Dal dissidio al conflitto: la cultura della mediazione

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La Direttiva 2008/52/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 21 maggio 2008 relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale, che consta di 30 consideranda e 14 articoli, non è rilevante solo per la mediazione in materia civile e commerciale ma per la determinazione della mediazione in generale, del ruolo del mediatore e della cultura della mediazione.

Nel considerandum n. 1 si parla di “mantenere e sviluppare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (così anche il considerandum n. 5) che è quanto avviene nella camera di mediazione (per la mediazione in materia civile e commerciale) e nella stanza di mediazione (per la mediazione familiare e quella penale). Lo spazio di libertà (etimologicamente “condizione di chi ha il godimento della sua persona”), sicurezza (etimologicamente “senza preoccupazione”) e giustizia (che significa pure “rettitudine, ragionevolezza”), oltre ad avere un significato giuridico di politica europea (dal Titolo V del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), risponde – come si evince dal considerandum n. 6 – a “esigenze delle parti” (“esigenza”, “ciò che viene fuori” e la mediazione opera proprio nel senso di “ex agere”, spingere fuori, condurre oltre), le quali si liberano dall’assoggettamento alla conflittualità, e secondariamente risponde ad un’istanza oggettiva di “migliore accesso alla giustizia” (consideranda nn. 2 e 3), che consente di ridurre i costi economici e sociali.

La mediazione si distingue dagli altri “procedimenti stragiudiziali per la composizione delle controversie” perché “può fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie” (dal considerandum n. 6) ovvero la risoluzione “conveniente” (etimologicamente “che si incontra, si adatta”) e “rapida” (etimologicamente “che prende, accoglie in sé, non curando ostacoli”) non è certa in quanto la mediazione è un percorso in cui le parti mettono in gioco le loro capacità, la loro volontà (processo che va sotto il nome di self empowerment) per arrivare a un accordo. Un’altra differenza sostanziale è che la mediazione preserva “una relazione amichevole e sostenibile tra le parti” (dal considerandum n. 6). È una sorta di “educazione alla sostenibilità” in cui le parti comprendono altresì di far parte di un sistema in cui tutto è in relazione, quella relazione che è alla base del principio di solidarietà e sussidiarietà. Infatti, una delle parole più usate nella Direttiva è “relazione” (per es. art. 1 par. 1 “equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”; art. 4 par. 2 “in relazione alle parti”). “Relazione sostenibile” significa che le parti imparano a prendere su di sé impegni, responsabilità e oneri della quotidianità. Anche per questo per tre volte nella Direttiva è usato l’aggettivo “amichevole”, giacché scopo della mediazione è preservare l’amichevolezza che è alla base della convivenza civile. Inoltre l’aggettivo “amichevole” ci ricorda che la mediazione è espressione del “diritto amichevole” o “mite”, com’è stato battezzato dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. La promozione della mediazione, perciò, può rientrare nelle attività del Decennio dell’Educazione allo Sviluppo Sostenibile (DESS) 2005-2014, campagna lanciata dalle Nazioni Unite per sensibilizzare giovani e adulti verso la necessità di un futuro più equo ed armonioso, rispettoso del prossimo e delle risorse del pianeta, valorizzando l’educazione.

Attraverso la mediazione, le parti si riappropriano della fiducia in se stessi e negli altri (considerandum n. 7 “affidamento nel contesto giuridico”; considerandum n. 16 “fiducia reciproca”). Non a caso uno dei verbi più usati è “incoraggiare”, anziché “promuovere”, perché ha un significato più personalistico di infondere coraggio (dalla parola “cuore”) e fiducia.

Dal considerandum n. 11 emergono le differenze tra la mediazione e altri mezzi quali conciliazione e arbitrato, rimarcata dalla definizione del considerandum n. 13 in cui si dice che “le parti gestiscono esse stesse il procedimento e possono organizzarlo come desiderano e porvi fine in qualsiasi momento”. Il verbo “desiderare” rivela che vi è una “com-partecipazione emotiva” delle parti che in tal modo non sono semplicemente parti come “centri d’interessi”. La mediazione rientra così nell’“educazione alla gestione dei conflitti e alla pace”.

