettivo accanto a quello oggettivo del fatto illecito, nonché dare indicazioni precise sul quantum. Se prevarrà la volontà di rimanere ancorati alla funzione pivotale di compensazione della responsabilità civile, il danno punitivo potrebbe rimanere confinato in una percentuale del danno patrimoniale ex 1223 c.c. Qualora invece il legislatore optasse per un potenziamento della funzione di deterrenza, il punitive damages potrebbe diventare un multiplo del danno patrimoniale, pur sempre accuratamente determinabile ex ante. Sarebbe difficile pensare a una possibilità di determinarlo equitativamente dal giudice: vista la delicatezza della materia questa previsione farebbe chiamare in causa la Corte Costituzionale, allungando i tempi dei processi (già abbastanza dilatati). Per giunta, si assisterebbe a uno scenario come quello del caso BMW, con una censura radicale in ultima istanza perché il danno liquidato risultava ‘‘grossly excessive’’.

Un intervento legislativo simile a quello appena auspicato è già successo, con l’introduzione ex l. 69/2009 dell’articolo 614 bis c.p.c. Esso concede al giudice di comminare sanzioni pecuniarie punitive a colui il quale tardi ad adempiere obblighi di fare infungibile o di non fare. Se è pur vero, infatti, che nemo ad facere cogi esse potest, si può indurre l’obbligato ad adempiere sanzionando ogni suo ritardo nell’adempimento o inosservanza del divieto. Seppur mantenendo una certa discrezionalità per il giudice, la legge fissa dei parametri non molto distanti da quelli che dovrebbero essere posti alla base del danno punitivo, ovviamente a grandi linee: il valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.
Tutte le osservazioni finora svolte, così come il nucleo della pronuncia della Cassazione, ineriscono alla questione della astratta configurabilità dei punitive damages nell’ordinamento italiano. Il requisito di legittimità ha necessariamente bisogno di essere accompagnato da una analisi nel merito: l’istituto dei danni punitivi è legittimamente ammissibile, ma è anche concretamente necessario? Il placet di diritto potrebbe essere corroborato o infirmato dalla realtà dei fatti. È di questa tematica che ci si preoccuperà proseguendo nella trattazione.

4. I punitive damages servono? L’efficacia del rimedio civilistico messa alla prova.

La parte del codice inerente alla responsabilità civile, ovverosia l’intermediazione dello Stato in alcuni tipi di rapporti (giuridicamente rilevanti) tra un consociato e l’altro, si regge su due pilastri extralegali che danno ragione alla sua funzione. In primis, l’approssimativa eguaglianza tra i consociati. Ciò non vuol dire soltanto una differenza patrimoniale non eccessivamente rilevante tra emptor e vinditor, ma anche che la controparte abbia un volto, o che risulti facilmente localizzabile perché radicata sul territorio. In secundis, fattore connesso inesorabilmente a quello precedente, vi è il valore che la società attribuisce al denaro. Esso, il bene con la più alta utilità marginale, ha principalmente una funzione di scambio con altri beni o servizi, e ciò è alla base della odierna teoria della sinallagmaticità contrattuale.

Si può dire che sia ancora così? Sotto il primo profilo, il gap tra chi offre beni e servizi, e la controparte, è cresciuto in maniera esponenziale. Non solo perché il reddito del comune cittadino non si può accostare al capitale sociale di una grande impresa, ma anche perché la completa urbanizzazione e la settorializzazione fordista delle competenze hanno accentuato il rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti dei produttori, al punto da diventare un vero legame di dipendenza dalle loro attività. Così, per vivere in maniera serena la propria vita il cittadino ha continuamente bisogno di beni e servizi quotidianamente, tanto che ha assunto la qualità di consumatore. Dall’altro lato, le imprese hanno visto un grande sviluppo: la maggiore circolazione di flussi di denaro ha fornito maggiore liquidità, la globalizzazione e i modelli sovranazionali hanno dato la possibilità di insediarsi contemporaneamente in più paesi, l’ergonomia dell’istituto della società di capitali a responsabilità limitata ha permesso numerosi investimenti, nonostante abbia reso ormai impossibile dare un volto a colui con il quale si contratta.

