Da “presidente napolitano” a “re giorgio”: fine del sistema parlamentare?

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Se fino a qualche tempo fa qualcuno avesse domandato quale forma di governo avessimo in Italia, senza alcun indugio la risposta sarebbe stata che la nostra è una repubblica parlamentare, ossia un regime caratterizzato dalla centralità del Parlamento nell’assetto costituzionale, in virtù di una investitura diretta e a suffragio universale dei suoi membri da parte dei cittadini (eccezion fatta per i senatori a vita).

Nella visione tradizionale della forma di governo in questione – a mero titolo esemplificativo – si ricorda che spetta al Parlamento (riunito in seduta comune ed integrato dai delegati regionali) il compito di nominare il Presidente della Repubblica, di concedere o meno la fiducia al Governo al momento della sua genesi ed eventualmente sfiduciarlo in caso di provvedimenti non rispondenti alla funzione di indirizzo politico delle Camere.

Particolari perplessità sorgono in merito all’inquadramento della figura del Capo dello Stato in un sistema politico-istituzionale come l’attuale, alle effettive modalità della sua nomina, ad una sua eventuale rieleggibilità ed alle funzioni attribuitegli.

Rispettivamente agli artt. 83 e 85, la Costituzione sancisce che il Capo dello Stato viene eletto dal Parlamento riunito in seduta comune – integrato con i delegati regionali – tacendo sulla prorogabilità del suo settennato.

I principali costituzionalisti sono concordi nel ritenere possibile un secondo mandato – poiché la Costituzione non pone alcun limite espresso ad una eventuale rieleggibilità – ma non auspicabile per evitare una eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un unico soggetto per un lungo periodo come quattordici anni.

Con riferimento ai suoi poteri, una disamina puramente ancorata al dato normativo degli artt. 87 e 88 Cost. consente di delineare il Presidente della Repubblica come una figura di garanzia della Costituzione e dell’unità nazionale, con una serie di attribuzioni – più o meno formali – che lo pongono come un quarto potere neutro, imparziale e super partes ed un punto di equilibrio nella stretta rete di collaborazione tra le istituzioni.

Tutte queste certezze – che sembravano assiomi incontrovertibili poiché derivanti direttamente dal dettato costituzionale – stanno lentamente affievolendosi e mutando forma, poiché vi sono forze, anche completamente estranee all’universo politico, che rischiano di detronizzare la stessa Costituzione scritta.

In primo luogo, complici di questi cambiamenti sono sicuramente i mass media, Internet ed i social networks, i quali stanno ridisegnando l’assetto istituzionale del nostro Paese.

Tradizionalmente, si è sempre avuta una percezione intra-moenia del potere politico; difatti, la terminologia spesso utilizzata per definire una concentrazione di potere (aula, palazzo) dava l’idea di una gestione della politica esclusivamente da parte delle personalità a ciò deputate, senza coinvolgimenti o influenze dall’esterno.

Recentemente, tale concezione ha ceduto il passo ad una politica che potremmo definire interattiva, che risente fortemente dell’influsso dei nuovi mezzi di comunicazione.

Se da un lato questo trasformazione è positiva poiché garantisce la realizzazione di una democrazia partecipata dei cittadini che si sentono finalmente protagonisti effettivi delle scelte principali del Paese – e non solo relegati a meri strumenti elettorali o assoggettati silenziosamente a decisioni altrui – dall’altro un’esagerata ingerenza potrebbe creare un impasse ed un depauperamento delle attribuzioni dei governanti, alimentando un senso di antipolitica.

In seconda istanza – premettendo che ogni istituzione è costituita da persone che non cessano di avere personalità e carattere a seguito del conferimento dell’incarico – ben si può comprendere, attraverso un excursus sugli eventi degli ultimi anni, l’atipico ruolo del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che da mero notaio delle dinamiche politiche ne è divenuto principale fautore.

Nel mese di novembre 2011, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi – constatando di non avere più una maggioranza alla Camera – si dimise e Napolitano affidò l’incarico per la formazione di un nuovo Governo al neo senatore a vita Mario Monti, un professore universitario con competenze bancarie e finanziarie che aveva ricoperto prestigiosi incarichi anche all’estero.

Monti diede vita ad un Governo tecnico che traghettasse l’Italia fuori dalla crisi economico-finanziaria che stava attraversando, grazie al sostegno delle principali forze parlamentari.

Senza entrare nel merito della bontà dell’operato del Governo Monti, è lapalissiano che il Presidente Napolitano sia stato il maggiore artefice ed abbia svolto un primario ruolo d’impulso in occasione della formazione del nuovo esecutivo, tanto da esser soprannominato dalla stampa internazionale “Re Giorgio” per la sua fiera difesa delle istituzioni democratiche italiane anche al di là delle strette attribuzioni costituzionalmente affidate ad un Capo dello Stato.

