Da Cavour a De Stefani: Evoluzione dell’assetto del personale della P.A. – Parte prima

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            Fino al 1908 l’Amministrazione italiana non ha avuto un Testo Unico riguardante il pubblico impiego, la normativa a carattere sparso era compattata dagli interventi giurisprudenziali, essa poggiava la propria organizzazione sul regolamento approvato con R.D. 23/10/1853, n. 1611 emanato in esecuzione della L. 23/3/1853, n. 1483 e concernente l’ordinamento dell’Amministrazione centrale dello Stato piemontese; l’art. 1 della L. 23/3/1853, n. 1483, concentrava gli uffici sotto l’immediata direzione dei Ministri, mentre il successivo art. 2 stabiliva una uniformità per quanto attiene stipendi e gradi tra le varie Amministrazioni.

            L’uso del Regolamento in luogo della legge corrispondeva alla visione dei Ministri come unici responsabili degli atti del potere esecutivo e perciò unici titolari del potere di determinare le funzioni da delegare ai capi delle Direzioni Generali (1).

            Il modello adottato era quello francese e belga con due varianti: 1°) L’unicità della carriera, in quanto entrati come applicato amanuense si saliva la carriera gerarchica secondo merito con ottimi stipendi di base e selezione rigida. 2°) Creazione dei direttori generali, aventi caratteristiche eminentemente politiche di raccordo tra apparato burocratico ed elemento politico (ministro).

            Questa particolare posizione di forza del ministro nei confronti dell’apparato burocratico non lo si intende se non si riconosce nel re il titolare del potere esecutivo e nei “suoi” ministri gli agenti supremi delegati per le singole funzioni, consegue che la burocrazia si esauriva nei titolari dei poteri amministrativi, i quali consistevano negli “agenti”, amministrazione attiva, e nei “consiglieri”, amministrazione consultiva (2).

            Il restante personale non era legato da un rapporto pubblico, ma bensì costituiva una moltitudine di locatari d’opere legati alla pubblica amministrazione da rapporti puramente privatistici, infatti, osservava il Giriodi: “Il concetto di funzionario rappresenta qualche cosa di più nobile e più elevato nei confronti a quello di impiegato; giacché nel primo vediamo soltanto il cittadino che partecipa alla gestione della cosa pubblica, indipendentemente da qualsiasi mira di lucro o vantaggio personale; mentre invece il secondo non è che un locatore di opera che presta dei servizi per un determinato corrispettivo” (3).

            La particolare struttura quasi totalmente delegificata che si viene a costruire con la legge del 1853 e successivamente all’Unità si estende su tutto il territorio, la si spiega solo con il tessuto sociale da cui proviene il personale. Occorre preliminarmente osservare che sia il vertice burocratico che politico derivava dalle medesime classi dell’aristocrazia e dall’alta borghesia, mentre per il restante personale elemento di unione era la comune matrice culturale piemontese, inoltre non è da sottovalutarsi che gli apparati risultavano estremamente ridotti in quanto, con le riforme liberistiche in atto in quegli anni, si riteneva che compito dello Stato fosse quello di assicurare l’esercizio delle proprie ineliminabili potestà, consistenti essenzialmente nell’assicurare la difesa all’esterno e la tranquillità all’interno in modo da favorire l’attività imprenditrice della nuova classe borghese nascente.

            Il “piemontismo” della burocrazia dura fino agli ultimi decenni del secolo quando si passa gradualmente ad un allargamento sociale del reclutamento del personale, favorito anche dall’estensione sempre maggiore degli interventi pubblici, con un conseguente progressivo fenomeno di “meridionalizzazione” causato sia dal dislivello economico che dalla diversa matrice culturale esistente all’interno del territorio nazionale (4).

            Gli interventi legislativi che si susseguirono dalla metà del secolo all’inizio del ‘900 furono caratterizzati da una serie di interventi piuttosto frammentari come la L. 7/7/1876, n. 3212 riguardante il riordino di tutti gli stipendi subordinatamente alla riforma degli organici delle amministrazioni, a seguito di tale legge vennero approvati una serie di decreti riguardanti i ruoli organici dei singoli ministeri, ne derivò una distinzione frammentaria del personale in categorie secondo il titolo di studio necessario per l’assunzione senza l’intervento unificante di una norma di legge a carattere generale. Tutti i tentativi di varare una legge generale sull’ordinamento dell’amministrazione succedutisi dal 1870, progetto del ministro Lanza, al 1903, progetto Zanardelli, fallirono anche a seguito del distacco tra impiegati e salariati realizzato per mezzo della figura della locatio operarum contrapposta a quella del pubblico impiego (5).