Anche il valore del denaro non è più lo stesso. La valorizzazione del risparmio e dell’investimento ha reso il denaro strumentale a ottenere altro denaro, mentre l’abbassamento del pressure della morale collettiva ha fatto sì che qualunque cosa possa essere valutata patrimonialmente (si pensi al deep web, sede di un corposo traffico umano, di stupefacenti o di organi). Le esigenze giudiziali hanno dovuto, per ragioni di equità, dare un valore anche ai c.d. diritti non patrimoniali, come l’onore, la salute, la vita, la privacy. Insomma, il denaro è diventato il pretium di qualsiasi cosa: diritti, cose (o beni nella accezione più estensiva del termine), nonché altro denaro.

I vari ordinamenti hanno aderito al modello capitalista, perseguendo una politica di liberalismo in netta crescita negli ultimi anni. Rispetto per le esigenze del mercato, quindi, ma anche regolazione per poter garantire al massimo la pulizia del gioco della concorrenza, punendo i comportamenti scorretti. L’escalation normativa culmina con la volontà di tutelare anche chi, in un comportamento commercialmente scorretto, è la vittima materiale: il consumatore. La direttiva 85/374 è pioniera in merito, ma bisogna anche ricordare la nascita delle autorità garanti, in particolare quella dei consumatori e della privacy, che svolgono un ruolo importante soprattutto in materia di inibitorie al momento della scoperta di una condotta commerciale contra legem.
Questo progresso legislativo ha portato a molte censure di comportamenti oltraggiosi nei confronti del contratto sociale: dal caso Saiwa (modesto di valore, ma esempio di grande iniziativa giudiziale), al caso BMW, fino a vicende di scalpore mondiale come il Dieselgate o il recentissimo scandalo Facebook e Cambridge Analytica. Neanche la pubblica amministrazione ha avuto scampo: proprio a causa della permeazione dell’ordinamento europeo nella Repubblica, la p.a. è stata ritenuta responsabile di omissione di informazione circa le condizioni di dell’acqua nei confronti degli utenti, dovendo indennizzare loro del ‘‘danno da paura di ammalarsi’’10. Tale progresso sta fungendo anche da spinta propulsiva per nuovi dibattiti de jure condendo, come ad esempio quello in materia di responsabilizzazione dei provider per la circolazione di fake news 11.

Tutti questi dati sono sicuramente un successo, ma allo stesso tempi nascondono molte altre microviolazioni seriali che invece tuttora rimangono impunite. Questo tipo di condotta al giorno d’oggi è molto frequente, in quanto molte grandi imprese causano un lieve danno ad un grande numero di consumatori, traendone un cospicuo vantaggio. Se l’impresa A, per risparmiare sui costi di produzione, vende mille esemplari di un prodotto leggermente difettoso, spendendo così 5 anziché 10 euro a pezzo (ma rendendo il prodotto sopravvalutato rispetto al prezzo di vendita, che è modellato sul prodotto perfetto), nessuno agirà in giudizio per una piccola reductio del prezzo, ma il produttore avrà risparmiato 5000. Il problema di fondo è questo: lo stato dei fatti attuale rende vantaggioso tale condotta illecita, con la conseguenza del moltiplicarsi di violazioni dei tipi più vari, quali attività frenetiche di call center ai limiti della molestia, o utilizzo fraudolento di dati personali. Chi sono i danneggiati? In primis i consumatori, che sono costretti a subire tali piccoli ‘‘fastidi’’ perché sarebbe uno sforzo sproporzionato adire il giudice; in secundis gli operatori economici onesti, che trovano una concorrenza falsata da competitors che aumentano i loro profitti non per la legge darwiniana, ma per i loro fatti illeciti.

Che ruolo ha il settore pubblico in questa situazione? Sicuramente, la normale attività giurisdizionale, seppur con tempistiche discutibili, condanna anche a cifre consistenti, che talvolta si riducono a seguito di transazioni. Anche le Autorità garanti comminano sanzioni e, come accennato prima, ordinano inibitorie. Sono presenti le c.d. azioni follow-on, esperibili da chiunque si ritrovi danneggiato da una condotta commerciale dichiarata illegittima dall’Autorità, per ottenere più agevolmente il risarcimento del danno subito.