Nel considerandum n. 15 si sottolinea che con la mediazione le parti tentano di risolvere una controversia, quindi non si tenta la mediazione ma la risoluzione. Il nostro legislatore, invece, ha avuto una svista terminologica nell’art. 155 sexies cod. civ. “Poteri del giudice e ascolto del minore” quando, a proposito dei coniugi separandi, dice che tentano una mediazione per raggiungere un accordo.

Nel considerandum n. 17 si aggiungono altre caratteristiche quali “la flessibilità e l’autonomia delle parti” e mediazione “condotta in un modo efficace, imparziale e competente”. A proposito di “autonomia”, questa non va intesa solo in senso giuridico ma anche come autonomia di pensiero e di vita rispetto ad uno stato anteriore segnato dalla conflittualità. Inoltre, sempre nel considerandum n. 17 si legge che “i mediatori dovrebbero essere a conoscenza dell’esistenza del codice europeo di condotta dei mediatori”. È bene soffermarsi sulla parola “codice”, perché tutta la mediazione è un riportarsi ad un codice etico e di condotta che va oltre qualsiasi codice scritto.

“La riservatezza nei procedimenti di mediazione è importante” (così si legge nel considerandum n. 23), “a meno che le parti non decidano diversamente” (art. 7 par. 1): riservatezza intesa non solo in senso tecnico ma anche in senso personalistico in quanto le parti, placando l’esagitazione causata dalla conflittualità, si riappropriano di una loro sfera riservata. Dimensione personalistica confermata da alcuni punti della Direttiva ed in particolare dal considerandum n. 27 ed è questa un’altra differenza con gli strumenti di A.D.R. (Alternative Dispute Resolution).

La definizione di mediazione come “procedimento strutturato”, nella lettera a dell’art. 3, fa venire in mente la comunicazione, procedimento strutturato in cui vi è un emittente, un messaggio, un codice, un ricevente. In effetti, la mediazione è finalizzata a ripristinare la comunicazione tra le parti ed il ruolo del mediatore è quello di “conflict coaching”, assistenza (etimologicamente “stare presso alcuno per aiutarlo”) e conduzione “in modo efficace, imparziale e competente” (art. 3 lettera b). La funzione del mediatore dovrebbe essere la stessa di chiunque stia in mezzo a due o più persone, dai genitori agli educatori. Difatti ai genitori e agli insegnanti si chiede sempre più insistentemente che siano “efficaci” e “competenti”. L’imparzialità, neutralità e indipendenza del mediatore sono diverse da quelle del giudice perché non sono tali solo rispetto agli interessi delle parti ma soprattutto rispetto alle emozioni e ai vissuti delle parti. Si può parlare di “neutralità formativa” (il pedagogista Daniele Novara) perché il mediatore non tende ad individuare il colpevole e dare supporto a chi ha ragione (come fa il giudice) ma induce le parti ad uscire dalla conflittualità. La competenza che si richiede al mediatore è fatta di qualità come la capacità di gestione dei conflitti, l’ascolto attivo, la comunicazione diretta, la presenza, il focus (l’esperta Fabrizia Ingenito). Il mediatore, in “complicità sinergica” (così l’esperta F. Ingenito) con le parti, deve far puntare l’attenzione sulla “controversia” (dal latino “controvertere”, volgere di fronte, discutere pro e contro) e sviscerarla. È questo il significato di “percorso” (dal latino “percorrere”, correre attraverso, passare in rassegna, esporre, toccare, cogliere; verbi che possono indicare gli steps della mediazione) in cui si dirime (letteralmente “si divide”), si risolve (letteralmente “si scioglie”), si compone la controversia per giungere eventualmente ad un accordo, che è il risultato.

La mediazione è un’educazione alle differenze (etimologicamente “portare da una parte all’altra” e, quindi, dare un “proprio” apporto), aiuta a comprendere la positività del conflitto, che è un mettere a confronto, far incontrare (dal filosofo Lucrezio), e che non è un dissidio (etimologicamente “separare, appartarsi da coloro con i quali non si consente”) e non è né deve diventare una manifestazione di violenza, considerato che la persona cresce e si forma superando conflitti interiori ed esterni.

Dott.ssa Marzario Margherita

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