Il Governo Monti si è dimesso anticipatamente nel mese di dicembre 2012, ed in data 24 e 25 febbraio 2013 si sono tenute le elezioni politiche per il rinnovo dei due rami del Parlamento, da cui è uscita vincitrice, seppur in maniera monca, la coalizione del centro-sinistra “Italia. Bene Comune”, il cui candidato premier risultava essere Pierluigi Bersani.

Il Presidente Napolitano – a seguito di varie consultazioni – ha affidato all’On. Pierluigi Bersani un incarico per “verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo”, al fine di formare un esecutivo nel minor tempo possibile.

Bersani, in ossequio alle richieste del Capo dello Stato, ha prontamente iniziato un lungo giro di consultazioni tra le forze politiche e le parti sociali, vedendosi però costretto a rimettere l’incarico in data 28 marzo, per esito infruttuoso delle stesse.

Il quadro politico che ne è derivato è stato dei peggiori: un Parlamento praticamente paralizzato, una notevole difficoltà nel formare un nuovo Governo e l’impossibilità di sciogliere le Camere a causa del “semestre bianco”, quel periodo conclusivo del mandato del Presidente della Repubblica durante il quale – ex art. 88 Cost. – egli non può esercitare il potere di scioglimento delle Assemblee legislative.

Per uscire dallo stallo politico-istituzionale, in molti hanno richiesto le dimissioni anticipate dalla Presidenza, allo scopo di favorire l’elezione di un successore con pieni poteri che potesse –all’occorrenza – sciogliere le Camere (ed indire nuove elezioni) o varare un nuovo governo.

Lo stesso Presidente ha smentito l’ipotesi delle dimissioni e – per rassicurare gli italiani e restituire credibilità al nostro Paese sulla scena politica internazionale – ha ribadito che l’Italia non è sprovvista di un esecutivo poiché è in carica ed operativo il Governo dimissionario e non sfiduciato di Monti, dando l’incarico a dieci eminenti e “sagge” personalità di stilare un elenco di proposte programmatiche per la rinascita del nostro Paese.

Nel frattempo hanno avuto inizio le consultazioni per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica ma, vista la geografia politica frastagliata e ricca di incognite, non si è addivenuti ad un nome comune a più forze politiche tra quelli in lizza (si annoveravano – tra gli altri – Marini, la Bonino, Rodotà, Prodi, D’Alema).

Il 20 aprile 2013 un ampio schieramento parlamentare ha richiesto la ricandidatura di Napolitano – a cui egli ha acconsentito – venendo così eletto alla sesta votazione con 738 voti su 997 votanti e divenendo il primo Presidente della Repubblica ad essere eletto per un secondo mandato.

Il revirement di Napolitano è stato ritenuto da più parti come un sacrificio personale di un uomo di circa 88 anni che ha scelto di seguire la propria coscienza civile, nonostante precedentemente avesse rivelato di sentirsi molto provato, dichiarando che il bene del Paese non poteva ledere la sua libertà individuale di ritirarsi dalle scene politiche.

Nel suo discorso di reinsediamento, egli ha preteso dai partiti un forte senso di “responsabilità” nel fare un passo indietro, accettare le larghe intese e quindi la creazione di un governo di convergenza.

Essendo adesso un Capo dello Stato con pieni poteri, avrebbe potuto sciogliere le Camere o anche una sola – in ossequio all’art. 88 Cost. – nel caso di specie il Senato, fortemente penalizzato dalla legge elettorale del 2005 denominata “Porcellum” che rende difficile la formazione di una stabile maggioranza.

Napolitano, percorrendo la strada della ricerca delle larghe intese, il 24 aprile ha affidato l’incarico di formare il nuovo Governo all’On. Enrico Letta, che ha sciolto la riserva con successo divenendo il nuovo Presidente del Consiglio.

I recenti avvenimenti politici sono la dimostrazione di come talvolta si possa verificare uno scollamento tra la Costituzione formale – che si riferisce al disegno astratto consacrato in un documento giuridico – e quella “vivente” o alla maniera del Mortati “materiale” che – in un approccio dinamico – indica “quel nucleo essenziale di fini e di forze che regge ogni singolo ordinamento positivo” e rappresenta un’evoluzione e non necessariamente un’antitesi della prima.

La Costituzione – da madre di tutte le leggi – appare quasi figlia dello stato di fatto e delle contingenti istanze politico-sociali emergenti in un determinato momento storico.

Alla luce di quanto evidenziato, è necessario valutare se Napolitano – nell’esercitare le sue funzioni – abbia ecceduto i limiti costituzionalmente stabiliti.

Ritenere il Capo dello Stato come un potere neutro non significa attribuirgli poteri soli nominali, giacché gli spetta un ruolo attivo nel garantire un corretto equilibrio tra i poteri e le istituzioni statali, in un’ottica di armonizzazione e “collegamento tra le membra”, citando la metafora organicistica del famoso apologo di Menenio Agrippa.