Per alcune violazioni, inoltre, è opportuno ricordare la responsabilità penale non solo delle persone fisiche alle quali materialmente si attribuì la paternità dell’illegittima commissione od omissione, ma anche degli enti stessi qualora non dimostrino di aver adottato modelli organizzativi idonei a prevenire il compimento di reati. Allorquando il fatto presenti astrattamente i caratteri di un delitto, è ammesso il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059, anche senza un accertamento concreto della colpa, necessaria per integrare tutti gli estremi del reato12. Il risarcimento del danno morale avviene mediante la corresponsione di una somma di denaro la cui funzione non è chiaramente di reintegra del patrimonio, ma di soddisfazione per il male sofferto13.

Riguardo alla privacy, merita di essere segnalato il sensibile inasprimento del trattamento sanzionatorio, a seguito del nuovo regolamento 2016/679 in materia di trattamento di dati personali. Per i trasgressori, ai sensi dell’art. 83, sono previste sanzioni fino a 20 milioni di euro, oppure il maggior valore parametrato al 4% del fatturato annuo dell’impresa. Sono tenuti in considerazione a fini dosimetrici, oltre al danno materialmente cagionato, anche la gravità del fatto, lo spessore dell’indebito vantaggio conseguito, l’intensità del dolo o la gravità della colpa, l’eventuale recidività, ecc. Per le violazioni fuori dall’ambito dell’art. 83, si raccomanda agli Stati, ai sensi dell’art. 84, di irrogare sanzioni ‘‘effettive, proporzionate e dissuasive’’.

Evidentemente, però, tutto ciò non basta. La funzione compensativa della responsabilità civile, assieme a qualche sanzione economica pubblica, più che deterrenti agli occhi di molti amministratori sono un pretium, una voce preventiva del bilancio da sopportare in vista di ben più grandi guadagni futuri. Né si riesce a immaginare che tipo di sanzione pubblicistica possa fungere davvero da deterrente, considerati anche i limiti imposti dalla Costituzione. Ad esempio, una prospettiva sarebbe quella delle sanzioni reputazionali. Fare contro-pubblicità ad una impresa responsabile di un illecito, tuttavia, può produrre effetti molto diversi rispetto a quelli desiderati. L’attacco alla reputazione di una impresa può non scalfirla minimamente, ma anche causarne il fallimento, tutto ciò quindi in insanabile contrasto con i principi di tipicità e proporzionalità della pena.

Per questi motivi l’Unione Europea ha puntato al private enforcement, ossia di chiedere aiuto ai cittadini. Se, infatti, partecipare attivamente per denunciare violazioni commerciali non è imponibile come dovere di solidarietà ex art. 2 cost., si può comunque indurre i cittadini a farlo. Ciò implica incrementare la deterrenza all’illegalità puntando sull’egoismo dei privati, che spinti dal loro tornaconto personale, si attiverebbero per la persecuzione degli illeciti14.

Nell’analisi costi-benefici del singolo, per migliorare tale rapporto l’UE ha cercato di abbassare i costi, sollecitando gli Stati membri ad introdurre le class actions. In Italia, nonostante l’istituto non abbia avuto grande successo a causa delle querelle processuali su legittimazione ad agire ed efficacia del giudicato extra competitores, è stata inserita nel codice del consumo l’azione di classe per la ‘‘tutela dei diritti individuali omogenei e interessi collettivi dei consumatori e degli utenti’’, ex art. 140 bis. I danneggiati potranno quindi rivolgersi ai comitati rappresentativi dei consumatori, e aggregarsi alla causa senza pagare un avvocato. Al momento, alla normativa non ha fatto seguito un numero rilevante di azioni, forse per la spiccata diffidenza del legislatore verso l’istituto, che si palesa ad esempio nel divieto di riproposizione della domanda. Riguardo alle controversie transfrontaliere di modesta entità, si segnala, infine, il regolamento europeo n. 2421/2015, intervenuto a rinforzo del precedente regolamento n.861/2007. Lo scopo è quello di ridurre le spese e facilitare la comunicazione elettronica, per rendere più accessibile la giustizia minore transnazionale (il valore massimo delle liti, infatti, è di 5000 euro).