Gli impiegati vengono in questo periodo cooptati progressivamente dalla classe dirigente in quanto strumento della sua attività a differenza del lavoro salariale che rimane un semplice fattore di produzione, questo si riflette anche in giurisprudenza dove si distingue tra “prestazione d’opera puramente manuale o richiedente un limitato grado d’intelligenza ed istruzione” che induce la qualità di salariati e “quella invece d’indole più elevata delle mansioni d’ufficio e … improntate a carattere di diritto pubblico” che importa la qualifica di impiegato (6).

            Seppure la classe impiegatizia, così cooptata, non intenda essere assimilata ai salariati, né vi è un elevato numero di operai nell’amministrazione essendo le attività economiche ad interesse pubblico gestite prevalentemente mediante concessioni (es. Ferrovie), almeno fino verso la fine del secolo, un certo malumore si diffonde sia per l’insicurezza del posto di lavoro che per gli stipendi piuttosto modesti, le rivendicazioni tuttavia non assumono la forma di attività sindacali bensì del clientelismo politico, con il conseguente effetto che gli impiegati più vicini al ministro ottengono maggiormente, scalando dalla dirigenza all’amministrazione centrale, alla periferica. Il malumore dei gradi più bassi viene sostenuto da una parte della classe politica che tende così ad accaparrarsi le simpatie del ceto medio, la pressione raggiunge il massimo all’inizio del ‘900 con il primo sviluppo industriale in epoca giolittiana (7).

            Abbiamo detto che per tutta la seconda metà del secolo scorso non vi furono interventi organici e solo la giurisprudenza provvide a sistematizzare la materia, elaborando dei principi che furono recepiti nel T.U. del 22/11/1908, n. 693.

            Il Consiglio di Stato all’epoca afferma che “finché non intervenga una legge del Parlamento, che determini i poteri del governo e ne regoli l’esercizio, è stato ritenuto, ed è regola costantissima, che il Governo ha facoltà molteplici e larghe che… non trovano ostacolo nella posizione attuale degli impiegati e giungono fino alla soppressione dei posti esistenti col collocamento in disponibilità dei funzionari che li occupavano”, tuttavia “nel passaggio dal vecchio al nuovo organico ragioni di equità e convenienza consigliano che la posizione degli impiegati in servizio sia rispettata quanto più è possibile e sempre compatibilmente con la nuova organizzazione e col nuovo indirizzo” (8).

            Questa doppia funzione della giurisprudenza, ossia di chiarire gli indirizzi legislativi piuttosto frammentari dell’epoca e contemporaneamente di tutelare le situazioni soggettive dei singoli, si evidenzia nell’evoluzione del concetto di locatio operarum applicata al rapporto di impiego pubblico. Da un rapporto privato puro si passa a concepire la locatio operarum come corredata da un insieme di tratti particolari che rendono il contratto di diritto privato un contratto sui generis, applicabile dapprima agli “impiegati pubblici” in generale con l’esclusione dei “funzionari” e successivamente applicato alla sola categoria residuale dei “salariati” (9).

            Con il T.U. del 22/11/1908, n. 693, con cui si crea per la prima volta in Italia un sistema normativo organico, Giovanni Giolitti dà una risposta alle pressioni ed al malcontento del ceto impiegatizio, sia per quanto riguarda la sicurezza del lavoro contro l’ampia discrezionalità dell’amministrazione, sia per l’aumento dei benefici economici con il moltiplicare ed uniformare tra le varie amministrazioni delle categorie e dei gradi, recependo così il dettato della legge 25/6/1908, n. 290.

            Gli impiegati vengono distinti in tre categorie: amministrativi, di ragioneria e di ordine, secondo una distinzione che già si rinviene nel secondo progetto Lanza, e l’ammissione avviene mediante concorso le cui modalità restano tuttavia regolate autonomamente da ciascuna amministrazione. La struttura burocratica rimane marcatamente gerarchica secondo le forme assunte nei regolamenti delle singole amministrazioni entrati in vigore nei decenni precedenti, con una netta differenziazione sia tra funzionari ed impiegati che tra questi e gli altri dipendenti (10).