La definizione di Capo dello Stato come organo super partes ed imparziale “appartiene al mondo delle ricostruzioni mistiche e non delle definizioni realistiche”, poiché i poteri “non sono dati alla Dea Ragione bensì ad un uomo con i suoi vizi e le sue virtù, con le sue passioni ed i suoi inevitabili orientamenti che, nell’esercizio delle sue funzioni, sarà animato dal desiderio di attuare o conservare il proprio potere” (Esposito); il discrimine tra il Capo dello Stato e le altre istituzioni non è l’imparzialità – implicitamente richiesta a tutte – bensì la personalizzazione del potere nelle mani di un unico soggetto, abilitato a prendere decisioni singolarmente.

Definire con precisione quali siano i compiti essenziali del Presidente della Repubblica è un’impresa ardua, resa ancor meno semplice dalle suggestive ed evocative locuzioni da sempre utilizzate per definirlo: “grande regolatore del gioco costituzionale” e “tutore e guardiano della Costituzione” (Tosato); “arbitro supremo” o “equilibratore dei poteri dello Stato” e “non l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre costituzioni” (Ruini); avente “attribuzioni di carattere prevalentemente moderatore” (Mortati); “il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale prima che temporale della Repubblica” rappresentante “l’unità e la continuità della Nazione, la forza dello Stato, che rimane ferma ed uguale nel fluttuare e nel mutare di uomini e di partiti” (Russo Perez).

Attualmente, la nostra forma di governo si configura come un ibrido, poiché formalmente siamo ancora una repubblica parlamentare ma di fatto il presidenzialismo si sta imponendo, mediante la predisposizione di correttivi al parlamentarismo per supplire alle inefficienze dei partiti e delle Camere.

La rappresentanza dell’unità nazionale da parte del Presidente della Repubblica non deve essere meramente poetica, ma deve prevedere un’elasticità delle funzioni ed un utilizzo di poteri personali allo scopo di salvaguardare strenuamente l’unità della comunità statale, fino ad “ergersi reggitore e difensore dello Stato in tempo di crisi, indipendentemente da espliciti riconoscimenti testuali” (Esposito).

La forma di governo di tipo presidenziale – attuando una rigida applicazione del principio della separazione dei poteri – prevede come figura centrale e dominante il Presidente della Repubblica – al tempo stesso Capo dello Stato e del Governo ed eletto direttamente dal popolo, azzerando la funzione di controllo del Parlamento sull’esecutivo.

La realizzazione di un presidenzialismo puro è improbabile, ma in molti reclamano un allineamento della Costituzione formale a quella vivente attraverso una riforma almeno in senso semipresidenziale, che comporti un potenziamento delle competenze del Presidente del Consiglio (che da primus inter pares diventerebbe premier) e l’elezione diretta del Capo dello Stato da parte del popolo; il tutto mediante il procedimento di revisione costituzionale ex art. 138 Cost..

Vi sono anche alcuni studiosi (tra tutti, Bin) che non ritengono sussistente una modifica di fatto dal parlamentarismo al presidenzialismo, avallando tale tesi con l’analisi dello “spazio topologico” della forma di governo parlamentare, l’area del triangolo i cui vertici sono rappresentati da Parlamento, Governo e Presidente della Repubblica.

È stato sapientemente studiato come una deformazione del triangolo non ne interrompa la continuità e dipenda preminentemente dall’operato del Capo dello Stato in risposta al comportamento delle altre due istituzioni.

La Presidenza di Napolitano non ha prodotto lacerazioni, interruzioni e sovrapposizioni nello spazio topologico – tali da rendere desueta la Costituzione formale – poiché la vaghezza delle norme costituzionali lascia un’ampia possibilità di azione al Presidente, soprattutto in considerazione della situazione emergenziale attraversata dall’Italia, senza necessariamente considerarlo reggitore in tempo di crisi alla maniera dell’Esposito.

È indubbio, però, che la gestione della Presidenza da parte di Giorgio Napolitano – e la sua rielezione – segnino se non il passaggio di fatto ad un sistema semipresidenziale o presidenziale puro, almeno un precedente “scomodo” e “pericoloso” che potrebbe far sentire autorizzati i suoi successori a sconfinare dalle tradizionali attribuzioni.

In passato, il Presidente della Repubblica ha incarnato la gloria repubblicana e si è posto come il cerimoniere dei riti costituzionali, ad esempio di consultazioni e giuramenti, la cui massima trasgressione era l’apposizione in alcune occasioni del veto sospensivo alle leggi approvate dalla Camera, ex art. 74 Cost.; oggi è diventato il punto di riferimento in un panorama politico sempre più intricato, in grado di condizionare le principali decisioni del Paese e di originare una prassi che sembra vincolare la nomina del futuro Presidente del Consiglio non soltanto alla fiducia delle Camere, ma anche a quella preventiva del Capo dello Stato.

D’Imperio Mariangela

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