Altro è abbassare i costi, altro alzare i benefici: questo è chiaramente l’obiettivo dei punitive damages. L’ingiusta locupletazione del danneggiato si trasforma in una retribuzione (forse non giusta, ma necessaria) per il proprio impegno attivo nella società. Pare corretto, seppur poco felice, constatare che la mancanza di punitive damages sia determinante nel consentire a certi convenuti seriali di tenere condotte antisociali, dacché distribuiscono sui più deboli costi rilevanti15.

5. Conclusioni

Nel corso della trattazione, si è cercato di definire il concetto di punitive damages, in linea teorica e nei suoi risvolti pratici. Con questi occhi si è poi guardato alla pronuncia innovativa della Cassazione, esplorando le motivazioni che hanno indotto la Corte a cambiare orientamento, ma anche cogliendo il messaggio intrinseco di chiamata all’agorà su una questione rilevante de jure condendo. Per questo si sono indagate le ragioni in fatto e in diritto, a sostegno della tesi per cui si auspica un intervento legislativo che possa introdurre definitivamente i punitive damages nel nostro ordinamento.

La responsabilità civile è alla base dello sviluppo e del progresso: un regime inappropriato può far scappare tutti gli investitori, mentre una continua aderenza alla realtà può agevolare la crescita economica. Siamo tra l’altro in un momento di crisi totale dei valori: l’essenza di partecipazione collettiva della polis ha ceduto il passo ad un patologico egoismo, nonché ad una pericolosa indifferenza che indebolisce il cittadino e lo allontana dalle istituzioni. La funzione ultracompensativa dell’azione risarcitoria cerca un riavvicinamento del cittadino e un suo riallineamento agli obiettivi di politica comune, tristemente con l’allettamento pecuniario. Tuttavia, è il primo passo verso la riacquisizione di una seria fiducia nella Repubblica e nell’Unione Europea, dai quali ci si sentirà realmente tutelati.

I destinatari passivi, tra l’altro, sono molto forti. Approfittano del principio divide et impera, per maliziose condotte antisociali frutto di maliziosi calcoli mirati solo al profitto. Ciò causa danni crescenti, sulla rampa della sopportazione dei consumatori e delle loro famiglie. Ieri le macchine, oggi i social network, domani i giocattoli per bambini: urge tanta celerità quanta attenzione nella redazione di una legge socialmente necessaria.

Note

1 Così l’interpretazione costituzionalmente orientata di Cass. n. 8827 e 8828/2003: ‘’nell’ipotesi di lesione di un valore inerente alla persona costituzionalmente garantito da cui sia scaturito un pregiudizio di natura non patrimoniale, (…) il danno non patrimoniale, seppur ontologicamente diverso dal danno morale soggettivo contingente, andrà anch’esso risarcito ai sensi dell’art. 2059 c.c., ma in tal caso tale norma, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, andrà svincolata dal limite della riserva di legge correlata all’art. 185 c.p.’’.

2 Il riferimento è a TRIMARCHI, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017.

3 BMW of North America inc. v. Ira Gore jr.

4 Sole 24 ore, Norme e tributi, 6/7/17 ‘’Ok al risarcimento dei <<danni punitivi>>’’.

5 Cass. 19 gennaio 2007, n.1183

6 Cass. 8 febbraio 2012, n. 1781

7 Cass. 15 aprile 2015, n. 7613

8 Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152

9 Cour de Cassation, 1 ch., 1o dicembre 2010, n. 0913303, e 7 novembre 2012, n. 11-2387.

10 AL MUREDEN, Sicurezza dei prodotti e responsabilità del produttore: casi e materiali, Giappichelli, con commento di Ippoliti Martini (p. 311 ss.).

11 Per una breve panoramica MACCARRONE, Fake news: il ventunesimo articolo nel ventunesimo secolo, in Diritto.it.

12 Cass., 12 maggio 2003, n.7283 in Foro it. 13 PAGLIARO, Principi, p. 723

14 Così osserva GALGANO, I fatti illeciti, p. 161.

15 P.G. MONATERI, La delibabilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi finalmente al vaglio delle sezioni unite, in Danno e resp., 2016, 833

Maccarrone Luigi

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