            Si afferma nettamente il carattere pubblicistico del rapporto di impiego, come del resto è rilevato chiaramente dalla stessa giurisprudenza la quale sottolinea che “il rapporto di impiego è essenzialmente di diritto pubblico, anche quando precise norme siano dettate a tutela degli interessi dell’impiegato” (11).

            La frattura tra impiegati e salariati si estende dal pubblico al privato in quanto anche nel privato si tende a garantire una carriera al solo impiegato con un tipico “contratto di impiego”, in netto contrasto con la instabilità propria del “contratto di lavoro” del salariato. Si tende così a creare la pace sociale all’interno delle imprese spezzando l’unità dei dipendenti ed assicurandosi la fedeltà del ceto impiegatizio: sempre in quest’ottica si deve leggere l’emanazione del d.l. 9/2/1919, n. 112, sull’impiego privato, che sembra attenuare le differenze giuridiche tra impiegati pubblici e privati (12).

            Tuttavia una differenza basilare persiste ed è costituita dal carattere pubblicistico autoritario nell’impiego pubblico e puramente contrattuale per quello privato, differenza facilmente rilevabile da un raffronto tra il T.U. del 1908 e la legge del 1919.

            Le rivendicazioni cessarono per alcuni anni con un parallelo rifluire del sindacalismo, ma ben presto risorsero motivi di attrito sia per le retribuzioni inadeguate che per le carriere eccessivamente lente, inoltre la prima guerra mondiale fece allargare enormemente gli organici per l’assunzione di nuove funzioni in materia sociale ed economica da parte dello Stato. Si crearono in tal modo le premesse per il R.D. 23/10/1919, n. 1971 con il quale si introdussero le promozioni a ruolo aperto riducendo al contempo i gradi nell’ambito delle carriere e disciplinando per la prima volta l’istituto della “dispensa dal servizio”, mediante il quale si provvide ad iniziare una vera e propria riduzione degli organici.

            Gli interventi legislativi che affiancarono questo decreto furono comunque frammentari e non intaccarono sostanzialmente la struttura del T.U. del 1909 né la filosofia gerarchica – autoritaria che ne era alla base.

            Si deve precisare che la supposta “ipertrofia burocratica” non trova giustificazione nei dati oggettivi, tenendo presente l’allargamento dei servizi pubblici, si può perciò avanzare l’ipotesi che l’azione del governo avesse dei fini diversi che andavano dalla restaurazione dell’autorità all’interno della struttura, alla riduzione dell’intervento statale nell’ambito economico (13).

            Anche il Consiglio di Stato adottò una linea giurisprudenziale che affiancò l’operato delle apposite commissioni, la tanto conclamata stabilità del rapporto di pubblico impiego venne disattesa considerato che “il procedimento per l’esonero dal servizio di un impiegato per scarso rendimento è qualche cosa di essenzialmente diverso dal procedimento disciplinare e non richiede, quindi, l’applicazione delle garanzie procedurali stabilite per questo ultimo a favore degli interessati” (14).

            Il travaglio legislativo di questi anni si affianca al travaglio politico che precede la salita al potere del fascismo, la marcia su Roma con il conseguente insediarsi al potere del P.N.F. determina una svolta nella frammentarietà degli interventi legislativi. Riprendendo le parziali riforme in atto si aumenta la pressione gerarchica e al contempo si procede al riordino generale della materia, accelerando l’epurazione sia per fini di risanamento economico che per assicurarsi l’efficienza e la fedeltà degli impiegati.

            Si perviene in tal modo alla riforma De Stefani che si concretizza in due regi decreti: l’uno riguardante l’ordinamento gerarchico del personale civile dello Stato, R.D. 11/11/1923, n. 2395, l’altro lo stato giuridico, R.D. 30/10/1923, n. 2960. La novità più eclatante è la restaurazione del sistema a “ruolo chiuso” che, eliminando uno dei capisaldi della riforma del 1919, ritorna al sistema giolittiano del 1908; vengono altresì eliminate le tre carriere tradizionali (amministrativa, ragioneria, d’ordine), ricomprendendo tutto il personale civile in tre categorie distinte per titolo di studio (direttivi, di concetto, esecutivi).

            Il modello adottato è quello militare di cui oltre la struttura se ne vuole mutuare lo spirito, infatti nella Relazione al Re si afferma che non si tratta di una “ordinaria prestazione d’opera alla quale corrisponde un semplice e  materiale corrispettivo economico, ma bensì un rapporto etico …. di fedeltà”. Sempre rifacendosi alla Relazione al Re, le linee direttive sono individuate nel “1°) fissare l’equivalenza dei gradi fra impiegati addetti a servizi diversi e perequare il trattamento economico tra gli impiegati dello stesso grado; 2°) far corrispondere alla gerarchia dei gradi la gerarchia degli stipendi; 3°) eguagliare, nei limiti del possibile, le probabilità di carriera tra gli impiegati addetti ai vari rami dell’amministrazione statale; 4°) fissare gli organici relativi a ciascun servizio; 5°) costruire un ordinamento atto ad attenuare il prodursi delle lamentate sperequazioni; 6°) adeguare meglio le retribuzioni all’importanza del grado; 7°) assicurare nelle promozioni un conveniente processo di selezione” (15).

            Il sistema eccessivamente rigido portò, nella pratica amministrativa alla creazione di figure non previste rientranti nel personale fuori ruolo, ma fatto più grave indusse la dirigenza a sostenere la formazione di enti pubblici retti dalle norme di diritto privato. Nonostante la reazione giurisprudenziale il sistema privatistico di questi enti venne mantenuto e con l’introduzione del sistema sindacale fascista nel ’26 gli enti e i loro dipendenti furono inquadrati nelle associazioni sindacali riconosciute, sanzionando la distinzione tra enti pubblici imprenditoriali con rapporto di lavoro privato, ed enti pubblici non imprenditoriali, con rapporto di impiego pubblico (16).

            La legislazione del ventennio successiva alla riforma De Stefani non fu molto abbondante e tesa piuttosto a sistemare e completare l’opera iniziata, infatti si tese ad accentuare la disciplina interna, fascistizzando l’apparato statale. Tra la normativa più rilevante si segnala il R.D.L. 16/8/1926, n. 1387 con cui si fa divieto di nuove assunzioni prolungando l’orario e accelerando contemporaneamente i metodi di lavoro; il R.D. 6/1/1927, che aggiunge fra le precedenti la nuova ipotesi di dispensa dal servizio per “infedeltà politica”; il Decreto del Capo del Governo del 17/12/1932, con cui viene rimosso il divieto delle assunzioni ma con l’obbligo dell’iscrizione al P.N.F., si deve comunque osservare che nella realtà l’obiettivo della fascistizzazione non viene raggiunto se non superficialmente come espressione di opportunismo, peraltro a seconda delle amministrazioni (17).

 

NOTE

 

  1. Atti del Parlamento Subalpino, sessione 1852, Documenti, I, Firenze, 1867, p. 96;
  2. De Giovannis Gianquinto, Corso di diritto pubblico amministrativo, II, Firenze, 1879, p. 456;
  3. Giriodi, I pubblici uffici e la gerarchia amministrativa, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano a cura di V.E. Orlando, I Milano, 1900, p. 228;
  4. Sabino Cassese, Il sistema amministrativo italiano, Il Mulino, 1983, p. 45 e ss.;
  5. Enciclopedia del diritto, voce Impiego statale, Giuffrè, nota 16, p. 309;
  6. Corte Napoli, 9/7 – 3/8/1907, in Foro Italiano, Rep. 1907, imp. com., 17-21;
  7. Mario Rusciano, L’impiego pubblico in Italia, Il Mulino, 1979, pp. 55-57;
  8. Cons. Stato 18/4/1902, Giustizia amministrativa, 1902, p. 215;
  9. Enciclopedia del diritto, voce Impiego pubblico (teoria e storia), Giuffrè, pp. 297-298;
  10.   M. Rusciano, citato, pp. 66;
  11.   Cons. Stato, v, 10/6/1910, in Foro amministrativo, Rep. 1910, imp. pubblico, 20;
  12.   U. Borsi, Nuovi orientamenti e nuovi profili del diritto amministrativo italiano, in Riv. Pubbl., 1920, p. 14;
  13.   S. Cassese, citato, p. 49;
  14.   Cons. Stato, IV, 15/12/1922, in Giustizia Amministrativa, 1922, p. 477;
  15.  Testo integrale della Relazione al Re, allegato al R.D. 30/12/1923, n. 2960;
  16.  Enciclopedia del diritto, citato, p. 299;
  17.  Renzo De Felice, Mussolini il fascista – L’organizzazione dello Stato totalitario: 1925-1928, Einaudi 1968, pp. 344-346.

 

(Rielaborazione della relazione presentata dall’autore alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione – Roma)

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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